A.P. Settimana di tv. L’altra sera, come tutti, ho rivisto stancamente qualche puntata di Euphoria. Avevo già pronto il commento boomer. Ridatemi i miei Larry Clark e gli Harmony Korine, zozzi e “artistici” come le vecchie foto di David Hamilton, che ne sapete voi?! Non ho niente contro Sam Levinson showrunner figlio d’arte ma non mi tolgo dalla testa l’impressione che non rischi mai davvero. Del resto: come si fa a rischiare qualcosa in una serie tv? Nelle serie tv non si fa mai male nessuno. E guarda alle volte il caso: su un altro canale a tarda notte ridavano Scarlet Diva di Asia Argento. Un cult assoluto. Sai la scena in cui lei ricostruisce le molestie di Weinstein con una messinscena tipo recita scolastica? Beh, all’epoca mi aveva infastidito il fatto che nessuno gliel’avesse detto, il film era folle, girato da cani. Oggi mi devo ricredere. Le imperfezioni te le puoi permettere solo quando rischi qualcosa. Parlo come un allenatore di serie B. Oddio.
G.R. Anche io l’altra sera, come tutti, ho guardato Inventing Anna, la serie di Netflix sulla finta ereditiera che truffa mezza New York. Storia vera e morale vecchia: si rischia solo per diventare famosi e arricchirsi. Da Madoff al Tinder Swindler (il film, sempre Netflix), da Tangentopoli a Wanna Marchi, la scum culture è la trap delle serie tv, stessa sceneggiatura verticale dal basso verso l’alto, dal ghetto all’Hilton, da zero a milioni di follower in un episodio, o un disco. Poi la caduta, che è tutto tranne che letteraria, è l’oblio, la fine dell’hype.
A.P. Ho pensato alla stessa cosa guardando un Porta a porta con i protagonisti di Tangentopoli trent’anni dopo: il giudice Colombo, asciutto come un monaco, Bobo Craxi, Cirino Pomicino, Il compagno G che aveva lasciato i segreti in una borsa nell’ufficio accanto allo studio, e gridava. Nessuno sembrava rassegnato a niente, neppure all’arco narrativo – inevitabile, come sanno bene i compagni di Netflix. Un eterno presente in hd. Ecco: c’è un’altra cosa per cui Scarlet Diva mi ha colpito l’altra sera ed è la pasta, i colori. Il film fu girato con una telecamera in beta digitale da Frederic Fasano, bravissimo, poi trasferito sul 35mm. Perché vent’anni fa le immagini avevano ancora un corpo, non erano puri fantasmi digitali. Così arrivo al cuore della mia nottata televisiva: il doc su Kanye West, jeen-yuhs. Ci spiega che per gli afroamericani, nell’hip-hop soprattutto, la ricerca del successo è qualcosa a metà tra lo sport e la religione, tra la predestinazione e la rivelazione. Ma è soprattutto la storia di un matto più matto di lui, un ex comico che molla tutto quando Kanye non è nessuno per documentare h24 con una telecamera la scalata al successo. Che colori. Che pasta. Sullo schermo compaiono pure i disturbi e le righe del tracking del nastro, te li ricordi?
G.R. Del resto la nostra idea di successo l’abbiamo esportata in tutto il mondo con Berlusconi, il king delle post democrazie che ha ispirato la nuova oligarchia globale. Se guardi bene il tavolone meme dell’incontro tra Putin e Macron, dietro ci vedi il Berlusca di Sorrentino, il lettone della D’Addario, le cene eleganti, Cascella e Apicella. Quindi a noi Checco Zalone, e a loro Kanye West. C’è una cosa che mi ha colpito nel primo episodio del doc sul rapper di Chicago, quando va a casa a trovare la madre Donda. Lui le mostra un costoso pendaglione d’oro che ha al collo, e lei prima gli fa notare che non si è ancora comprato una casa, e poi gli dice: «Ci saranno sempre delle case, quindi ok la collana ora». Capito? Fanculo il mutuo e l’appartamento di proprietà, addio alla visione boomer dell’american dream, evviva il bling bling, segui la tua onda.
A.P. Hai visto i video di Shiva? Il trapper dico. Mettili in fila e sembrano quasi una serie. Parte dalle case popolari di non so dove coi compari della ballotta e i motorini truccati, ed è arrivato a ‘sto appartamento di Milano centro con vista grattacieli, sushi con gli amici, macchinoni, una ragazzetta/modella così per benino che neanche nei film di Nino D’Angelo. Anzi no, nell’immortale Adesso tu di Eros Ramazzotti (ricordo che gli autori Cossano-Cogliati avevano quarant’anni e scritto canzoni minori per Caselli e Zanicchi). Posso dire che mi sembra un sogno piccolo piccolo? Va bene la trascendenza alla Kanye West, ma non costringeteci ogni volta a ricominciare da zero. Ricordate che sul racconto della periferia e sui sogni dei poveracci si è costruito mezzo cinema e mezza letteratura italiana. Abbiamo avuto Pasolini e Caligari, mica comincia tutto con Gomorra e Compton. Vabbè. Fate come vi pare.
G.R. Alla fine parliamo sempre di rapper e trapper, altrimenti che boomer saremmo? Ho ascoltato i dieci minuti – dieci! – del nuovo singolo di Egreen, duro e puro della old school di Milano e provincia. Si chiama Incubi ed è un flusso di coscienza in barre, autofiction dagli esordi a oggi, tra storiacce personali, successi e fallimenti professionali. C’è materiale per un romanzo alla Ocean Vuong, e lui ne ha fatto un pezzo su Spotify. Ma forse ha ragione Egreen, se sapessi rappare ci proverei anche io, come autoanalisi catartica per uscire da questo lockdown delle intenzioni.
A.P. Io ho visto un servizio su Tananai al Tg1. Sono sicuro che lui abbia salutato tutt* con la schwa. C’è ancora speranza.
G.R. Piccoli segnali. Ho visto Guè intervistato a tarda notte da Andrea Delogu su Rai 2. Lei gli chiedeva quale fosse la sua più grande ansia pensando al futuro di padre di una bimba che avrà 16 anni nel 2038. E Guè non era preoccupato del fidanzatino che avrebbe portato a casa, ma della musica che sua figlia avrebbe ascoltato. Nel 2038 sarà costretto a chiedere al trapper fake del momento un video-saluto o un autografo per la figlia e quel pensiero non gli va giù. Ha ragione, è un pensiero che spaventa, ma c’è speranza, ci possiamo lavorare su questo futuro.
A.P. Stasera c’è il Festival di San Marino. La Seconda Possibilità. Vado, magari ti mando un messaggio.