Fran Lebowitz non ha un cellulare né una connessione wi-fi. È una scrittrice, ma non scrive un libro da quarant’anni (fatta eccezione per un racconto per bambini del 1994 che ha avuto successo in Italia e in Giappone). Non ha un abbonamento a Netflix, ça va sans dire, ma il suo documentario Pretend It’s a City, in cui è diretta dal regista e amico Martin Scorsese, l’ha fatta conoscere «in 190 Paesi» (cit. per chi va ancora al cinema) per il suo umorismo sferzante e dissacratorio. Vive a New York praticamente da sempre, ma quando il pubblico le chiede che cosa è cambiato da quando ci è arrivata, risponde: «È meno pericolosa degli anni ’70, quando la metà degli abitanti si faceva di eroina. Ma da allora continuo a chiudermi a chiave quando sono in casa».
In un’epoca che ha fatto dell’avere un’opinione una professione e in cui tutti, ma proprio tutti, hanno qualcosa da dire (e probabilmente lo diranno in un libro che venderà un paio di centinaia di copie, non in Giappone e probabilmente neanche in Italia), Fran Lebowitz, in quasi due ore di spettacolo, sciorina insegnamenti, sentenze e aforismi da manuale che hai subito voglia di ricopiare sul diario come facevi alle medie, e con cui siamo d’accordo così tanto, ma così tanto, che annuiamo persino quando ci dice che in fondo apprezza i bambini perché sono «liberi dai cliché e hanno ancora un pensiero originale. Ma questo non significa che sia bello essere bambini. È bello essere bambini quando si è adulti».
Fran Lebowitz è una che si lamenta per natura («I complain by nature» è la frase che vorrei sulla mia lapide) e dà opinioni su tutto e tutti solo perché ora può farlo liberamente. «Da piccola nessuno mi chiedeva niente, perché ai bambini non si dovrebbero chiedere opinioni. Quando ero bambina, mia madre pretendeva da me due cose: buone maniere e una grammatica perfetta». E questo spiega perché è una, perdonate il termine, grammar nazi. Ma di quelle gentili, di buone maniere (appunto), che arrivano a correggere il plurale di mouse al proprio aggressore in metro.
Non si considera un’attivista né una femminista. «Non ho mai voluto cambiare il mondo. Ho solo cambiato il mio mondo per far sì che potesse andarmi bene. Ecco perché mi sono trasferita a New York non appena ho potuto». Dai tanti lavori che ha svolto, da tassista a donna delle pulizie per alberghi, ha imparato solo che non le piace lavorare, «ma sto ancora lavorando al mio libro da Nobel che uscirà presto».
Quando pensi che Fran abbia decifrato il presente già nei primi dieci minuti di conversazione come solo quelli bravi sanno fare, ecco che ci si ritrova a parlare di cancel culture e di suscettibilità contemporanee. «Se ho mai avuto paura di essere cancellata? Probabilmente sono già stata cancellata, ma non lo so ancora. Non so cosa puoi o non puoi dire oggi negli Stati Uniti. So però che c’è una differenza tra fare qualcosa e dire qualcosa. Credo che non sia un crimine dire quello che si vuole. Tutto deve poter essere scritto, detto, inciso». E per chi si offende «la risposta dovrebbe essere: “E allora?”. Se una cosa non ti piace o ti dà fastidio, non leggerla, non ascoltarla, ignorala. La cosa peggiore del politically correct, della “wokeness”, è che è diventata un’arma in mano ai repubblicani, che la utilizzano per difendere la libertà di pensiero».
Da qui, una riflessione sulla politica degli Stati Uniti: «Biden è vecchio e qualcuno dovrebbe farglielo notare, per esempio la moglie». E un’ammissione di colpa: «Quando Trump si è candidato alle presidenziali, ero assolutamente certa che non avrebbe vinto. Ecco, quella è stata l’unica volta in cui non ho avuto ragione. Ma una mia amica mi ha detto che se non guardo la tv non potrò mai capire questo Paese».
La seconda parte dello show lascia spazio alle domande del pubblico. Che, oltre a essere specchio del Paese reale quasi più della tv del pomeriggio o delle dirette Instagram (qualcuno a un certo punto cita Pirandello, ma nessuno capisce la domanda e io mi sento subito al liceo), mi portano a pensare che forse vorrei persino tatuarmeli, i pensieri di Fran, che ormai chiamo per nome già da un po’ di righe perché la sento amica e spirito guida. «Se ho paura dell’Intelligenza Artificiale? Ho più paura dell’intelligenza umana. Capisco che molti sono preoccupati di perdere il lavoro, ma a me non importa. Io non perderò il lavoro, o sarò già morta». Altra frase memorabile: «Online dating is like ordering food» (questa non la traduco per rispetto). E quando dalle primissime file le chiedono se i podcast siano destinati a durare, risponde: «Niente è destinato a durare. Neanche i podcast. O magari ci penserà l’Intelligenza Artificiale a produrli».
Mentre sono in coda per il bagno con Alessandro Cattelan e rileggo gli appunti presi durante la serata, penso solo al fatto che non avrò un diario su cui poter annotare i Fran-pensieri né troverò un tatuatore aperto fino a domani mattina (poi la mattina rinsavirò, o almeno lo spero). In compenso, ho avuto la possibilità di scrivere questo articolo. Che, come tutte le cose, non sarà destinato a durare.