I fanatici. Chi perde cinque minuti per decidere quale paio di calzini indossare al risveglio non può non invidiarli, i fanatici. Se funziona così per l’alternativa tra rombi e pois, come decidere indubitabilmente dove sta la ragione e dove il torto in una lite, in un amore, in una guerra, in uno scontro politico, in un processo? Il dubbio è una malattia cronica, un’ipertrofia della ragione che condannerà l’uomo all’estinzione come avvenne per le smodate dimensioni della tigre dai denti a sciabola. Il dubbio è una metastasi concettuale, un feticismo del forse.
La malattia può essere curata solo in due modi: con la lobotomia o con il fanatismo. Nel primo caso servono martello e scalpello, nel secondo basta una Dottrina. E allora i fanatici abbracciano La Dottrina. Poi partono da un presupposto manicheo, rilassante e curativo: da una parte c’è la ragione assoluta, La Mia Dottrina; dall’altra il torto assoluto, la tua opinione. Io sto di qua; chi non è d’accordo con me, di là. Io sono Salvo, gli altri sono peccatori. Io sono il Bene; gli altri, il Male. Il fanatico è sempre e prima di tutto un fanatico delle maiuscole. Le minuscole, e cioè la resa sintattica della pluralità, il carattere delle sfumature, è un cavillo per le coscienze sporche, per chi almanacca e discetta, per i collusi col Peccato. Solo gli Assolutizzatori sono capaci di odiare in maniera assoluta. Qualsiasi spettatore dell’ultima puntata di Piazza Pulita non può che associare allo sguardo di Piercamillo Davigo verso Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, una sola, esaustiva, cristallina parola: Odio. Caiazza non adora il Bene, Caizza è il Male.
Dio mio, che bellezza stare dalla parte del Bene. Convertire l’idea in l’ideologia, accomodarsi nel morbido già-deciso dello stereotipo, votarsi alla Certezza, attraversare la vita con il pilota automatico inserito. Come Girolamo Savonarola, Maximiliene De Robespierre – detto l’Incorruttibile – o, appunto, Piercamillo Davigo: Presidente della II Sezione Penale presso la Corte Suprema di Cassazione e Membro Togato del Consiglio Superiore della Magistratura – sotto il fuoco mediatico per il caso Palamara.
Il buon frate domenicano credeva – come credono, più o meno segretamente, tutti i fanatici – di avere il dono della profezia. “…In questi tre modi abbiamo avute e conosciute le cose future, alcune in uno alcune in un altro; benché in qualunque di questi modi io le abbia avute, sempre sono stato certificato della verità per el lume predetto. Vedendo lo onnipotente Dio multiplicare li peccati della Italia, massime ne li capi così ecclesiastici come seculari, non potendo più sostenere, determinò purgare la Chiesa sua per uno gran flagello”. Sostituite le u con le o, Dio con Io, la Chiesa con la Società, e avrete pressappoco la Dottrina del religioso in cravatta fratel Piercamillo.
Ed eccolo lì, il Buon frate, confrontarsi con l’avvocato Caiazza. Un Colpevole, quell’avvocato, poiché sostiene il caso Palamara riveli i difetti strutturali del sistema delle procure – quelli dei calzini di cui sopra, per ora, recidivi, a oltranza, dicono: forse. Eccolo lì, Davigo, le braccia conserte, nella posa del “sentiamo un po’ che ha da dire quest’imbecille”, gli occhi sottili per prendere meglio la mira, la lingua che guizza sulla bocca secca per prepararla alla masticazione, un atteggiamento tutto che dice: me la pagherai. Fratel Piercamllo già sogna – anzi, profetizza – il Falò delle Immunità.
Ieri sera abbiamo ascoltato, per mezzo dell’apocalittica voce del frate, la traduzione giurisprudenziale del dono profetico di Savonarola: “L’errore italiano è stato quello di dire sempre: ‘Aspettiamo le sentenze’.” Prendi un cieco. Tu gli dici: bella quella statua. E lui ti dice: aspetta un attimo, fammela toccare. Ecco, i profeti stanno ai vedenti come i non profeti ai non vedenti. Non c’è bisogno che tu lo palpi e lo tasti, quello lì: quello è un peccatore, te lo assicuro io, io che lo Vedo. Chi è il peccatore? Va da sé: chiunque non sia fratel Piercamillo. Non essere Davigo, non esserlo mai, proprio mai, né sul marciapiede né al bar né in una bara, equivale alla flagranza di reato. Come si permettono, questi, di non essere me?
Ha continuato a illuminare di scintille eterne questo nostro Regno delle Tenebre, così: “Se invito a cena il mio vicino di casa (un vicino, va ammesso, che accettando l’invito mostra un lodevole bisogno di espiazione) e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo”. I crimini sono per definizione commessi in flagranza di reato. Non esiste il dubbio: niente fraintendimenti, niente traveggole, niente punti di vista terzi, niente confronti: il vicino è il Male – non vorrei essere nel vicino di fratel Piercamillo rimasto a corto di uova: mi immagino l’indice tremebondo con cui suona il campanello Davigo. Il “non invitarlo di nuovo”, dalla prospettiva del Bene, non è questione di galateo, non è una ripicca per ristabilire le regole del buon vicinato, significa piuttosto levargli il lavoro, al vicino, la dignità, e, magari, la libertà.
Savonarola o, come dicevan tutti, Davigo ha poi detto che giustizialismo è un termine inventato. Cioè, mica si trova naturalmente sottoterra o appeso agli alberi come “albicocca” o “gnoseologia”. Il neologismo è un complotto dei criminali, cioè di chiunque non dimostri di non essere un Criminale. Chi scrive si arrende subito, perché è pigro: non potrà dimostrare di non essere un criminale. Le ideologie si declinano in “-ismi”. Quindi chi scrive battezzerà con un termine inventato – vietatissimo! – la pretesa sacra e aprioristica di stabilire, sulla base delle indagini delle procure, la qualità antropologica di ogni singolo essere umano, la predestinazione al carcere eterno di chiunque non sia fratel Piercamillo: il Davighismo.