Alberto Piccinini: Senti ma questo fatto che la sala stampa di Sanremo, storico contenitore di raccomandati, disadattati e palloni gonfiati (lo posso dire perché ne ho fatto parte) sia diventata un Nemico del Popolo vuol dire che abbiamo proprio voglia di litigare. Ti spiego. Avevo cominciato bene la giornata con il duetto Geolier-Ultimo: mi faceva venire in mente che a questo mondo c’è ancora qualcosa di ingentrificabile, scusa il neologismo, irrecuperabile ai giochetti snob, ontologicamente tamarro. Un po’ come il bar bangla elegante che hanno appena aperto sotto casa mia: Pigneto Cocktail Bar, dove uno schermo gigante trasmette immagini di una futura megalopoli araba. Rassegniamoci, in quella città non ci vivremo mai. Ultimo che canta in napoletano, pensavo, ci ricorda il ruolo segreto che il neomelodico ha mantenuto nella cultura sottoproletaria di questo paese, da Rozzano a Tor Bella Monaca allo Zen di Palermo dov’è ancora la musica di tanti matrimoni e funerali. Non sono più i neomelodici di una volta, il genere è stato ripulito da Gigi D’Alessio che di Ultimo è lo zio, con Eros Ramazzotti. L’ultima poesia è un James Blake del rione Ponticelli e va bene così. Il testo dove lei ama perché “non vuole stare sola” e ogni abbraccio è “una catena all’anima” mi pare roba da bonus psicologo ma che importa. L’importante è che a noi questa roba faccia schifo. Mica è facile. Quanta musica oggi ti fa veramente schifo? Il videoclip di L’ultima poesia l’hai visto? Sembra uno spot della Conad girato da Lettieri, il nostro amico che faceva i film di Liberato: canta il pizzaiolo, canta la signora che stende i panni, canta l’homeless sotto la metropolitana. Quando il drone si alza sul Vesuvio e sui i palazzoni di Barra appaiono gli inquietanti faccioni di Jorit ho pensato che nessuno vuole fare veramente schifo a nessuno, e allora fa la vittima. “La voce è del popolo” dice il cartello nero alla fine del video. Potrebbe ugualmente parlare di una città del Donbass oppure prendersela con la sala stampa di Sanremo, che in effetti schifò allo stesso modo Geolier e Ultimo. Tutto uguale, l’importante è litigare.
Giovanni Robertini: James Blake del rione Ponticelli! Proprio così, e giusto ora che la musica, soprattutto il rap, è diventato gentrificatore, conquistatore – a suon di cash, milly e follower – dei fortini della borghesia dei poteri forti. Siamo passati dai furbetti del quartierino Ricucci e Coppola ai furbetti del blocco, di cui l’ultimo disco di Tony Effe è un po’ il manifesto: “Centomila, c’arredo la casa, bagno bianco in marmo di Carrara” rappa insieme a Simba, supercafonissimo, “Con una sola botta faccio due gemelli/ Il maschio lo chiamo Gucci, la femmina Fendi”, e fin qui niente di nuovo, Tony il romano trapiantato a Milano per affari ostenta la bella vita. Ma ci sono due particolari – “tramezzino da Cova” in GTA e “colazione da Sissi” in Paura e Delirio a Milano di Ghali – da cui traspare come il rap e la sua estetica abbiano preso pieno possesso dei bar delle sciure e dei manager del centro, dei salotti buoni dei socialisti di Tangentopoli e dei creativi della Milano da bere. Cova è un locale storico, ha anche un libro dedicato ai suoi 200 anni con prefazione di Alain Elkann, ora è del gruppo LVMH e si è quotato in borsa, mentre Sissi è da anni il tempio dei radical chic con elegantissimi e snob camerieri senegalesi a dare un tono da bistrot francese contemporaneo. Ci sono i bastoni porta giornali, nel weekend il più gettonato è il Foglio del Sabato. Anche qui tutto torna, dall’anti wokismo di Vitiello o Langone al politicamente scorretto della trap il passo è breve e, non te lo nascondo, provo una forte antipatia per entrambi. Sul Foglio abbiamo già detto in varie occasione, per quanto riguarda Tony Effe ho avuto un sussulto moralista ascoltando Dopo le 4 con feat di altri due idoli delle ragazzette come Bresh e Tedua (mica gli “scacciafiga” dei rapper maranza come mi ha raccontato Sacky in una recente intervista): “Ti chiamo puttana solo perché mе l’hai chiesto (…)/ Ti piace solamente quando divento violento”. Ma dove siamo, in un film di Rocco Siffredi? O nella serie Netflix scritta da Francesca Manieri? Forse preferisco L’ultima poesia.
AP: Mamma mia che imbarazzo quella canzone, con l’elenco delle virtù delle bionde e delle more, quelle dell’Est e le cinesi. Ma cos’è?, il catalogo di Don Giovanni postal market? Ah sì, le molestie di Rocco Siffredi. Siccome c’era bonaccia sul social è ricominciata questa guerra di scorreggioni. Intendiamoci, chi ha avuto a che fare con Rocco Siffredi in situazioni professionali di questo tipo sa che la cosa può sfuggire di mano, come si capisce dagli audio pubblicati. Non per difendere nessuno: se intervisti Sinner per guadagnare simpatia gli racconti che il tuo rovescio a due mani ancora regge, ma se intervisti Rocco? È la maledizione della pornostar: Rocco non è Moana, la costruzione del suo personaggio come un’esasperazione dei peggiori luoghi comuni maschili non è neppure tutta colpa sua. C’è anche una maledizione del trapper? Può darsi. Ma a parte questo hai capito qual è il vero problema? Che la giornalista dell’Adnkronos non gli fa rileggere l’intervista. E lui sbrocca, come una starlette qualsiasi delle fiction di prima serata. Ti è mai capitato? L’ossessione di rileggere le interviste prima che vengano pubblicate è ridicola, ego gonfiato a pompa, call my agent. Il successo di un programma di normali interviste come Belve deriva esattamente da questa perversione. Insomma ieri notte tardi per dimenticare le brutture di questo mondo mi leggevo l’intervista-ritratto a Percival Everett, lo scrittore del romanzo di American Fiction, appena uscita sul New Yorker, dove chiedere di rileggere il pezzo prima della pubblicazione è tipo un affronto costituzionale al Quinto Emendamento. Infatti per i giornalisti questi “profile” sono uno degli ultimi miti della professione (assieme alla sala stampa di Sanremo e di San Siro, stavo per dire), il fondatore di Rolling Stone ai suoi primi collaboratori diceva che avrebbero dovuto scrivere di rock così, come i profili del New Yorker. Qui una scrittrice in ascesa, Maya Binyam, vagamente simile alla scrittrice nel film Sintara Golden, porta Percival Everett al cinema, a colazione, lo segue nelle sue lezioni all’Università. Ci avrà messo una settimana. Vengono fuori cose divertenti. A un certo punto lui dice che avrebbe voluto scrivere un romanzo come un quadro astratto, nessuna parola doveva significare niente. Più volte prova a sottrarsi al rito: “E se ci inventassimo tutto?” le propone, “perché non lasciamo perdere e andiamo a giocare a tennis?” Vabbè, sta tutto online. Sono 35.000 battute. Non fanno litigare nessuno, anche un po’ noiose qua e là. Invece l’intervista di Rocco Siffredi all’Adnkronos è lunga 5000 battute, lui ripete le cose che negli stessi giorni ha detto in televisione e in conferenza stampa. Esclusiva. Contenti noi.
GR: Ma ce l’abbiamo un Percival Everett? Forse ci dobbiamo accontentare e andando comunque alla ricerca di un senso, di qualcosa che non richiedesse seconde, terze e quarte letture mi sono ascoltato il nuovo disco di Vasco Brondi, cantautore gentile, con la barba lunga e curata, che fa yoga e lunghe passeggiate in montagna, un po’ Jovanotti e un po’ CSI, progressista di sinistra, tra un pezzo e l’altro ai concerti legge pezzi di Bolano e Tondelli, dialoga con Cognetti, forse è anche vegetariano. L’ho ascoltato nella prima giornata di primavera, con un ottimismo dopato dal clima e nonostante questo mi sono annoiato. E ho capito che devo farmene una ragione, che non sono le canzoni di Vasco Brondi che mi piacciono, mi piace chi le ascolta, le ragazze che vanno in bici in manifestazione con Un segno di vita nelle cuffie. Quindi viva Vasco Brondi, compro il biglietto del concerto. Nell’attesa rimango ad abbruttirmi facendo zapping in tv con in sottofondo Miu Miu di Tony Effe, e pensando a quel verso di Brondi che dice “splendida freelance con il mal di gola”. Una risposta indiretta e gentile a tutti i Rocco del mondo, e al Rocco che c’è dentro di noi.