Quando si pensa agli Stati Uniti è impossibile non ricondurre ogni suo aspetto al cinema. Così, per raccontare il mio viaggio verso la città di Marfa, è proprio da una citazione cinematografica che voglio iniziare. Nei primi minuti del film Animali notturni di Tom Ford vediamo il protagonista guidare di notte con la famiglia in gita verso Marfa. L’uomo è ignaro della tragedia che sta per sopraggiungere e descrive affascinato lo scenario circostante: «Due delle cose che amo di più del Texas occidentale, niente cellulari e niente persone».
Visitare Marfa deve essere una scelta fortemente voluta, perché il viaggio è faticoso e costoso. Devi essere pronto a perderti e forse anche ad avere paura, influenzato dalle storie del grande schermo e dell’idealizzazione di un luogo. Atterri all’aeroporto di El Paso, Austin o San Antonio, in ogni caso dovrai fare ancora molti chilometri. Quando percorri la superstrada, circondato dal buio della notte e dalla desolazione di una natura spoglia, si moltiplicano i riferimenti cinematografici: non solo Animali notturni, ma anche Non è un paese per vecchi. Dovremo attraversare per ore il deserto di Chihuahua e arrivare poi in una città fantasma che è diventata – forse suo malgrado – famosa.
Marfa è nota ai più per l’installazione permanente targata Prada (ma non di Prada) realizzata dagli artisti Elmgreen & Dragset e situata fuori città, più vicina a Valentine che a Marfa stessa. Ma Valentine non è una città. È solo uno sparuto gruppo di abitazioni malridotte con un bar aperto esclusivamente di giorno e quando è bel tempo, perché senza tetto. L’opera, grazie anche a Instagram, è ormai oltremodo conosciuta. Espone scarpe e borse in vetrina e nella sua insegna campeggia il nome Prada. Però non ci si può accedere o fare acquisti: appunto è solo un’installazione artistica, meta imprescindibile per chiunque, celebrità comprese, per una foto. Ma identificare Marfa solo con questo è riduttivo.
La vera celebrità di Marfa inizia nell’estate del 1955, quando gli attori più famosi di Hollywood si ritrovarono qui per realizzare un film incentrato sul Texas e le sue fortune. George Stevens era da tempo un regista importante e aveva lavorato con i più grandi, da Barbara Stanwyck a Katherine Hepburn, da Fred Astaire a James Stewart. L’apice della sua carriera sembrava essere il dramma Un posto al sole con Elizabeth Taylor e Montgomery Clift, ma è il successivo film a consacrarlo definitivamente, Il gigante. Un’epopea dedicata al Texas che attraversa decadi, vite, disgrazie e successi di una famiglia e di un uomo in particolare. Come detto, gli interpreti sono i più noti del periodo, di nuovo Elizabeth Taylor, poi Rock Hudson ma soprattutto James Dean, qui nel suo ultimo ruolo prima di trovare la morte in un incidente stradale una settimana dopo la conclusione delle riprese.
La location è ideale per la storia che viene raccontata da Stevens e ancora oggi ha un forte legame con il film, come dimostrano i murales dell’artista John Cerney che raffigurano i protagonisti. In questa sperduta città texana gli attori poterono lavorare e riposare (parzialmente) al riparo dalla loro celebrità. Al tempo – come ora – la città aveva pochi abitanti e ancor meno strutture ricettive. Per ospitare il cast, la scelta dell’Hotel Paisano fu quasi obbligata. Lo stile classico della sua architettura e degli arredi ricordano il ben più celebre Chateau Marmont di Los Angeles e come questo deve oggi la sua fama proprio ai suoi illustri ospiti.
James Dean non era in cerca di lusso e scelse una camera con poche pretese, la numero 223. Il Paisano non aveva suite ma poteva offrire comunque di meglio. Rock Hudson optò per una spaziosa camera d’angolo, la numero 211, lo stesso fece Elizabeth Taylor con la numero 212, sistemazioni decisamente più in linea con la loro fama. Ovviamente tutte e tre sono oggi prenotabili: le camere di Hudson e della Taylor sono diventate comode suite, mentre quella di Dean è stata mantenuta fedele alla sua originaria semplicità, forse per fornire un’experience autentica oppure solo per avere in listino una camera a poco. Ma l’hotel Paisano ha anche altri “pregi”. Sono numerose le testimonianze di eventi quali avvistamenti, strane luci, rumori misteriosi attribuiti ai fantasmi di James Dean o di una donna senza testa.
Il paranormale del resto è una delle peculiarità di Marfa, famosa pure per un fenomeno luminoso notturno a lungo tempo rimasto insoluto: luci colorate di piccole dimensioni che si muovono a gran velocità sono spesso avvistate in questa zona e furono associate a UFO, fantasmi e fuochi fatui. Studi scrupolosi hanno poi derubricato tutto a semplici fari delle auto in transito, ma da fan di X-Files “I want to believe” e capisco chi ancora oggi visita questi luoghi spinto da una particolare curiosità.
Negli anni ’70 Marfa diventa poi uno dei principali centri artistici statunitensi al di fuori delle grandi metropoli del Paese. L’artista minimalista Donald Judd si trasferisce qui con la famiglia per trovare pace e realizzare opere. Si possono visitare i luoghi in cui ha abitato – conservati e curati dalla sua fondazione – e la Chinati Foundation che ospita anche le installazioni di Dan Flavin. Se davanti a Prada Marfa potete fare tutte le foto che volete, da esporre poi orgogliosamente sul vostro feed di Instagram, quando si parla di Donald Judd e della Chinati Foundation le cose vanno in senso opposto. Più volte viene ricordato che sono proibite, avvertenza accompagnata dall’ancor più serio monito di stare attenti alle opere e alla loro incolumità. L’eredità di Donald Judd è infatti sottoposta a un controllo molto scrupoloso, pubblicità compresa. Ne sa qualcosa Kim Kardashian, che alcuni anni fa in un video disse di avere sedie e tavoli di Judd, salvo poi venire smentita, in quanto falsi, e citata in giudizio dalla fondazione.
Inaspettatamente, Marfa è anche meta culinaria. Tornando indietro al 1955 si scopre che James Dean e colleghi amavano mangiare all’Old Borunda Cafe, non un semplice diner ma luogo di nascita di una delle cucine fusion più note al mondo, il tex-mex. Tulia Gutierrez Borunda e suo fratello Cipriano, immigrati messicani, aprono il loro ristorante il 4 luglio del 1887. La svolta arriva nel 1910 con il matrimonio tra Cipriano e Carolina Paloma. Quest’ultima assume la direzione del locale e introduce un menu con piatti che uniscono i sapori messicani e texani in modo innovativo, come le enchiladas montadas o la salsa chile macho. Dopo oltre un secolo dalla sua apertura, nel 1989 l’Old Borunda Cafe ha chiuso, ma il nipote di Carolina Paloma ha deciso di portare avanti le ricette della nonna aprendo un nuovo locale, sempre a Marfa, il Borunda Bar and Grill.
Una città con queste caratteristiche non poteva non attrarre un personaggio come Anthony Bourdain, che infatti le dedica una parte dell’episodio Exploring the Far West Texas del suo famoso tour culinario Parts Unknown. Tappa obbligatoria è il saloon cittadino, il Lost Horse. Affascinante e inquietante all’esterno, di notte è immerso nell’oscurità e lo puoi trovare solo grazie a un neon rosso che riporta la scritta “beer”. L’interno invece è chiara espressione dello spirito western: un bancone, due tavoli da biliardo, una bandiera del Texas e sei fori di proiettile sul muro sparati da una calibro 44. A farli è stato il precedente proprietario, Ty Mitchell, quando gli comunicarono che doveva chiudere il saloon a causa della pandemia. Pistola, cappello e benda nell’occhio, Ty Mitchell frequenta ancora oggi il locale ed è, be’, un cowboy.
Martin Scorsese lo ha voluto in Killers of the Flower Moon, e prima ancora i fratelli Coen lo chiamarono per Il grinta. Bourdain esalta poi la cucina di Marfa Burritos e consiglia il suo signature dish, il burrito Asado: «That is a serious burrito. No rice at all. This is the real deal» (Questo sì che è un burrito. Niente riso. Questo è reale). Un locale semplice che a tratti ricorda la casa di Non aprite quella porta, ma con piatti molto saporiti che hanno conquistato tante celebrità. Matthew McConaughey ha un legame speciale con la cuoca-proprietaria Ramona Tejada, l’attore infatti è considerato alla stregua di un talismano che le ha portato tanta fortuna. La voce della sua presenza si è sparsa e da qui sono passati Kevin Bacon e Mark Ruffalo. Ma c’è chi non si è limitato a una visita: Paul Thomas Anderson girò Il petroliere in questa zona, e cast e crew vennero sfamati proprio dalla cucina di Marfa Burritos.
Vivere a Marfa oggi è diventata una cosa da ricchi. Il mercato immobiliare ha subìto un forte aumento a causa della sua fama, internazionale e di nicchia al tempo stesso. Tuttavia non si è mai trasformata: rimane sempre una città di frontiera conosciuta in tutto il mondo che si nasconde in pieno giorno, colorata con la palette di Asteroid City di Wes Anderson, attraversata da una ferrovia e coperta come da una cupola invisibile.
Proprio questo mi ha colpito, si respira un’aria di mistero. Durante la mia visita ho visto pochissime persone: in giro non se ne trovano. Sono stato scarrozzato da una signora molto gentile (come tutti i texani) che mi ha guidato nelle varie zone fuori città. Ho avuto uno scambio di saluti con un ragazzo dai capelli lunghi che suonava in tranquillità una chitarra nel portico di casa sua. Ho parlato cordialmente con il barista del Lost Horse Saloon. Di nuovo, sono stato pervaso da una strana sensazione, condivisa anche da altri visitatori attenti.
Tornando al cinema, i “marfiani” (o “marziani”) mi sono sembrati come gli abitanti di Santa Mira nel film del 1956 L’invasione degli ultracorpi, cioè alieni cloni di umani. Educati, cordiali, conformi nei modi a qualsiasi altra persona. Eppure, in un certo senso, non umani. L’enigmatica bizzarria di Marfa e dei suoi abitanti potrebbe attribuirsi agli esperimenti con armi chimiche – fosforo – che venivano fatti in città negli anni ’40 da parte dell’81st Chemical Mortar Battalion, il quale aveva sede dove ora si trova la Chinati Foundation. Chissà.
Arrivato alla fine di questo viaggio non mi sorprende che la stampa l’abbia ribattezzata “la capitale dell’eccentricità”, né che il motto ufficiale sia un’ammaliante quanto misteriosa tagline degna di un vecchio sci-fi: “difficile da raggiungere, ancora più difficile da capire, ma una volta qui la capisci”. Concordo con i 2/3 di questa definizione. Non credo di aver capito Marfa, ed è per questo che ne rimango ancora affascinato.