Sul tema della gentrificazione degli spazi si gioca oggi molto del futuro delle città. A quello che poteva essere il modello urbano vagheggiato dal sociologo Richard Sennet negli anni ’70, cioè quello di una città post-industriale che riconfigurasse il concetto di potere attraverso forme architettoniche e sociali ibride, miste e partecipate, le metropoli oppongono oggi narrazioni rigide e calate dall’alto, come soluzioni al rilancio di un benessere urbano che nasconde in realtà politiche profondamente neoliberali e classiste.
Di queste dinamiche si è occupata – tra i tanti – Leslie Kern, geografa ambientale e attivista queer, in un saggio che mette sotto scacco le bugie della gentrificazione. Sulla scia di pensatori come Henri Lefebvre e David Harvey, Kern rileva come i processi di gentrificazione non siano solo «una forma di privilegio per alcuni, ma anche un furto: di spazi e di risorse sociali, economiche e culturali». Tali trasformazioni urbane procedono insomma attraverso la sottrazione o la colonizzazione di luoghi e territori, imponendo una narrazione unica (quasi sempre orientata al decoro) e generando così una domanda-chiave: a chi appartiene la città?; e attaccando quel diritto alla città tanto caro alla critica marxista, il diritto cioè all’attività partecipante e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) della città.
Anche in Italia questi temi sono oramai al centro di numerose riflessioni, che vedono il loro epicentro nei discorsi attorno alle politiche urbane di Milano. È stata Lucia Tozzi la prima a formalizzare un argomento su questi temi nel suo L’invenzione di Milano, un saggio che tenta di minare proprio il racconto avveniristico del capoluogo meneghino. Ha dichiarato Tozzi in un’intervista che Milano «ha scelto di entrare pienamente nel gioco delle città globali che competono per strapparsi l’un l’altra flussi di capitali, turisti, studenti, abitanti fluttuanti, e per farlo si omologa sempre di più a modelli di rappresentazione che in un modo o nell’altro rimandano a pochi e insulsi ingredienti: lusso, diversity, smartness e (apparente) sostenibilità. Ma questo obiettivo ha un costo altissimo: la promozione dell’immagine richiede il sacrificio del contenuto».
Le etichette di accessibilità e benessere spesso attaccate a progetti di riqualificazione urbana nascondono, a Milano come altrove, un atteggiamento politico sregolato e incurante delle fasce deboli della cittadinanza. Oltre a ciò le medesime politiche si macchiano poi di una lotta accanita verso luoghi che per definizione non producono profitto, ma con la loro stessa esistenza rappresentano immagini di una diversità possibile, di una città alternativa. Come spesso è avvenuto grazie al fertile scenario dei centri sociali, che ha contribuito, tra le altre cose, alla costruzione della scena musicale e culturale che è stata uno dei laboratori più fervidi e riusciti di Milano.
Se è vero che da un lato il processo di gentrificazione degli spazi a Milano è in atto da più di una decina d’anni, i recenti casi che interessano le storie di Macao e del Leoncavallo sono cartine tornasole per l’osservazione attuale di simili fenomeni.
Partiamo in piena Design Week proprio del caso più attuale, che in questi giorni ha riattivato nell’opinione pubblica i discorsi attorno alla simbolicità e all’importanza dei luoghi di aggregazione sociale alternativa. È accaduto che Alcova, una piattaforma “dedicata a presentare progetti all’avanguardia nel design contemporaneo, nell’architettura e nella tecnologia”, abbia tentato di realizzare negli spazi di viale Molise 68 un evento intitolato Vocla, incentrato “su un lounge bar su misura progettato da Henge e un’esperienza culinaria pop-up curata da Yapa restaurant”.
Sebbene gli spazi dell’ex Borsa del Macello non ospitino più la comunità di Macao dal 2021, la proposta di un simile evento, insediato proprio in quello spazio, è stata giustamente recepita come umiliante nei confronti di un posto che ha segnato una stagione culturale decennale, diventando un punto di riferimento per musica e arte a Milano. «Viale Molise 68 è Macao» si legge in un post della pagina, ricordando come gli spazi dell’ex Borsa siano legati indissolubilmente all’esperienza sociale e autonoma di Macao e come essa non possa essere rimpiazzata da attività afferenti a un discorso elitario e antitetico allo spirito che ha animato quelle mura. «Macao non è nostalgia», continua il post, «è la prova che un altro modo di fare città è possibile».
Contro il tentativo di riqualificazione degli spazi a colpi di cocktail e cene, Macao invoca giustamente la lotta in difesa di un immaginario che ha informato i luoghi e che in essi sopravvive. Proprio come scrive Walter Benjamin nel suo splendido saggio su Parigi, nel rapporto tra chi vive un luogo e il luogo stesso esiste una sorta di intossicazione memoriale che ci impedisce di dimenticarci di che cosa significasse quel posto nella storia personale e collettiva. Ci impedisce di dimenticare i simboli, le storie e le memorie. Ecco perché l’evento proposto da Alcova è stato recepito come un’offesa simbolica ma non per questo meno grave, certo, perché è proprio sui simboli che si costruiscono (o de-costruiscono) le narrazioni di una città e di una società.
Non diverso è il caso Leoncavallo, centro sociale che proprio quest’anno compie cinquant’anni di vita e attività, punto di riferimento per la cultura politica autonoma, il mutualismo e, ultimo e non ultimo, per molta musica, attraversato da quelli che oggi sono tra i maggiori gruppi e cantanti italiani. Trasferitosi negli attuali locali di una ex cartiera in via Watteau a partire dal 1994, il “Leo” è oggi nuovamente sotto minaccia attiva di sfratto. Nonostante la storia degli sfratti sia una costante per il Leoncavallo, le pressioni odierne tornano a farsi sentire con maggior asprezza proprio in relazione alle trasformazioni urbane già menzionate. La zona di Greco in cui sorge lo spazio del Leoncavallo potrebbe infatti essere presa oggi come carotaggio di osservazione per quanto accade nelle città.
Antica periferia industriale, Greco è oggi nell’occhio del ciclone della riqualificazione. L’area intorno al Leoncavallo negli ultimi anni è stata infatti densamente edificata, con un piano di edilizia abitativa del tutto anonimo e non esente dal fenomeno del caro affitti che sta necrotizzando la città. I nuovi palazzi sembrano circondare come enormi avvoltoi lo spiazzo aperto e il basso capannone di via Watteau che si trova isolato nel bel mezzo di un’area di grande profitto. Per più volte presidi antisfratto hanno rinviato l’ingiunzione rimandata, per ora, al 15 maggio. Su Instagram è partita una campagna di solidarietà che coinvolge musicisti, scrittori e attivisti in sostegno dello spazio, ma non è dato sapere quanto il Leoncavallo e la sua storia potranno sopravvivere.
Ecco che, allora, le storie di Macao e del Leoncavallo dicono oggi di una Milano che, inseguendo il suo sogno di capitalistica libertà, non fa che espellere e rimuovere il dissenso e la diversità, confluendo la musica, l’arte e la cultura nell’alveo dell’istituzione e del lusso e inquadrando gli spazi – in particolar modo quelli culturali – sotto la lente funzionalista del profitto. Lo aveva già predetto Mark Fisher, nel suo saggio più famoso del 2009: questo orizzonte di realismo capitalista ha come risultato un appiattimento degli spazi e dei prodotti culturali. A un’anonima uniformità urbana e spaziale che rinnega le “autorità locali”, gli “strati semantici” in grado di costruire una geografia della città fatta di leggende, ricordi, sogni, corrisponde un appiattimento dell’offerta culturale, che rimuove il dialogo, l’opposizione e l’antagonismo, la varietà e la mescolanza, da sempre invece fattori chiave per la vita di una città e di una società.
E tuttavia rimane vero che, fuori da un orizzonte funzionalista, i luoghi testimoniano molto più di ciò che appare, e proprio per questo ne va difesa la diversità. Come scrive Michel de Certau, «in oggetti, parole e luoghi stanno schegge di leggenda che nascondono sopite antiche rivoluzioni». Ed è proprio nel racconto che questi luoghi e queste leggende fanno che sì che si possa reperire la traccia di una prospettiva vivificante per la città – come sono state e sono le esperienze di Macao e del Leoncavallo e di tutti gli altri spazi autonomi che a Milano hanno generato e generano diversità e alternativa, divenendo punti di riferimento per la scena artistica, politica e musicale.
Le città vivono di miti che le raccontano come uno scrigno molteplice di possibilità e incontri, di simultaneità e speranze – ed è proprio questo ad affascinarci. Ma quando le narrazioni di una città si riducono a una sola, quando il molteplice si perde nelle cene di lusso e nella mixology, ecco che la città muore, perché non può esistere uno spazio che sia considerabile a sé stante, dimentico delle persone che lo attraversano. Di tutte le persone, non solo di una parte. E non può nemmeno esistere uno spazio scevro di miti, storie, leggende e memorie che sono, in fondo, ciò che da sempre ci contraddistingue.