Se c’è uno a cui calza il vecchio cliché «non li fanno più come una volta», quello è Buddy Guy. Come dice il suo pupillo Joe Bonamassa in The Torch, il documentario che ne racconta la storia, il chitarrista e cantante blues ottantacinquenne è l’ultimo che ci è rimasto. Ed è vero: Buddy Guy è uno dei pochi veterani del blues ancora in vita che possono dire di aver suonato con Howlin’ Wolf e Muddy Waters, e di avere sconvolto Jeff Beck, Eric Clapton e gli Stones quando questi ultimi erano ventenni che poso sapevano del blues.
L’ultimo rimasto non molla di un millimetro. È un performer ancora incredibilmente fisico che usa la chitarra come una fiamma ossidrica (l’ha detto una volta Santana), uno dei pochi che tiene viva la tradizione di scendere tra il pubblico durante la performance. In The Torch arriva addirittura a lasciare un locale, salire su un taxi e fare un giro attorno all’isolato prima di rientrare del club, senza mai smettere di suonare.
La storia e la carriera di Guy – lo sforzo per essere ascoltato e considerato nel suo genere – sono già stati raccontati nel documentario Buddy Guy: The Blues Chase the Blues Away. The Torch, diretto da Jim Farrell, racconta gli elementi essenziali della sua biografia e aggiunge qualche dettaglio nuovo.
Con quel suo modo unico di assaporare le storie, Guy ricorda di un viaggio a Chicago con Waters in cui entrambi mangiavano panini al pastrami, oppure del primo incontro con John Lee Hooker (che non aveva riconosciuto). Il film racconta soprattutto la sua vita di adesso: e così incontriamo la sua band e il suo produttore Tom Hambridge, osserviamo il modo in cui il chitarrista, a 80 e passa anni suonati, sa ancora suonare melodie affilate e rimproverare il pubblico che non reagisce con l’entusiasmo che desidera.
Il titolo del documentario ha un doppio significato. Ci dice che Guy è come un tedoforo, che tiene acceso il fuoco della torcia del blues con cover di Waters e Hooker. Non vuole che si dimentichi il repertorio dei grandi. Il titolo racconta anche com’è diventato un mentore per una nuova generazione di musicisti blues. Il film si concentra su uno di loro, Quinn Sullivan. Ha 22 anni, ma ha iniziato a suonare la chitarra all’asilo. Era un ragazzino del Massachusetts di appena 7 anni quand’è stato invitato a suonare sul palco con Guy. Nessuno, quella sera, aveva dato peso all’apparizione, ma il ragazzino sapeva cosa faceva con il blues (grazie ai genitori appassionati dell’Allman Brothers Band). Guy, che lo definisce «la prossima superstar, quella che terrà viva questa tradizione», l’ha subito preso sotto la sua ala protettiva. Gran parte di The Torch lo mostra mentre registra, suona e impara con e da Guy. Sembra un ragazzo umile che non riesce a credere di poter imparare da un vero maestro. «Su Buddy ha un effetto ringiovanente», dice Derek Trucks, «si aiutano a vicenda ad andare avanti».
Nel film non tutto funziona alla perfezione, ad esempio quando si racconta come Sullivan dovrebbe tenere vivo il blues. È devoto al genere, ma non particolarmente ai suoi aspetti formali. Quando lo vediamo con la sua band o da solo, lo stile vocale e quello chitarristico ricordano il rock, anche se in salsa sudista (un suo assolo fa venire in mente Dickey Betts). Ogni tanto Santana appare per dargli qualche consiglio su come funzionano le cose, uno di questi è liberarsi di ogni preconcetto. «Hai bisogno di una sola canzone virale», dice. Oppure: «Espandi il suo portfolio e la sua rubrica dei contatti». Sono consigli che ci dicono molto delle competenze marketing di Santana e anche di Sullivan. Alla fine di The Torch lo ascoltiamo mentre suona una delle sue canzoni, una ballata acustica che ricorda più il country o l’Americana che il blues.
E poi è inutile girarci intorno: Sullivan, che nel film si trasforma da ragazzino in teenager, è bianco. I musicisti bianchi hanno contribuito alla grandezza del blues per tantissimo tempo, e hanno anche omaggiato gli uomini e le donne che l’hanno inventato. The Torch, però, non tocca mai il tema razziale e per di più esce in un momento storico particolare. Alcuni giovani musicisti blues neri – tra cui Christone “Kingfish” Ingram, devoto a Guy e anch’egli presente nel film – sostengono che questa musica sia stata offuscata dai troppi performer non-neri e che vi sia quindi il bisogno di essere riconquistata. Vedere Sullivan che scambia fraseggi alla chitarra con Guy è un bel modo per ricordarci che la musica può trascendere le razze e unirci. E sarà affascinante scoprire che fine farà il giovane musicista. Il film, però, farà storcere il naso ai puristi convinti che quella torcia vada passata in ben altre mani.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.