Arezzo. Storia di un paio di giorni fa. Classe seconda media. Lezione di chitarra col prof di Musica, una materia che alle medie conta meno di zero. Forse in aula c’è aria di goliardia, forse qualcuno tira troppo la corda. Tra i banchi un ragazzino particolarmente casinista di cui per privacy non sappiamo molto, fa i suoi numeri. Immaginate quel tipo di casino che solo un teenager con gli ormoni imbufaliti può mettere in atto. Il prof di musica insegna da trent’anni, ha avuto a registro anche i genitori di quell’adolescente, ne ha passate di tutte, eppure sbrocca. Non si capisce cosa sia successo. Lo ha strattonato, lo ha trascinato per il cappuccio dalla finestra al banco mentre quello si era buttato a terra… una brutta scena.
Suona la campana. Odore di ascelle e Lisoform sui pavimenti impiastrati da centinaia di euforici appartenenti al futuro smaniosi di tornare a casa e giocare a Fortnite. Non il nostro ragazzino, che invece va all’ospedale e si prende una prognosi di sette giorni che vuol dire tutto e niente mentre i genitori fanno denuncia ai carabinieri. Ora c’è di mezzo il PM, ci sono dei minorenni, tutto è delicato. La scuola minaccia la sospensione cautelare dell’uomo, cinquantasette anni di cui trentatrè dietro la cattedra. Il prof ha un avvocato, in un’intervista ha sminuito il fatto e si è detto dispiaciuto, ma la notizia ormai è online e la sua carriera pare macchiata indelebilmente, prima ancora di sapere cosa sia successo.
Perché diavolo dovremmo parlarne? Alla gente non piace questa roba, lascia il sapore amaro di degrado e senso di sconfitta collettiva. Tanto ormai sempre più spesso (per fortuna) vengono arrestati docenti che picchiano bambini all’asilo. Sempre più spesso i genitori o i figli a loro volta picchiano gli insegnanti. Sempre più spesso ci sono casi di bullismo tra minori. Sono notizie che creano scandalo e un attimo dopo vengono dimenticate. Questo perché se ne parla solo in toni di causa effetto: si rimane scandalizzati, come dei profani, come chi non vuole sentir parlare delle malattie, del riscaldamento globale, dell’Isis.
Così, per rendere il tema più abbordabile, ci si concentra solo sul problema culturale. Ne siamo ossessionati, mentre la retorica ci rassicura. Si dice che il popolo fondamentalmente sia ignorante, che non leggiamo, che abbiamo i peggiori politici perché ce li meritiamo in quanto capre, che siamo primi nelle classifiche di analfabetismo funzionale. Sono tutti effetti, ma la causa? Al bar si è soliti dare la colpa alla Playstation, alla tv, ai social. Quando invece vogliamo darci un tono siamo abilissimi a raschiare il fondo del barile delle scuse e si cala l’asso: la scuola. È sempre colpa della scuola. È colpa della scuola che ti fa leggere Manzoni ed è vecchia, è la scuola che non è più come una volta e non si impara nulla, è la scuola la prima istituzione alla quale ci insegnano a ribellarci. Quindi se la società è maleducata, la colpa sarà di sicuro sua.
Ma in pochi sanno cosa sia la scuola oggi. La politica ne parla poco, solo in campagna elettorale, spesso con sparate. Di solito arriva un governo e cambia tutto quello che ha fatto il governo precedente, creando il caos normativo, l’incertezza per il futuro, o peggio tagliando i fondi. La scuola è fatta dai singoli, tenuta in piedi da insegnanti, presidi volenterosi, persino dai bidelli. O meglio da una parte di loro, a occhio una piccola parte che deve lottare con un’altra grande parte di assenteisti, inetti, abusatori della legge 104 e imbucati.
Non è che questa piaga sia caduta dal cielo, ha delle cause concrete. Una su tutte: gli stipendi inadeguati. Sfido chiunque a dire che un’offerta economica così bassa (la più bassa d’Europa) non sia un deterrente per migliaia di uomini e donne brillanti che potrebbero fare la differenza. Gli insegnanti sono persone che devono studiare anni senza un percorso ben preciso, plasmando il loro curriculum universitario su griglie ministeriali, regolamenti incomprensibili e menate per poi ritrovarsi buttati nella mischia senza vere nozioni di psicologia, di pedagogia, di didattica. Gli insegnanti studiano tanto per laurearsi, ma non studiano abbastanza l’oggetto del loro lavoro: i ragazzi.
Il loro lavoro è sì mettere dentro quelle zucche un po’ di sapere, ma ancora di più è insegnare a quelle stesse zucche a pensare. Questa è la parte vocazionale che spinge uno a insegnare. Siamo nella metafisica, sembra di parlare di teologia, è difficilissimo strutturare legislativamente un pensiero così alto. Ma è inumano anche lasciare gli insegnanti a compilare scartoffie, a presenziare riunioni su riunioni, a battibeccare con le famiglie i cui figli sono sempre di più l’oggetto di culto intoccabile, incriticabile, a gestire il problema educativo ma senza averne l’autorità per farlo.
Il rischio è avere pagine di cronaca che si scordano a breve, docenti insoddisfatti e alunni non ascoltati. Il rischio è svuotare l’istituzione della sua aura di rispetto e creare platee di ragazzoni fessi che fanno solo like. E questo sì, è un problema culturale.