Un Gin tonic trangugiato in due sorsi. I capelli biondi tirati a lucido, riga marcata, alta uniforme della marina britannica indossata con fierezza. Così il ventiseienne Filippo Mountbatten, duca di Edimburgo, il 20 novembre 1947 alle 9.30 del mattino uscì da Kensington Palace per andare a sposare la principessa Elisabetta, ventunenne figlia di Giorgio VI ed erede al trono inglese, all’abbazia di Westminster. Lei attraversò la navata davanti a 2.500 invitati indossando un abito di seta color avorio intarsiato di perle e cristalli, strascico di quattro metri, pagato con 200 buoni per il razionamento di guerra.
Sono trascorsi 72 anni. Quei due ventenni oggi hanno 98 lui e 93 anni lei, e appaiono tutt’altro che stremati dall’età. Elisabetta, battendo ogni record, siede sul trono che fu di Guglielmo il Conquistatore; lui, principe consorte in pensione dagli incarichi ufficiali, scorrazza ancora per le campagne inglesi al volante di un Range Rover, travolgendo ogni tanto un ignaro suddito che finisce all’ospedale.
Ma non sarà certo qualche braccio rotto a minare l’affetto che il popolo britannico serba per questa coppia d’acciaio, anzi di platino. Tutto sommato si tratta della prima unione reale in senso moderno: ha avuto come collante l’amore, in una stagione in cui i matrimoni coronati ancora si combinavano solo per convenienze dinastiche.
Non che Filippo venisse dal nulla. Suo padre era il principe Andrea di Grecia, casata Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glücksburg, e sua madre, Alice di Battenberg, nacque a Windsor: la bisnonna era la regina Vittoria d’Inghilterra. Condividono robusti rami di albero genealogico, i nostri sposini. Eppure lui non era considerato un buon partito. Punto primo, non aveva liquidità. Tanto che per regalare l’anello di fidanzamento a Lilibet – il marito è l’unico vivente a poterla chiamare con il soprannome di bambina – dovette smontare una tiara di diamanti di sua madre. Secondo, quel quadruplo cognome tedesco era un problema, dopo la Seconda guerra mondiale: le sue sorelle avevano sposato nobili teutonici di conclamate simpatie naziste. Per questo Filippo – che i primi tempi la regina Madre definiva l’Unno – dovette rinunciare al titolo di principe per nascita cambiando cognome e assumendo quello materno, inglesizzato, oltre a convertirsi alla fede anglicana. Elisabetta apprezzò lo sforzo, che facilitò la sua scelta. Aveva incontrato la prima volta il futuro marito nel luglio del 1939: “Io avevo 13 anni, lui 18. Cominciò a trascorrere lunghi weekend con i suoi zii Mountbatten da noi, a Windsor. Poi partì per la guerra, imbarcato nel Pacifico. Quando tornò ricominciammo a vederci, venne anche a farmi visita a Balmoral. E quanto ci piaceva ballare”. Parole della principessa.
Sì, principessa. Perché Elisabetta avrebbe preferito godersi il marito qualche anno in più, prima di assumere la guida del regno. E invece il 6 febbraio del 1952 re Giorgio morì stroncato da un cancro ai polmoni, mentre l’erede e il consorte erano in viaggio di Stato in Kenya. La sera prima avevano dormito sul Treetops Lodge, residenza ricavata su un albero. Una volta scesi, lei era diventata sovrana. Un brusco ritorno sulla terra, anche metaforico. Perché una volta rientrati a Londra, i coniugi reali dovettero lasciare l’intimità di Clarence House, che avevano appena ristrutturato, e trasferirsi in quella macchina infernale che è Buckingham Palace, dove nessuno si fa gli affari propri, gli spifferi raggelano i saloni e i topi schizzano lungo i pavimenti delle cucine.
I primi dieci anni di matrimonio sono stati i più duri. Avevano sempre alle calcagna, tra gli altri, la severissima Bobo MacDonald, che da tata era diventata la guardiana e guardarobiera di sua maestà. Elisabetta e Filippo erano però tanto appassionati da trovare ogni occasione e luogo, a palazzo, per dedicarsi al compiacimento dei sensi: dai corridoi – le risatine di sua maestà erano il segnale che occorreva sgombrare l’area interessata – alle camere da letto, che avevano preteso comunicanti. Ma il protocollo pose un carico da 90 sul loro rapporto: Filippo, per lungo tempo, non ha avuto voce in capitolo su alcuna questione, pubblica e familiare. E nemmeno poteva affiancare la moglie, dovendola seguire a due abbondanti passi di distanza, durante gli eventi ufficiali. In più, nonostante avesse espresso tal desiderio, il governo Churchill seccamente bocciò la richiesta del duca di dare il proprio cognome ai figli, trasformando la casata da Windsor in Mountbatten. Insomma, la sua mascolinità teutonica era apprezzata nel talamo coniugale. Ma fuori dal letto è sempre stata Elisabetta il capofamiglia. Forse per questo Filippo trovò compensazione alla sua frustrazione machista gettandosi in diverse avventure extra coniugali, ovviamente mai acclarate senza ombra di dubbio. Un documentario di Channel 5, Inside Buckhingham Palace, ce ne fornisce una summa. Furono attrici, anzitutto. Pat Kirkwood, che gli si concedeva nei camerini dei teatri. Merle Oberon, da Hollywood, che si dice abbia intrattenuto con il duca un rapporto epistolare (epistole poi fatte sparire). Mentre Hélène Cordet forse rimase addirittura incinta. E poi il parentado: per le voci sulla relazione con la principessa Alexandra di Kent, cugina di Elisabetta, Filippo si prese dello sfacciato persino dallo zio Dickie, l’ultimo viceré delle Indie, non proprio un bacchettone in fatto di abitudini tra le lenzuola. Tra i nomi indicati dal documentario spicca anche quello di Susan Mary Wright, che nel 1986 sarebbe divenuta la sua consuocera: era la bella mamma di Sarah Ferguson, sposa del principe Andrea.
Dal 1957 la frattura nella coppia poco a poco cominciò a ricomporsi. Elisabetta, alla quale alcune voci attribuiscono una sola sbandata per Lord Porchester, amico d’infanzia e responsabile dei cavalli reali, nominò Filippo principe del Regno Unito, il rango più alto dopo quello reale. Lui prese a dedicarsi al volo, prendendo il brevetto, e ai figli: Anna, che l’adorava, Andrea ed Edoardo, che erano facili da gestire perché non sarebbero stati sovrani, e Carlo, con il quale invece i rapporti sono sempre stati burrascosi. Un episodio su tutti, emerso di recente: il principe di Galles non era per niente convinto di convolare a nozze con Diana, che in fondo, non conosceva. Fu suo padre a dargli l’ultimatum. «O la sposi o lasciala perdere, se continui a frequentarla senza impegno le rovinerai la reputazione». Carlo, che all’epoca non brillava per autonomia di giudizio, scattò sull’attenti e le chiese la mano. Il resto dalla storia la conosciamo, l’erede al trono ha liquidato la sua prima unione come l’errore più grande, indotto da suo padre.
Tra alti e bassi, Filippo il ruolo di capofamiglia se l’è creato dentro le mura di Palazzo. Coordinando i barbecue estivi a Balmoral, moderando brillantemente le conversazioni durante i barbosi dinner ufficiali – Elisabetta è sempre stata più sarcastica che simpatica – diventando insomma, anno dopo anno, quella roccia che è stata «la forza e il sostegno» della regina: definizione di sua maestà, resa in occasione delle nozze d’oro. La prova più dura, prima della morte della principessa di Galles del 1997, fu l’annus horribilis targato 1992: il castello di Windsor prese fuoco, Diana andò in Tv a spiattellare la relazione tra Carlo e Camilla e Fergie comparve a tutta pagina sul Daily Mirror mentre si faceva succhiare l’alluce da un miliardario texano.
C’è sempre stato ben poco da ridere, a casa Windsor. Eppure Filippo ha contribuito a tenere il morale alto, dissacrando e bastonando questo o quella, con quel ghigno laterale che l’ha reso famoso. Le sue gaffes sono rimaste incise negli annali. Come quella volta che, durante un viaggio di Stato, accettando un dono da una donna africana, le pose la fatidica domanda: «Grazie, signora. Perché lei è una femmina, vero?». Elisabetta non si trattenne. Ridere, si sa, fa tanto bene all’amore.