Lasciamoci salvare dalla trap, ancora una volta | Rolling Stone Italia
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Lasciamoci salvare dalla trap, ancora una volta

Il "non si può più dire niente" è meloniano, i maschi etero bianchi si rifugiano nel radical chic, e i concerti dei big non sono tanto diversi, come sesso e samba. Non rimane che rifugiarsi nei testi di Simba La Rue e Baby Gang

Lasciamoci salvare dalla trap, ancora una volta

Baby Gang e Simba La Rue

Foto press

Alberto Piccinini: Ma dove siamo, dove siamo, in un pezzo di Simba La Rue? «Nonna non aveva i denti, pensi sia stato divertente? / I soldi fanno la felicità e chi dice il contrario mente». Intanto sono d’accordo con Giannini quando dice su La Repubblica (pensa te) che la storia dei 12 bangla salvati dal campo di concentramento in Albania non è un «danno erariale», l’ha scritto Elly Schlein su X, ma un danno alla Costituzione e basta. E aggiungerei, perché i talk show non li reggo: questa roba dei soldi dei contribuenti buttati dalla finestra che si ripete dai tempi degli scontrini 5 Stelle fino ai biglietti del treno esibiti in tv da quel poveretto di Sangiuliano, usata come strumento di lotta politica è un boomerang. Se i soldi sono la misura di tutto, allora ha ragione Simba: «Non entro al Toqueville, non mi vogliono / ho dieci pali in contanti non li metto nel portafoglio». Prima smettiamo di dar retta alla distinzione inquietante tra migranti economici e gente che chiede asilo, come se tra i diritti di chiunque non ci fosse quello di andarsene per il mondo a cercar fortuna, prima ci libereremo da Meloni e dal suo fascismo da social, soprattutto del nazismo contabile del «non c’è più posto per nessuno! che accomuna da anni destra e sinistra. E chi lo decide? C’è gente che è venuta qui proprio per farsi fotografare un giorno sopra una Ferrari, come Simba e sua nonna. E come gli albanesi che venivano qui 30 anni fa perché ci avevano visto su Rai 1, che per me è il massimo della follia e della felicità. Quanto ai poveri bangla riportati ora in Italia sulla corvetta da 18.000 euro a biglietto, non so. Rimetterei sul piatto il vecchio concerto per il Bangladesh di George Harrison, Dylan e Ravi Shankar. Chi se lo ricorda. Che dici? E buona fortuna.

Giovanni Robertini: Ah, la profezia autoavverantesi di Elly Schlein sul palco degli Articolo 31… «Dolce vita qui a Babilonia, ognuno è quello che ha», rappava nel 2002 J-Ax in Soldi Soldi Soldi. Se i politici salgono col loro mic a fare freestyle sul palco, i rapper per sopravvivere costruiscono concerti e dischi come se fosse la scaletta di un talk show. Hai presente Floris, Di Martedì? Quello con un ingresso ogni cinque minuti, i Santoro e Augias di turno ripresi nel backstage prima di entrare come nei live in DVD anni Novanta, gli applausi ripetuti e infiniti ai confini del rave, i ritornelli retorici degli ospiti, il linguaggio semplificato con le schede. Ecco, sono stato al Forum a sentire i concerti di Tony Effe e Mace, diversi ma uguali come sesso e samba: la scaletta modulata a seconda delle ospitate, l’ordine delle canzoni deciso con una logica di share sanremese, prima un big, poi un po’ di giovani promesse, poi una giovane promessa più un big, a chiudere due big insieme, cercando di farti cambiare canale, neanche in tempo di una birretta che ti perdi l’entrata di Mengoni o di Ghali. Non importa che sia il concerto di un rapper o di un producer, Floris o Giletti, lo show non è nella performance ma nel far accadere cose. Certo, i concerti devono ancora affinare questa metamorfosi nel talk: chessò un comico, un opinionista fisso, il sondaggio di Pagnoncelli tipo “gli italiani preferiscono Prada o Balenciaga?”, o un intermezzo musicale. Anzi no, quello in teoria c’è già.

AP: Mica mi starai dicendo che preferivi i vecchi concerti con l’assolo del chitarrista scoreggione e gli scontri per l’autoriduzione alla porta? Capisco il vintage e pure il cringe, ma vuoi mettere adesso? Comunque stavo guardando la copertina della nuova deluxe edition bla bla dell’album di Simba La Rue, Mi piacciono le armi. È ancora Jared Pike, l’artista newyorkese e fotografo fichissimo di spazi liminali e piscine vuote, tipo assonometria? Mi pare di sì. E sono l’unico a trovare una vaghissima somiglianza tra la foto di Simba seduto di profilo su un divano design e la foto del capo di Hamas seduto su un divano «coperto di polvere mentre fissa un drone che entra in una casa devastata dagli attacchi»? Sì, penso di essere l’unico. Ma un vero semiotico guerrigliero non si ferma davanti a niente, e non teme la solitudine. Come rappa Baby Gang: «Vogliono la guerra non sanno che siamo berberi / anche se non siamo famosi e belli Gucci e Burberry». E da quando hanno fatto la galera vera, Simba e Baby Gang chi li ferma?

GR: Sempre a proposito di talk show, ho ascoltato con colpevole ritardo La Ghigliottina, il nuovo singolo di Brunori Sas, incensato cantautore dalla “scrittura raffinata”, o almeno così pare a tanti nostri colleghi. Ecco, il pezzo ironizza sull’ipocrisia della sinistra contemporanea, sul wokismo che vorrebbe liberarsi dalla società patriarcale («Ti vedo un po’ stanco maschio etero bianco») ma non è credibile perché vittima del proprio radicalchiccismo («Quante volte ho sentito parlar di campagna alla gente che vive in città e che loda la vita bucolica però in campagna, poi, mica ci sta»). Mi sembra di sentire l’eco di Simone Lenzi, lo scrittore, cantante dei Virginiana Miller e assessore alla Cultura livornese che si è dimesso per la polemica su alcuni tweet pesanti: «C’è una sinistra da psico-polizia etica, che uccide l’ironia e rafforza la destra», ha detto Lenzi intervistato da La Repubblica. Che palle quelli come lui e come Brunori che dicono che “non si può più dire niente”, ma poi, appunto, lo dicono. E non al bar, ma sui giornali, in tv, nelle canzoni, e ci vogliono pure far la morale, dando agli altri dei moralisti, si auto-assolvono fingendo di condannarsi, l’uno a protezione dell’altro. A proposito vai su Lucy a leggere l’intervista della scrittrice Stancanelli a Lenzi, altro che baby gang e logica del branco. Preferisco i trapper allora, che nella decadenza del maschio etero bianco sembrano crederci e sperarci di più: il loro linguaggio violento e misogino è catartico, non rivendica ma fa affiorare per un attimo in superficie il subconscio per poi finalmente farlo sprofondare insieme a tutti noi. Anzi, te lo dico, il “non si può dire niente” è meloniano, vittimismo trombone di destra, altroché!

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