Chi ha visto Severance, la serie Apple TV con la regia di Ben Stiller, è passato attraverso un processo molto preciso. Il primo è l’istinto a condannare l’azienda Lumon per lo sfruttamento dei lavoratori che, separati in due metà incoscienti una dell’altra, frequentano l’ufficio senza poter riconoscere quanto sia tossica la dimensione aziendale in cui siano immersi. Così Mike S., Dylan G., Irving B. e Helly R. si siedono alle scrivanie del dipartimento di Macrodata Refinement svolgendo un compito di analisi “importante e misterioso”, mentre i loro esterni vivono la propria vita nelle ore restanti del giorno e nei weekend, dimenticando completamente l’ufficio.
E questo è il punto in cui cominciamo a chiederci: ma io sarei disposto a passare attraverso il processo della scissione per vivere con più serenità il mio tempo privato? Nelle ultime settimane, una ricerca condotta dalla piattaforma inglese Unmind ha scoperto che il 46% degli intervistati appartenenti alla Gen Z vorrebbe sottoporsi alla procedura, separando i ricordi lavorativi da quelli personali.
A quanto pare non sono l’unica a essere affascinata dalla possibilità di scoprire che tipo di persona sarei senza essere influenzata dal mio lavoro. La tentazione di sapere, anche solo per un giorno, come sarebbe vivere senza sentire la fatica mentale di 8 ore passate davanti al computer e mantenere i pensieri completamente liberi dalle preoccupazioni dell’impiego. Dimenticarci del lavoro. In attesa dell’avvento della piena automazione – Bill Gates dice che tra 10 anni alcune categorie potranno lavorare solo due giorni a settimana, chissà – abbiamo provato a immaginare un mondo in cui la separazione sia possibile, chiedendo a una ricercatrice di psicologia del lavoro e una professionista delle risorse umane quali sarebbero i pro e i contro della separazione e perché ne siamo così attratti.
In realtà, la prima grande considerazione che abbiamo fatto è che, in un certo senso, mettiamo già in atto una sorta di separazione quando andiamo in ufficio, lavoriamo o abbiamo a che fare con i colleghi. Riprendendo la ricerca di Unmind, il 38% degli intervistati ha dichiarato di avere una “persona lavorativa” diversa dal “vero sé”, arrivando al 52% della Gen Z, principalmente perché il lavoro viene percepito come un contesto in cui è meglio non essere autentici, ma adattarsi alle esigenze e ai valori dell’azienda, anche a costo di mostrare un solo lato della propria persona.
«Oggi nella letteratura si parla spesso di integrazione o completa segmentazione tra vita lavorativa e vita privata» spiga Maria Adelaide Morabito, dottoranda in Psychology, ambito psicologia del lavoro e delle organizzazioni, presso l’Universita Cattolica del Sacro cuore. «Dal periodo Covid in poi ci sono stati molti cambiamenti, perché è stato catalizzatore di una sofferenza che esisteva già da prima: quella crescente difficoltà nel dedicare molto più tempo al lavoro che alla famiglia e ai propri interessi».
Spiega Morabito che si tende «a voler dividere sempre di più i due aspetti della vita, questo perché il lavoro non è più percepito come un fattore identificativo per le persone, che ricercano invece una scissione tra chi sono e il lavoro che svolgono». Parte delle soluzioni pensate in questo senso comprende lo smart working, che rimuove fisicamente l’impiegato dalla sede dell’ufficio. Tuttavia, al contrario di quanto possiamo pensare, questa non è una scissione, ma un’integrazione: «Nel senso che tu il lavoro te lo porti a casa e, di conseguenza, arriva a invadere anche quello spazio privato».
Se le persone non vogliono più essere definite dal lavoro, è quindi una questione di identità, «ma anche di investimento in termini di tempo, di energie, di risorse, perché molto spesso il lavoro non è più in grado di restituire tutto ciò che si investe in quell’ambito», continua Morabito. «Il modello aziendale attuale non è in grado di dare alle generazioni che oggi si affacciano al mondo del lavoro quella stabilità economica di cui hanno beneficiato le precedenti. Oggi le aziende richiedono un grande sforzo, ma non ricambiano nel modo adeguato. Ci viene chiesto di essere iperproduttivi ma, per esempio, gli stipendi non riescono a incontrare quelli che sono i desideri del lavoratore».
Non stupisce quindi la ricerca di un modo per aumentare le distanze. Serena Marra, Dottoressa in Psicologia per le Organizzazion e HR Specialist, spiega: «Volendo trovare una similitudine tra Severance e la realtà, il meccanismo della scissione è qualcosa che il nostro cervello compie automaticamente per difendersi dai traumi. In molti casi, la mente tende a dimenticare un evento traumatico. Nel caso di Severance questo avviene con un intervento chirurgico, ma nella vita reale mettiamo in atto piccoli momenti di scissione, che non sono altro che meccanismi di difesa».
Vogliamo separarci dalla cultura aziendale, ma nella realtà dei fatti ne siamo immersi. Proprio come gli interni di Severance accettano una sorta di regime che punisce le inadempienze nella sala del personale e ricompensa i successi a base di waffle party – anche noi tendiamo ad adattare la nostra personalità all’ambiente che ci circonda, per tossico che sia. Spesso facciamo fatica a riconoscere le problematiche etiche nei contesti lavorativi o proviamo a minimizzarle, anche solo per una questione di sopravvivenza.
«Quando noi entriamo in un sistema, piano piano viviamo delle dinamiche e, in un certo tempo, ci adattiamo a queste», mi racconta Marra. «C’è un meccanismo in psicologia che si chiama dissonanza cognitiva, e che spiega una situazione in cui gli atteggiamenti (chiamiamola l’intenzione) e i comportamenti (ovvero l’atto) entrano in contrasto. Quando in ufficio ci viene chiesto di adottare un comportamento che va contro i nostri valori, contro i nostri atteggiamenti, questo ci mette in crisi. Quindi il nostro cervello come reagisce? Cerca di colmare la dissonanza cognitiva giustificando la richiesta che ci è stata fatta, cambiando lentamente il nostro atteggiamento per adattarlo al comportamento richiesto. E finiamo per diventare parte del sistema».
Marra cita l’esperimento carcerario di Stanford, esperimento di psicologia sociale condotto nel 1971 da Philip Zimbardo e interrotto dopo 6 giorni per le pesanti conseguenze psicologiche sui partecipanti. In brevissimo: 24 studenti universitari sono stati divisi in prigionieri e guardie, poi posti nella situazione carceraria. In poco tempo, alcuni studenti nel ruolo di guardie hanno sviluppato comportamenti aggressivi e maltrattanti, mentre i prigionieri si sono trovati in un processo di deindividuazione, impotenza e passività. «Nell’esperimento di Zimbardo, come in Severance o nel contesto lavorativo reale, io sono, tra virgolette, obbligata ad assumere un certo ruolo, mi devo quindi scindere dalla persona che sono fuori. Perciò possiamo dire che il contesto in cui tu sei inserito, in questo caso il contesto lavorativo, ti cambia. Quando siamo immersi in un sistema che ci impone delle regole, ci impone anche un modo di essere, di comunicare, noi poi ci adattiamo a questo contesto in maniera quasi inconscia».
Quando ce ne rendiamo conto però l’impatto si fa sentire forte e chiaro. Sottolinea Morabito: «L’ambiente lavorativo influisce sul benessere o malessere psicologico delle persone. Non è un caso che si sia parlato negli ultimi anni di great resignations (le “dimissioni di massa”, nda), di quiet quitting. È tutto parte di una risposta collettiva alla presa di coscienza di questa cultura tossica del lavoro». Per poi continuare: «Ti direi che oggi siamo arrivati a un vero e proprio disinvestimento affettivo nei confronti del lavoro».
Anche se cerchiamo di separare a tutti i costi la personalità lavorativa da quella privata, ci sono dei punti di contatto a cui sarebbe spiacevole rinunciare. «Esistono aspetti sociali che ti porti dalla vita privata al lavoro, e conoscenze che acquisisci sul lavoro e ti aiutano poi nel quotidiano», spiega Morabito. Detto in maniera meno tecnica, sarebbero le esperienze che contribuiscono a formare il nostro carattere e che ci portiamo come un piccolo bagaglio personale in entrambi i contesti.
Un altro tramite tra la nostra personalità lavorativa e quella privata sono i legami, le amicizie, che creiamo nell’ambiente di lavoro e che, se tutto va nel migliore dei modi, finiamo per portarci dietro anche nella vita privata. Se è vero che diventando adulti fare nuove amicizie è più complesso, l’ufficio è il luogo dove incontriamo persone e instauriamo rapporti. Spiega Morabito: «È inevitabile che le persone che condividono uno stesso spazio fisico per diverse ore al giorno, che sono accomunate da aspettative e obiettivi, e che sono legate da un certo grado di interdipendenza, creino un gruppo, nel senso che questa è proprio la definizione di gruppo sociale in letteratura».
Nel caso dell’ufficio, il collante può essere il raggiungimento del successo dell’azienda, ma a legare può essere anche un sentimento, come la frustrazione. «In questo caso l’obiettivo comune è arrivare alla fine della giornata nel miglior modo possibile» aggiunge Morabito, facendosi forza a vicenda. Il famoso nemico comune, in altre parole, è un ottimo punto di partenza per grandi amicizie, dentro e fuori dall’ufficio.
Dopo questa lunga chiacchierata, quello che mi sembra di capire è che quello su Severance e sulla scissione tra vita lavorativa e privata è soprattutto un discorso sull’identità, perché queste due sfere, seppure possano sembrare separate, chiaramente vanno a formare il nostro sé unico, l’insieme di tutte le parti. Il lavoro influisce sulla formazione della nostra personalità e viceversa. D’altra parte però, né Marra né Morabito mi dicono che il lavoro è considerato attualmente come una parte importante della realizzazione personale. Forse è vero, allora, che la maggior parte delle persone che lavora oggi è disaffezionata a ciò che fa.
Secondo Morabito, questa tendenza a voler sempre più isolare il lavoro da chi siamo, soprattutto quando subiamo situazioni di stress, ingiustizia, o non siamo soddisfatti di ciò che facciamo, è legata alla paura del dolore. Così, spiega, da un punto di vista clinico «oggi sempre di più le persone tendono a cercare modi per evitare il dolore», un po’ come accade con chi non si impegna nelle relazioni per paura di soffrire.
Questo perché, se da un lato «alcune tematiche sono sdoganate rispetto a 50 anni fa, quindi a livello razionale siamo più consapevoli del dolore, delle sue cause e conseguenze, a livello emotivo invece è come se fossimo costantemente impreparati. Forse in un certo senso si è più consapevoli della sofferenza e per quello fa ancora più paura». Cosa centra questo con il lavoro? «Si riscontra una grande fatica nel tollerare la frustrazione quindi se io, per esempio, faccio un lavoro frustrante, allora la prima reazione non è provare a elaborarlo, ma provare a scordarlo». Secondo Morabito, la frustrazione è parte della vita, privata e lavorativa, e serve a crescere e a cambiare, a formare il nostro intero.
Ma quindi essere scissi farebbe davvero bene all’equilibrio vita-lavoro? Sia Marra che Morabito si dicono contrarie alle soluzioni estreme, allo scegliere di ignorare invece di elaborare. Dividere completamente lavoro e vita privata da un lato ridurrebbe la nostra crescita personale, dall’altro non servirebbe nemmeno a renderci più efficienti, meno imperfetti. Eppure io un pensiero ce lo farei.