Circa un mese fa, alla festicciola per l’uscita di un divertente romanzo estivo sagacemente ambientato in un luogo che non esiste (poi ci arriviamo), una ragazza mi si avvicina e mi fa: “L’estate scorsa ti ho visto a [inserire nome di luogo misteriosissimo di cui non ho mai parlato con nessuno, manco con mia madre]”». E lì ho capito che era davvero finito tutto. Che non saremo mai soli da nessuna parte, che potremo anche non geolocalizzarci mai ma qualcuno ti troverà sempre.
Circa una settimana fa, un’amica mette in una storia di Instagram un libro che lascia presagire che andrà in vacanza in un luogo misteriosissimo che amo molto, e di cui pure non ho mai parlato con nessuno, manco con mia madre. Guardo mio marito e sospiro: “Oh no, [nome di amica] va in vacanza a [nome di luogo misteriosissimo], è finito tutto!”. Quel luogo – dove altri amici erano già stati, e che quando ci siamo stati noi avevamo debitamente instagrammato (ma senza geotag, non siamo mica matti!) – avevamo l’illusione che fosse solo nostro, e che tale sarebbe rimasto per sempre. Tornati, che so, fra cinque anni, saremmo stati riaccolti dai locali come idoli pagani di Midsommar: “Grazie che siete venuti di nuovo, unici forestieri che hanno amato e compreso veramente questo luogo sì misterioso!”.
Circa due giorni fa, a commento di una mia storia su Instagram, un tizio mi chiede se posso dirgli in che posto mi trovo ora. E io, armato di tutta la mitomane incongruenza di chi pubblica le foto sui social e poi sbraita “Come osi venire a sbirciarmi dal buco della serratura!” (poi ci arriviamo), gli dico di no, che mi dispiace, ma voglio che questo posto resti segreto. Che resti un luogo misteriosissimo. Misteriosissimo al punto che, in questo momento insieme a me, ci sono migliaia di altre persone. Ma l’illusione è che, se non dico niente, resterà solo mio.
Da qualche anno a questa parte, faccio quello che ho sempre detestato quando lo vedevo fare agli altri: mettere foto di posti senza mai dire quali sono, e dove sono. Faccio il racconto di un’estate imprecisata piena di mare, pomodori, tramonti, cani che corrono sulla spiaggia, calici di bianco ghiacciato, allestimenti finto casual di Adelphi e parei a righe. Un’estate ideale che, mi dice il mio stesso racconto – o dovrei dire storytelling? – scenicamente editato per Instagram, nessuno potrà profanare, un luogo solo mio, ancora più reale per me perché agli altri è venduto come luogo dell’immaginazione.
Da qualche anno a questa parte, noi che alzavamo gli occhi al cielo di fronte a chi ci invitava a vedere le diapositive delle sue vacanze abbiamo moltiplicato il racconto visivo della nostra villeggiatura, ma illudendoci che sia un luogo dell’intimità, del mistero. “Somewhere in northern Italy”, all’inizio di quel film estivo là, è forse la dicitura che ha amplificato e complicato tutto, incentivando questa narrazione di uno spaziotempo perfetto, puro, incorrotto – però col cazzo che ad agosto restiamo “somewhere in northern Italy”.
Una volta erano solo i famosi a non geotaggarsi per paura di invasioni di fan, adesso siamo noi tapini che non vogliamo passare per “turisti”, giammai! I turisti sono quelli che mettono in bella evidenza il nome del chiringuito dell’ape, noi siamo “viaggiatori”, anzi siamo così bravi – nei gusti, negli usi, nelle scelte di vini e sandaletti a chilometro zero – da confonderci ormai con i “local”. Lo smartworking ha complicato e amplificato tutto ancora di più: partiamo prima, lavoriamo un po’ da [nome di luogo misteriosissimo], sentiamoci come la gente del posto! Nomadi instagrammatici, più che semplicemente digitali. Perché se non la mostriamo, la nostra estate imprecisata ma perfetta non esiste.
Leggo, quest’estate, chi scrive che l’Italia degli stabilimenti balneari degli anni ’60, dell’Ombrellone di Dino Risi, era la più bella di tutte (però poi col cazzo che va in vacanza a Gabicce). Chi che l’estate è diventata una stagione orrenda, che fa troppo caldo, che mette troppo stress (però poi col cazzo che resta a casa senza scappare dalla città). Leggo e vedo tutti dire e fare il contrario di tutto, me compreso. Fuggire verso luoghi misteriosissimi (o che riteniamo tali), e poi però non riuscire a non condividerli sui social, perché la luce è troppo bella, perché dobbiamo far vedere che non siamo “somewhere in northern Italy”, ma in posti perfetti che solo noi sappiamo.
Basterebbe non postare niente, per evitare qualsivoglia mitomania personale e condivisa. Per non lamentarsi degli amici che vanno nei tuoi stessi posti e dei tizi che, marrani!, hanno la sfacciataggine di chiederti dove sei. E anche per essere un po’ meno scemi, nel continuare ad inseguire un sogno, un posizionamento, una giustezza – di luoghi, di fotine, di tutto.
O forse i nomi di quei luoghi misteriosissimi potremmo inventarceli, come in quel romanzo estivo che dicevo all’inizio. Confondere le acque, letteralmente. Inventare mondi ed estati che davvero non esistono, e avremo l’ulteriore mitomane illusione di sentirci scrittori, creatori di città invisibili. Dove sei? A Marignole, no a Cordádos, anzi sull’isola di Skoratos. Non la conosci? Non sai cosa ti perdi. Non c’è nessuno, e la luce al tramonto è bellissima.