All’inizio del Ventesimo secolo, le donne delle città statunitensi non fumavano le sigarette. La giustificazione più spiritosa di questo tabù risale agli anni Venti e rimane ancora oggi insuperata: una signorina che, in pubblico, si poggiava sulle labbra un oggetto cilindrico era da considerarsi un fenomeno tanto ridicolo quanto pericoloso. E i fenomeni in grado di avere entrambe queste qualità sono rari e difficili da spiegare. Ci era riuscito Umberto Eco quando negli anni Ottanta, con il suo bestseller planetario Il nome della rosa, raccontò di monaci benedettini eretici e omosessuali (tra l’altro un libro che vende oltre cinquanta milioni di copie è anch’esso un fenomeno che fa ridere e spaventa al tempo stesso).
Ma lasciamo a Eco quel che è di Eco e, scendendo vertiginosamente di livello, torniamo a temi di cui si può occupare con cognizione di causa uno che fa il mio mestiere, ovvero l’intrattenimento per i meno abbienti. Dal punto di vista del marketing, a porre rimedio alla sciagura (per le aziende del tabacco) delle americane non-fumanti ci pensò nel 1929 il nipote di Sigmund Freud, l’allora trentottenne Edward Bernays, il quale mescolando le teorie dello zio a quelle di Goebbels si inventò le “pubbliche relazioni”, espressione che qualche anno dopo sostituirà ufficialmente il termine “propaganda”, che all’epoca evocava gli agghiaccianti totalitarismi europei.
Bernays capì che per “vendere fumo” a tutte le donne, doveva prima venderlo a quel ristretto numero di signore che godevano dell’attenzione dei media: le suffragette. Quelle pioniere del femminismo sono le prime donne presenti nella memoria tecnica dell’umanità, visto che sfilavano davanti alle cineprese di tutto l’Occidente non in veste di madri affrante e mogli devote, ma come donne indipendenti, desiderose di affermare e ribadire i propri diritti e, soprattutto, incuranti del giudizio della gente.
Erano queste le trailblazer da convincere per arrivare al cuore (e ai polmoni) delle donne americane, e Bernays regalò sigarette alle suffragette che presero parte alle epocali manifestazioni per le strade di New York. Le immagini di quelle donne combattive che fumavano orgogliose fecero il giro del mondo e permisero a Bernays di rimpiazzare l’imbarazzante concetto di “fallo di tabacco” con quello molto più altisonante di “torches of freedom”, fiaccole di libertà: la percezione delle fumatrici così venne completamente ribaltata, non più una figura moralmente riprovevole, ma un esempio di autodeterminazione e indipendenza. Se per “esistere” nella società occidentale si doveva essere uomini, allora la donna aveva il diritto di assorbire ogni tratto della virilità. E la virilità non si misurava solo in percentuali di nicotina, ma anche con la proprietà privata, soprattutto lì, negli Stati Uniti, quella terra di frontiera dove un rinnegato europeo poteva farsi una nuova vita grazie alle gioie della compravendita.
In quel preciso momento storico, le sigarette colsero lo zeitgeist, perché la proprietà privata stava diventando a tutti gli effetti “la” colonna portante dell’identità americana: la sigaretta era la manifestazione più evidente dell’indipendenza femminile, della capacità della donna di avere qualcosa di suo. Grazie al genio di Bernays, la sigaretta diventò il pene della donna che fuma, non più il cazzo che qualcun altro le piazza in bocca per violarla o metterla alla berlina. Se il cittadino americano era la Statua della Libertà, la sigaretta era la sua fiaccola. Nella sua simbologia ufficiale, infatti, la Statua della Libertà spezzava le catene della schiavitù e con la sua fiaccola illuminava la via verso l’affrancamento, una forma di emancipazione che ti permetteva di smettere di essere proprietà di qualcuno diventando tu stesso padrone di qualcosa. E infatti sgli schiavi, ai quali la Statua era dedicata, erano state a lungo negate la proprietà privata e le armi.
Gli Stati Uniti sono il luogo in cui un freddo concetto giuridico come quello di proprietà privata assume toni lirici, quasi poetici: il fatto stesso di possedere qualcosa ti rende libero, quindi i possedimenti sono a tutti gli effetti protesi dell’essere umano. Eppure, in quella stessa fetta di mondo, prima che ci mettessero piede gli occidentali, vigeva tutt’altro modo di vedere le cose. Prima che le caravelle dei coloni e la Mayflower dei padri pellegrini portassero nel Nuovo Mondo le idee di credito e debito, tra i nativi americani vigeva un’economia del dono, un sistema simile al baratto che, però, non prevedeva obbligatoriamente una reciprocità di scambi: in poche parole, io ti do qualcosa ma non mi aspetto che tu mi renda il favore. Anzi, nella sua forma più pura, l’economia del potlatch si fondava sull’offrire una quantità di doni tale da mettere in imbarazzo la tribù che la riceveva e che, in cambio, avrebbe dovuto alzare la posta. In un certo senso, era un modo altruistico di stabilire una forma di dominanza. È come se oggi da Corso Magenta si levassero alla volta delle tribù di Porta Romana dei segnali di fumo che dicono: «Siete dei poveracci». Così facendo, in vista del prossimo raccolto, le tribù di Porta Romana sarebbero incentivate a far di meglio.
E, guarda caso, furono proprio i nativi americani a scoprire che il tabacco si poteva fumare. Quando Colombo tornò dall’America alla volta della Spagna, le sue caravelle erano cariche dei doni dei nativi, prodotti ignoti anche agli europei più cosmopoliti: mais, pomodori, cacao, peperoncini, patate e – ovviamente – foglie di tabacco. Sulle prime l’equipaggio non aveva idea di cosa fossero quelle foglie, tant’è che – leggenda vuole – le buttarono in mare, come le persone a cui non si concede degna sepoltura. Quella prima partita di tabacco, quindi, fece la fine di Bin Laden.
Solo nei viaggi successivi i colonizzatori spagnoli, esplorando i territori dei nativi e studiando i loro usi e costumi, capirono che quelle foglie potevano essere fumate, ma ci vorranno dei secoli per far sì che quella che in Europa era considerata prima una pianta ornamentale e poi un’erba medicinale si trasformasse nella sigaretta che conosciamo oggi. Anche se già nel ’500 si fumava con pipe e oggetti simili, le sigarette rollate a mano cominciarono a farsi strada solo nella prima metà dell’800 e si dovrà attendere la coda della Seconda rivoluzione industriale per assistere a una loro reale diffusione su larga scala. Le sigarette ready made, infatti, erano ancora un prodotto sostanzialmente artigianale e piuttosto costoso: un rollatore professionista non poteva realizzarne più di quattro al minuto.
Nel 1880, però, l’americano James A. Bonsack depositò il brevetto per un macchinario in grado di cambiare le regole del gioco: una bobina di carta avvolgeva meccanicamente delle piccole dosi di tabacco, realizzando in questo modo circa duecento sigarette al minuto. Ben presto il macchinario di Bonsack venne realizzato nel Regno Unito (1883) e negli Stati Uniti (1885), diventando così una delle conquiste della tecnica che coroneranno la fine del Secolo della Scienza.
La Rivoluzione industriale creò un tale benessere economico che, col passare del tempo, la gente cominciò a illudersi che la vita dell’uomo si sarebbe allungata di centinaia di anni e, ancor più tragicamente, che il pianeta Terra fosse la residenza ideale per la vita eterna. Negli anni Cinquanta del Novecento, l’eco del lavoro di Bernays non si era ancora spenta: le sigarette erano ancora viste come un simbolo di autodeterminazione, una sublimazione del concetto di proprietà privata, uno status symbol della donna alpha, un feticcio capace di trasformare in virile donnaiolo anche un omosessuale masochista come James Dean, uno che – tra le altre cose – apprezzava farsi spegnere le sigarette addosso. Ma negli anni Sessanta, quando l’entusiasmo nei confronti del processo di industrializzazione cominciò ad affievolirsi, partì un inesorabile processo di stigmatizzazione delle sigarette: perché industriali e, in seconda battuta, cancerogene.
Negli anni Novanta, fase storica in cui si fece largo la sensazione che il mondo sarebbe diventato una specie di giardino dell’Eden anti-proibizionista, la sigaretta fu relegata nel braccio della morte. Lo stigma anti-fumo applicato dai salutisti divenne ben presto una condanna morale e penale: pian piano i Paesi europei cominciarono ad abolire il fumo in tutti i luoghi chiusi. La Francia fu uno dei primi Paesi a introdurre controlli anti-fumo nel 1992: si rivelò un tentativo fallimentare, forse perché si trattava pur sempre della patria di Michel Foucault, il filosofo che ci aveva spiegato come lo Stato esercita una forma repressiva di controllo sui cittadini attraverso i sussidiari delle elementari, ben più che con i manganelli, e ci aveva messo in allerta sul rischio di perdere la nostra libertà. Ma anni dopo cedette anche la Francia: nel 2007 passò l’abolizione del fumo negli edifici pubblici e, nel 2008, il divieto venne esteso definitivamente anche ai bar e ai ristoranti. Nel resto d’Europa queste norme restrittive erano già in vigore da un pezzo. In Italia la legge Sirchia (dal nome dell’allora ministro della Salute), era stata approvata nel 2003.
Se è vero, come ci ha spiegato Shoshana Zuboff nel suo libro del 2019 Il capitalismo della sorveglianza, che il controllo dell’individuo passa anche dalla possibilità che i governi centrali e i grandi conglomerati industriali hanno di analizzare e condizionare i suoi consumi e – più in genere – le sue abitudini, è altrettanto vero che la demonizzazione del fumo è solo una delle tante storture della data economy, un ibrido di capitalismo e sorveglianza davanti al quale le tanto temute multinazionali del tabacco si rivelano deboli e indifese come cuccioli di foca bastonati a morte.
Abbiamo visto come la stigmatizzazione del fumo si sia evoluta da una ridicola condanna morale a una (già più comprensibile) questione di salute pubblica. Ma quale sarà la prossima frontiera del proibizionismo anti-tabagista? Stando a quello che leggo in giro, ho la netta sensazione che dagli allarmi sulla salute fisica si passerà a quelli sulla salute mentale. In Cina, per esempio, hanno usato i dati raccolti e processati dall’intelligenza artificiale per stabilire una correlazione (del tutto da verificare) tra la carica del cellullare e i comportamenti criminali: una persona che è abituata a vivere costantemente nell’incertezza di uno smartphone mezzo scarico, secondo le AI di Xi Jinping, sarebbe più incline a compiere un atto imprevedibile o addirittura criminale. A noi democratici occidentali questa equazione suonerà del tutto folle e liberticida, ma in realtà facciamo qualcosa di molto simile quando parliamo di fumo.
Negli ultimi tempi, infatti, gli studi di psichiatria stanno dando ampio spazio al tema della dental fear. L’odontofobia (molto banalmente, la paura di prendersi cura dei propri denti, dal semplice spazzolarseli fino all’andare dal dentista) è quel circolo vizioso che consiste nel trascurare l’igiene orale e rimandare le visite odontoiatriche, comportamenti che a loro volta acuiscono un problema dentale che – se preso per tempo – potrebbe essere risolto con estrema facilità. Una volta che il problemino è diventato un problemone, siamo costretti ad andare dal dentista, che non potrà far altro che sottoporci a una cura più invasiva (e dolorosa) del previsto, con la conseguenza che la prossima volta avremo ancora più paura di andare dal dentista e il ciclo della dental fear si ripeterà in maniera sempre più acuta.
Cosa c’entra questo circolo vizioso con il fumo? È presto detto: la correlazione tra patologie dentali (e gengivali) e il fumo è un’area di indagine medica in costante sviluppo. Il fumo non sarebbe all’origine solo di problemi “estetici” come l’ingiallimento dei denti o la banale alitosi, ma si ritiene che giochi un ruolo piuttosto determinante anche nella recessione gengivale, nella perdita dell’osso alveolare o – addirittura – nella caduta precoce dei denti. Non voglio fare negazionismo odontoiatrico e dire che sono tutte balle. Il mio scopo in queste righe non è sollevare dubbi sull’attendibilità della ricerca medica, ma mettere in evidenza come quella che era una preoccupazione legata ai polmoni si stia trasformando in un timore legato alla sanità mentale. E alla sicurezza.
Attraverso il cavallo di Troia della dental fear, il fumo smette di essere un vizio che fa male alla salute e si appresta a diventare un problema psichiatrico. Quello che era un rimbrotto dal tono bonariamente materno (“Fumare ti fa male”) sta diventando una strisciante forma di terrorismo piscologico (“Fumare è un sintomo del fatto che stai male”). Inoltre, in questo modo il fumo diventa l’unica e sola causa della dental fear che, come invece è ampiamente dimostrato dagli studi, può essere la conseguenza di problemi ben più profondi, come gli abusi sessuali. Le sigarette si trasformano così in un comodo capro espiatorio, un male assoluto al quale imputare qualsiasi problema, con il rovescio che altre ragioni ben più gravi, come appunto gli abusi sessuali, finiscono per passare inosservate. Questa ipersemplificazione, oltre a spostare l’attenzione da una problematica atroce come quella degli abusi sessuali a una decisamente più banale come il vizio del fumo, va in conflitto con i principi base della data economy, perché lo spauracchio del fumo-origine-di-tutti-i-mali maschera le altre possibili cause di dental fear e impedisce una efficiente raccolta delle informazioni. E se i dati sono falsati, la data economy si ritrova a elaborare informazioni sbagliate e a proporre soluzioni inconcludenti.
La guerra contro le sigarette è partita un secolo fa sul campo di battaglia della morale e del decoro (“Fumare non sta bene”) per poi avanzare nella seconda metà del Novecento, giustamente, su quello della salute fisica (“Fumare non fa bene”). E se la prossima battaglia anti-fumo si combattesse sul fronte della nostra salute mentale? A quel punto nelle scuole statali le sigarette saranno raccontate come il simbolo di un’era in cui la società occidentale glorificava crimine e follia sotto forma di James Dean e Maria Callas.