L’eterno ritorno culturale del pile | Rolling Stone Italia
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L’eterno ritorno culturale del pile

Durante la pandemia del 2020, un capo d'abbigliamento è diventato lo specchio di un momento culturale. E l'inverno appena passatolo ha confermato: tra moda, guerra e nostalgia, l'Occidente è ancora una pile-cracy

Bella Hadid pile

Bella Hadid

Foto: Marc Piasecki/GC Images via Getty

È un onda lunga che arriva dalla fine del 2019, figlia di un anno e mezzo – quasi due – passati in casa reclusi in lotta domestica contro la pandemia. Anni trascorsi nell’inedita riscoperta di pigiami e plaid, letti e divani senza discontinuità alcuna. Un’autarchia comodissima soprattutto se garantita da corrieri sottopagati pronti alla consegna espressa, a rischio della loro stessa incolumità.

Nella pandemia ognuno ha avuto il suo ruolo. Da una parte chi ha lottato eroicamente rimanendo chiuso in casa a guardare l’impossibile via streaming, oppure cucinando come fosse in una finale permanente di MasterChef, immaginando già un futuro in cui il localino soppianta il chiringuito. E poi dall’altra parte chi ha dovuto lavorare il doppio se non il triplo, rischiare la vita e accettare paghe da fame, farsi chiamare “eroe” per farsi mettere da parte una volta finita l’emergenza.

Non ne siamo usciti migliori, ma più a destra e con tanta insensata voglia di armi, conflitti e guerra. Ne siamo usciti (di casa) anche con qualcosa che abbiamo portato fino nelle strade, attraverso un’insensata idea di eleganza che se la potrebbe giocare ad armi pari con il concetto di buon gusto, discrezione e sciccheria di Kanye West (a buon intenditor…).

Questa cosa è il pile, oggetto accolto prima con perplessità poi con malcelato entusiasmo dal CAI (Club Alpino Italiano) per poi essere definitivamente abbandonato in nome di un abbigliamento tecnico tutto nylon e fibre sintetiche, di cui il pile fu solo un triste e vetusto antenato o almeno a questo pareva essere destinato.

Materiale sintetico nato alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti, il pile è figlio di una politica inclusiva e filantropica oggi decisamente caduta in disuso. Infatti la Malden Mills, consociata con Patagonia, che depositò il marchio polartec decise per scelta dell’eclettico fondatore, Aaron Feuerstein, di non brevettare la fibra che era stata sintetizzata dal poliestere, lasciando invece il brevetto aperto senza alcuna restrizione. La diffusione del pill fleece (più comodamente detto in Italia: pile) fu così immediata. Inizialmente il suo uso fu prettamente sportivo, sia per la sua economicità unita alla qualità di isolamento termico, sia per la leggerezza straordinaria, considerati i capi di lana in uso fino a quel momento.

Una duttilità innovativa che ha accompagnato da allora quasi chiunque alternandone l’uso – un po’ assurdamente – tra l’alpinismo e la vita domestica. Facile da lavare, ma non impermeabile a vento e pioggia, il pile sembra proprio essere l’abito che fa il monaco, perfetto per l’uomo e la donna occidentali alle prese con lo stress e una quotidianità fatta di perenni emergenze, in quella similitudine che vede lo spazio urbano come una giungla.

Negli anni Novanta indossare pile voleva dire essere trasversale alle tendenze e quindi ben accetti in ogni dove, soprattutto negli scantinati dove l’economico capo d’abbigliamento – unito a una zip aperta a metà e luridamente ricoperto di briciole di snack – stava per rivoluzionare il mondo con l’informatica. Negli anni Duemila invece con l’espandersi della crisi climatica andare oltre una t-shirt pareva davvero una cosa da matti o da dandy, quasi come indossare un doppiopetto in Solaro. Il pile pareva scomparso dalle vetrine e dai nostri guardaroba, ma la pandemia ci aspettava al varco. Insieme a un consumo senza ritegno di alcol e alla ritrovata sigaretta fumata alla finestra come unica relazione con l’esterno.

Il pile riprese vita dalle scatole dei vestiti abbandonati in cantina contestualmente con l’isterico riordino di ogni ambiente di casa. Tutti trasformati in hobbisti del fai da te e quindi tutti in pile. Una volta fuori, tra timori di nuovi contagi e nostalgie di casa, il pile ha riconquistato la strada. Chiuso evidentemente un occhio e anche due sulla sua totale assenza di sostenibilità ambientale, perché produrlo è più anti-ecologico che viaggiare in città con un diesel smarmittato, il pile offre una duttilità estrema, un po’ come tutti i prodotti del secondo Novecento: economici, facili da realizzare e buoni per tutti. L’unica criticità resta insomma quella infinita ciminiera che pompa fumo grigio, ma certo, non si può sempre avere tutto.

Però oggi che tutto è cambiato o meglio che tutto è diventato per pochi e il poco è per molti, nulla è più davvero popolare e tanto meno economico. Oggi esiste il caro, l’esclusivo, il lusso, l’iperlusso e di ogni categoria una personalizzazione estrema e superipermega esclusiva. Al punto che oggi il pile vive in due strette categorie: il modaiolo coloratissimo già portato in auge de Kaia Gerber e Bella Hadid e quello monocromo un po’ opaco e tipico dei negozi di antinfortunistica.

Il pile sembra dunque aver perso – nonostante l’aspetto coloratissimo e divertente che viene anche ripreso nelle ultramodaiole calzature Flower mountain (un po’ sneaker e un po’ ciabatte) – la sua funzionalità, e quindi anche la sua indiretta capacità di vestire per davvero allegramente e informalmente quando si è al lavoro o in gita. Ma del resto oggi che il lavoro è frantumato e in gita non si va più nemmeno quando si è a scuola, il pile nasconde sotto i suoi colori una trama che ricorda più che altro la mimetica da guerra in colori shocking (praticamente l’idea di realtà secondo Elon Musk).

Il pile è così oggi l’indumento di chi va in missione uscendo di casa per andare in strada, per andare al lavasecco, per andare al supermercato, in posta o in enoteca, sempre con fermezza, decisione e nessuna paura. Il pile, però, è l’indumento anche di chi va in guerra per davvero, in Ucraina e in Palestina, in Congo e in molti altri posti di cui nessuno parla e in altri in cui prima o poi si dovrà parlare.

Quasi a segnalare un bersaglio e una fragilità, il pile veste (senza nascondere) un desiderio di felicità abbandonato e lasciato perduto in un tempo in cui le pandemie erano solo racconti di fantascienza. Rimpiangiamo cappotti e soprabiti, quelli dei diplomatici e delle spie e la loro seppur non sempre lecita e indolore capacità di arginare conflitti, alle volte con una stretta di mano, alle volte raffreddando toni e discorsi.

Difficile immaginarsi l’Harry Lime di Orson Welles ne Il terzo uomo in pile, e tanto meno Humphrey Bogart o Le Samouraï di Alain Delon che si chiudono la zip della maglia rosa fluo, o magari blu elettrico. Ma quello era un mondo grigio, in cui tutto aveva una funzione precisa. Un mondo governato dalle ombre circoscritte al bianco e al nero, al caldo e al freddo, soprattutto alla pace e alla guerra. Il colore diviene oggi invece un’evasione tradita, il tentativo fallito di divertirsi quando attorno quasi tutto produce nevrosi e ansia se non addirittura violenza e dolore. Il pile è una fuga ma anche un ripiego, magari strategico o almeno così si spera, in attesa di giorni migliori e di una tranquillità nuova. Speriamo solo che non piova troppo come avviene in Blade Runner, perché il pile la pioggia non la tiene proprio.