Oggi vi presento un gioco tosto.
Facciamo subito un passo indietro di qualche migliaio di anni, ché si stava meglio, e facciamo un minimo di divulgazione. Diciamo subito che lo Tzolk’in altro non è che un almanacco sacro costituito da un ciclo di 260 giorni usato in tutto il Mesoamerica. Nell’antichità era la chiave per il calendario rituale e formava la base per le profezie e le divinazioni. Le sue origini sono sconosciute, anche se si sa che era già in uso nel VI secolo a.C. tra gli Zapotechi di Oaxaca.
In Tzolk’in: The Mayan Calendar, gioco di Daniele Tascini e Simone Luciani (game designer marchigiani e fra i più famosi al mondo), che prende ispirazione proprio da questo almanacco, ogni giocatore rappresenta una tribù e dovrà cercare di evolversi assecondando i desideri delle divinità. Questa è in sintesi l’ambientazione del gioco, che però si colloca nella categoria degli eurogame, ovvero titoli dalle meccaniche astratte, deterministiche, con scarso fattore aleatorio. Un’ambientazione comunque secondaria rispetto alla meccanica e in cui c’è poco da distrarsi, qua non sono felici nemmeno i giocatori fotografati sulla scatola ed è giusto così.
Se scrivessi in un sito di giochi da tavolo, potrei dire che Tzolk’in è un gioco di piazzamento lavoratori e gestione risorse, e ci si capirebbe subito. Invece è il caso di perdere due minuti per spiegare cosa accade su questa plancia verde. Ogni giocatore inizia disponendo di tre lavoratori, numero che potrà crescere durante la partita. A ogni turno può scegliere di piazzare uno o più di loro, a un costo incrementale, nella prima allocazione libera di una o più delle cinque ruote dentellate che fanno da motore al gioco. A ogni spazio corrisponde un’azione, che però sarà eseguita sono nel momento in cui il lavoratore verrà ritirato. Fra un turno e l’altro viene girata di uno scatto antiorario la ruota centrale, che farà a sua volta muovere in senso orario le cinque ruote satelliti, dove sono collocati i lavoratori. Quindi cambierà l’azione corrispondente a ognuno di loro.
L’altra scelta del turno è, appunto, quella di ritirare dei lavoratori ed eseguire le azioni che in quel momento gli corrispondono. Oppure una delle precedenti, pagando però una tassa. Più turni il lavoratore sarà stato sulla ruota, più l’azione sarà potente. Spesso, cambia proprio la tipologia di azione (i marchigiani sono perversi). Queste sono di svariato genere: è possibile ottenere grano, che è la moneta del gioco per poter piazzare lavoratori e scampare i punti negativi durante le tassazioni a ogni quarto di gioco.
Si possono acquisire risorse, ovvero legno, pietra e oro, con le quali potremo costruire edifici o monumenti. I primi danno un boost durante la partita, i secondi generano punti alla fine del gioco a seconda di quello che si è realizzato. Si può avanzare nel progresso tecnologico, rendendo così più performanti le nostre azioni future. Ci sono poi locazioni per ottenere nuovi lavoratori, altre per convertire risorse in altre risorse, altre ancora per ottenere teschi di cristallo e piazzarli nella ruota dedicata che dà punti immediati e fa salire di posizione sui templi. Questi frutteranno punti e risorse favorendo il giocatore che si trova più in alto.
Vi fa male la testa?
Bene, perché la bellezza di Tzolk’in sta innanzitutto nello spaesamento. A fronte di un regolamento non particolarmente complesso, senza cavilli o eccezioni, lo scenario che ti si apre davanti toglie il fiato per la libertà che ti lascia e la quantità di strade che è possibile percorrere. “E ora?”, è quello che leggo in faccia ai compagni di gioco alla prima partita. Dove i titoli del tedesco Uwe Rosenberg premiano le simmetrie, ovvero il fare un po’ di tutto senza tralasciare niente, Tzolk’in permette strategie di pura specializzazione. Come fosse un azionario, ogni partita fa storia a sé per il microsistema che si crea. In base agli edifici che escono si può cercare di capire dove andrà a parare quella partita, quali saranno le sfere d’azione più redditizie ma, probabilmente, anche le più contese.
Personalmente amo questo titolo perché m’incute un timore reverenziale che non ho per altri giochi. Tzolk’in è sfuggente, liquido, sempre più grande di te, tanto da apparire animato da un’intelligenza propria. Se è vero che puoi imparare a dominarlo partita dopo partita, è altresì vero che puoi pure disimparare. Ci sono volte in cui fallisci lo sguardo d’insieme, non riesci a cogliere la crepa di quel particolare setup e finisci per costruire un motore di punti che gira a vuoto.
Tzolk’in non regala niente, tantomeno ti aiuta a giocare bene. I Maya del resto non brillavano per assistenzialismo e, nel dubbio, buttavano la gente dentro i vulcani. Al contrario dei giochi del modaiolo Stefan Feld, famosi per la loro “insalata di punti”, Tzolk’in è più pronto a deprimerti che a premiarti. Qua ogni punto te lo devi sudare. Ogni alzata di cresta ti costa cara, come dovrebbe essere nella vita. Vuoi giocare con sei lavoratori diversi? Augurati solo che tu abbia modo di sfamarli quando sarà il momento. Come se non bastasse, Tzolk’in ha un’espansione che aggiunge al gioco le profezie, che sono un ulteriore modo di far punti ma soprattutto di perderli e farsi venire l’esaurimento. In pratica gli dèi chiedono determinati sviluppi. Puoi pure snobbarli e incassare punti negativi, ma dovrai aver maturato una strategia alternativa che possa permettertelo. Oltre a questo, l’espansione offre una partenza asimmetrica, in cui ogni tribù sarà caratterizzata da un proprio esclusivo potere. Questo renderà ulteriormente diverse le partite, come del resto succede anche con i personaggi di Marco Polo, l’altro capolavoro mutaforma di Tascini-Luciani.
Detto questo, se qualcuno fra i lettori avesse interesse a sapere perché noi amanti dei giochi da tavolo c’incazziamo quando sentiamo la vecchia solfa sui Risiko, i Monopoly e i Cluedo del nostro disincanto, ché la gente pensa che noi giochiamo a ‘sti giocattoli, be’, provi questo titolo. Lo consiglio anche a questi giovanotti di dodici-tredici anni che fumano e sputano per terra. Cazzo c’avete da sputare per terra? Siete dei falliti. L’altra sera alla festa del mio paese ridevano e facevano i superiori guardando le coppie anziane ballare al suono dell’orchestrina di liscio in playback. Cari bambini, io a pigliarne uno di voi per il cravattino e a bastonarci l’altro non ci metto niente. Giocate a Tzolk’in e forse un domani sarete come me o Enrico Fermi.