Ieri sera ti sentivi capace di divorare insieme la vita e la morte come salsiccia e patate. I giudizi umani non facevano presa, erano cerotti bagnati. Agivi d’impulso, una benevolenza universale avrebbe poi aggiustato ogni guaio. Nonostante tutto, eri contento del punto spaziotemporale nel quale decisioni biografiche e coincidenze cosmiche ti avevano collocato. Ti eri accomodato nello spazio notturno come un protagonista nel proprio romanzo. Il tuo corpo era un parco giochi.
Insomma, eri sbronzo.
Oggi tutto promette catastrofe. Un falegname ha tagliato con l’accetta le forme del mondo. I giudizi ti si attaccano addosso come zecche e mignatte. Sei così fragile che ti stupisci di essere arrivato fin qui. I tuoi innumerevoli errori avranno terribili e inevitabili conseguenze. Estrai il futuro dal presente, un secondo alla volta, con la fatica del minatore. Il tuo corpo è un campionario clinico.
Insomma, sei in hangover.
Se l’universo fosse opera del caso, se non ci fosse un qualche genere di piano premeditato, per una mera questione statistica dovrebbe darsi almeno un piacere non soggetto a rappresaglie. E invece ogni volta il godimento è compensato dalla punizione. Come altro definirla? Questa ritorsione metafisica riporta di continuo l’esistente in una condizione di equilibrio. La somma deve dare zero, un universo ignavo, democristiano, la bonaccia cosmica. L’emicrania del giorno dopo è la più cristallina prova dell’esistenza di Dio. Un Dio fiscale e tignoso, con la fissazione per l’economia e per la parità di bilancio. Un fanatico del ma.
I dolci sono buoni ma fanno male, il fritto è buono ma fa male. Il fumo, aaaah, ma fa male. Sei sveglio ma devi dormire. Sei sopravvissuto, ma hai mangiato altri esseri viventi. L’eroina ti dà pace ma fa male. Lo sport è salutare ma comporta infortuni. La velocità è divertente ma pericolosa. Il sesso, beh, ma è a rischio malattie, gravidanze indesiderate, complicanze coniugali ed extraconiugali. L’amore dà senso ai tuoi giorni ma ti espone a delusioni. Le perversioni sono eccitanti ma socialmente condannate. Vincere è bello ma faticoso. Potete disporre di ogni cosa in questo giardino ma non toccate quella mela. Si vive ma si muore.
Il capolavoro del creato è l’accoppiamento delle mantidi: lì il maschio interpreta il copione divino nella sua forma più pura: scopa e crepa. Se anche sintetizzassimo una sostanza psicotropa priva di effetti collaterali, l’istantanea nostalgia che proveremmo non appena svanito il suo effetto ci dimostrerebbe che non si scappa da un imperativo logico, che non si supera un a priori, che non si redime un’esistenza infelice “per definizione”. La nostra biografia è la storia dei nostri hangover. L’arte è l’unico tentativo umano di sottrarsi alla dittatura del ma, un’eccezione alla sintassi metafisica che ci obbliga all’utilizzo esistenziale dell’avversativo. Ma (eccoci di nuovo acciuffati dagli sbirri di Dio) per apprezzarla davvero, in genere, servono studio, abitudine, dedizione. Quanti, alla prova dei fatti, preferirebbero una visita al Louvre a una bella scopata, Guerra e pace a una cotoletta fumante?
L’hangover è un’anticipazione della morte, un flashforward dell’inferno, la sineddoche tremebonda di un ma tutto fuoco e zolfo e nulla. Il ricordo della nausea domenicale dovrebbe tormentare i nostri sonni. È così che funziona. Siamo tutti in attesa di quel grande MA. “Il conflitto è padre di tutte le cose, di tutte re” diceva Eraclito. La vecchia questione dell’interdipendenza dei contrari. Che intimamente sentiamo come una condanna personale, la consapevolezza fisiologica che l’universo è stato progettato come un supermarket: tutto ha un prezzo. Per questo, in hangover, proviamo un malessere ben superiore alla somma algebrica dei nostri singoli acciacchi: mal di testa, spossatezza, ansia, tremore, vomito. E, in più, un terrore atavico. È il volto di Dio che ci si rivela in quelle ore, con gli occhialini sulla punta del naso e la calcolatrice in mano.