Confesso di avere avuto paura. Per qualche mese ho temuto che l’Italia stesse cambiando padrone. Dall’America alla Cina. La Belt and Road Initiative che si stringe sull’Europa come una morsa, le arance di Di Maio, le mascherine griffate dragone, aziende vendute, un popolo di coscienziosi delatori, i crediti sociali come supremo antidoto all’indisciplinatezza di una nazione di individualisti, i dim sum a domicilio come supremo piatto per i weekend in zona rossa: dal cibo al colore, Mao sarebbe orgoglioso di noi. Del resto, come si dice: Usa o Cina, purché ce se inchina. Ma, dopo le reazioni alle performance di Elodie nella seconda serata di Sanremo, ho tirato un bel sospirone. Il nostro provincialismo, grazie al cielo, ciuccia ancora il pizzetto allo Zio Sam.
Ho ricordi sfumati di una pubblicità della mia infanzia, quella della carta stagnola Cuki Doppia Forza: due fratelli ritiravano in rosticceria un pollo incartato nell’alluminio e, con le maglie di una squadra da football, se lo lanciavano tra fontane e chiese di un centro storico italiano – una canzone rock and roll anni ’50 in sottofondo. Nessuno dei miei amici giocava, né avrebbe mai giocato, a football americano. Nessuno ne ha mai conosciuto nemmeno le regole. Eppure, la salute jeans di quei due ragazzini, il muscolo della voglia di vivere ben sviluppato, la leggerezza che solo un maxi frigo può dare, l’idiozia colorata, l’allegria del benessere che lucida i decrepiti monumenti del vecchio mondo… ah, Dio benedica l’America! Siamo cresciuti comunque con quei due boys per modello, epigoni dello sbarco in Sicilia in un Paese già bonificato: per continuare la conquista agli americani non serviva più lanciare bombe, bastava un pollo.
Non so se quello occidentale sia il miglior modello mai apparso sulla terra, so però che è il mio modello. Se posso permettermi di sputare sul pollo che mangio, è proprio grazie a quell’uccello gonfio di anabolizzanti, che si rizza sulle cosce arrostite e gridacchia: «avanti, fuoco anche sul pollame, è la libertà, bellezza». I miei conoscenti che vivono in Cina, se oso scrivere su Wechat nefandezze del calibro di «Xi Jinping picchiatello», mi rispondono terrorizzati: «richiama subito il messaggio». Allora, con la ribellione adolescenziale ancora in canna, apro WhatsApp e offendo Trump. Già temevo che i nostri figli crescessero con un’altra pubblicità: fratelli che si passano il pollo dai due lati di un tavolo di mah jong: non c’è che dire, molto meno coreografico. Siamo cresciuti con un padre che ci incoraggiava a dire le parolacce, «va’ fuori e fa’ il cazzo che ti pare perché tu sei speciale», alla mia età non riuscirei più a sopportarne uno che se non faccio i compiti tira fuori la cinghia e mi dice che sono soltanto il piccolo bullone di un trionfale ingranaggio collettivo, e fa seguire qualche indecifrabile traduzione sonora di pittogrammi alieni. Non siamo mai cresciuti.
E la performance di Elodie me l’ha confermato. Imitiamo ancora i grandi: gli americani. Avevamo bisogno della nostra Beyoncé al Super Bowl. Anche chi non ha mai visto il Super Bowl, anche chi non sa neppure cosa sia, ne aveva bisogno. Noi siamo il Paese del bel canto e abbiamo Sanremo, loro il Paese del bel bicipite e hanno il Super Bowl. Ognuno ha lo specchio che si merita. Ma le patatine fritte ci scorrono nel sangue, al posto del cuore abbiamo un hamburger.
È per questo, anche se non lo sanno, che oggi tutti esaltano Elodie. La ragazza che è uscita dal ghetto (sentite come suona più figo rispetto a borgata?) con le sue sole forze, grazie ai suoi talenti: la voce, lo stacco di coscia. Ecco quel che oggi si dà un tono ingegneristico ma in realtà è sempre il solito vecchio stra-mito pop: il sogno americano. Il passato mariadefilippiano di Elodie nascosto in soffitta come la zia che parla dialetto, la vergogna della provincia come squisito suggello di provincialismo. Confrontare le vecchie foto della ragazza ad Amici col suo presente all’Ariston: le stupefacenti tecniche redentrici dell’industria dello spettacolo. Un bel trucco, magari qualche ritocco, le luci da astronave, lo studio, l’impegno in sala di registrazione e sulla cyclette: voilà la magia. Tutto è possibile, baby. Anche per te! E i palloncini in platea hanno subito immaginato un futuro da dirigibili.
Elodie ha cantato Loredana Bertè ma anche Bob Marley e Beyoncé. Per le orecchie italiane quelle r anglosassoni accartocciate parlano di un universo a portata di mano. Ci fanno sentire parte di qualcosa di più grande e potente, le tronche americane rendono anche i concetti cretini degni di rispetto. L’inconscio collettivo sussurra: «se lo dicono loro…». Se Elodie avesse alternato Loredana Bertè alle canzoncine che ascoltiamo nei ristoranti cinesi avrebbe faticato a raggiungere il primo posto tra le tendenze di Twitter. Che sollievo, dio benedica Elodie. E poi il modo sexycazzuto di allungare i passi, le origini creole, i tratti esotici: vedete?, anche noi siamo il mondo, mica l’italietta. This is Italy: c’abbiamo pure JLo ma si mangia meglio.