In questo tempo della passività, del “non c’è più niente da vedere” (però davvero), dell’algoritmo che decide per noi – con tutti i Calasso che abbiamo da leggere e i Rivette che dobbiamo ancora guardare, niente: alla fine pure noi pigiamo su Che fine ha fatto Sara? – in questo tempo preciso qua, meno male che c’è la serie sulla famiglia reale inglese. No, non The Crown: quella vera.
Lo sapete: il nonno è morto; il nipote andato a vivere lontano deve tornare dopo che la moglie (anche lui, ma soprattutto la moglie) ha detto cose indicibili sulla di lui famiglia e gliel’ha messa contro come manco certe sposine anni cinquanta («loro ti schiacciano, non vogliono il tuo bene, e sono pure razzisti!», quest’ultimo un aggiornamento al dibattito corrente); il nipote non si parla più col fratello e figuriamoci con la cognata; cognata a sua volta colpevole d’aver fatto piangere la moglie del nipote del nonno (mi sto incasinando) per aver detto una roba del tipo «i vestiti delle damigelle del tuo matrimonio non mi piacciono» (la moglie del nipote del nonno, quella che ha pianto, ha quarant’anni). L’ho sintetizzato malissimo, ma perché so che sapete. E questo è il bello.
Il bello di questi giorni, invece, è che son quelli in cui si può ancora immaginare tutto. Il funerale del nonno sarà sabato prossimo, nel frattempo possiamo diventare tutti soggettisti: qualcosa di giusto lo beccheremo di sicuro, tale è il casotto in ballo.
Genere “dramma famigliare con finale di speranza”. Harry (facciamo i nomi) torna in Inghilterra con la coda tra le gambe, all’inizio grande freddo soprattutto con Kate, che gli ruba la scena. Giusto un gelido hello, poi lei corre a tenere la manina alla granny acquisita Elisabetta, come a dire: «Mentre tu te ne stavi nelle villozze americane, ci siamo occupati noi di nonna». Ma la nonna è buona e amorevole, o quantomeno lo fa apposta per riportare Harry in seno alla famiglia (la nonna è la regina, la nonna è la donna più intelligente al mondo). Calore (vabbè) inglese, corgi, tartan, scones, tascabili di P.G. Wodehouse in bagno, Harry pentitissimo cede: «Ho sbagliato tutto», piange contrito nelle braccia della regina, «e poi in America non mettono neanche il latte nel tè!». (C’è pure una storyline padre-figlio: tra Carlo e Filippo c’è sempre stata burrasca, così come tra Harry e Carlo. Anche questo guardarsi, per la prima volta, come dentro a uno specchio rinsalda il rapporto perduto.)
Genere “commedia demenzial-intellettuale”. Deconstructing Harry 2, ma anche Hollywood Ending 2 (la sua Hollywood, già da viale del tramonto dopo un anno appena). Harry torna in Inghilterra, paparazzi impazziti, lui scende dall’aereo e però nessuno riesce a vederlo, non capiscono, si erano comprati gli obiettivi nuovi per l’occasione e invece niente, è proprio sfocato. Ed è improvvisamente sfocato anche su tutte le tazze, i piattini, le cartoline ormai un po’ ingiallite del suo royal wedding ancora in vendita per i pochi turisti a Covent Garden. Metafora: Harry non sa più qual è il suo posto, Santa Barbara o il castello di Windsor?, i siparietti con James Corden o le cerimonie vestito da cadetto per i 400 Anni di Caccia al Fagiano nel Commonwealth? Finale aperto, se è miniserie HBO: Harry va in analisi ma non ne cava niente, però l’anziana vicina del terapista ascolta la sue sedute da una ventola nella parete, non sa che lui è un principe ma incredibilmente ci si ritrova: è, anche lei, una principessa asburgica che da anni ha perso, anche lei, i contorni. Su Netflix, invece, dieci puntate e lieto fine: il faccione di Diana compare nel cielo sopra Hyde Park come in Edipo relitto di Woody Allen, lui s’accorge che era solo un film, esce dallo schermo, incontra una cassiera del KFC di Brighton e diventa un pescatore di aringhe.
Genere “horror politico”. Un po’ alla Scappa – Get Out. C’è lo stesso tema razziale sotto pelle, e la stessa galleria di Bianchi Cattivi (ovviamente simpaticissimi): Carlo che davanti alla stampa piange «my dear papa», ma in realtà ha macchinato tutto; Camilla col suo ghigno alla Jack Nicholson; Andrew, l’amichetto di Epstein messo all’indice dai tribunali social, che torna a palazzo; William e Kate coppia di suprematisti che mangia negretti (nel senso di dolcini di quand’eravamo piccoli) dalla mattina alla sera. La regina sa tutto, ma passa per adorabile vecchina agli occhi del mondo inconsapevole, o forse complice. E il nonno Filippo non è mica morto…
Genere “documentario d’inchiesta sociologica”. Nel piagnisteo in mondovisione di Harry e Meghan, professione mitomani, ci son cascati tutti. Bravissimi, per cinque minuti, a recitare la parte delle vittime, degli abusati, degli umiliati e (soprattutto) offesi. Poi, tutti si accorgono che sono due cretinetti: a volte il mondo è meno stupido di quel che sembra, a volte ci arriva anche da solo. Ma è un soggetto troppo ottimista, o forse è solo troppo presto, il mondo è ancora un posto di scemi, bisogna aspettare qualche anno, adesso nessuno lo produce.
Genere “(true) crime”. Focus su Meghan, rimasta da sola in California. Dopo mesi, ma che dico anni, passati a convincere Harry che la sua è una famiglia brutta sporca e cattiva, sa che ora Harry è nelle loro mani e che – facile com’è a farsi abbindolare dal primo che si trova di fronte – rischia di mandare il suo lavoro a puttane. Dunque dà di matto, s’inventa un distacco della placenta, stavolta però nessuno lo crede (vedi traccia precedente), Oprah ha letto il suo whatsapp (doppia spunta blu) ma non le risponde, è completamente da sola, si mette a lanciare i piatti (quelli con le loro foto del matrimonio: qui Harry non è sfocato, è un’altra serie) contro il muro, perde i capelli, Archie viene salvato da una tata che lo porta in Ontario. Poi, di colpo, l’ex duchessina scompare: è l’unica mossa che resta a una vittima di professione. Che fine ha fatto Meghan?, e anche l’algoritmo è contento.