È vero che siamo la specie più chiassosa e deleteria del creato. Cioè, basta pensare alla via Gluck, dove prima c’era l’erba. Però chi scrive è un uomo e allora è difficile non essere di parte e insomma chi scrive tifa per gli uomini. I leoni mica tifano per le gazzelle, dico, né i tonni per gli squali. E quindi, dopo 70 giorni di isolamento, posso dirlo: mi sei mancata, umanità. Proprio perché lasci in bocca quel retrogusto di muffa e di schifo, molto pregiato, tipo il foie gras o lo champagne.
Quelli che in casa hanno pompato con i corsi di YouTube e allora vestono minigonne, i polpacci come due grossi ceci, oppure vestono magliette attillate, legumi anche i bicipiti. Quelli che si sono ingozzati di cioccolate la notte o di fritti antidepressivi in sacchetto e adesso fingono solidarietà con le minoranze zingare: sottanoni da nasconderci dentro un paio di nani.
Le occhiate furtive tra donne e uomini: io so che tu sai che io ti ho guardato mentre fingevo di aggiustare la cannuccia del mio spritz ma, per saggiarti, ti lascio il dubbio che io stessi effettivamente aggiustando la cannuccia del mio spritz, ti lascio quel margine di possibilità di fare una figura di merda, “sono fidanzata” potrei anche dirti. Questo giochetto può riempire cinque minuti di senso atavico.
I cani, che tornano a scodinzolare tra i tavoli dei dehors, i padroni segretamente fieri della spregiudicatezza dei propri surrogati filiali, “è fatto così”, lo indicano, e poi lo richiamano con la voce di chi ha già pronunciato milioni di volte lo stesso rimprovero e proprio non si capacita di come quel canide non afferri frasi comprensibili a un alunno di terza elementare, “ma quando vuole è di un’intelligenza…”, genio e spregiudicatezza, il mio cane.
Quelli che fischiettano o parlano di società con perdite del 40%, “ma sai, forse il rimbalzo”, e il BTP, e lo spread, e intanto ravanano nei sacchetti di patatine e noccioline lasciate dalla tavolata precedente.
Nuovi esperti di vini, dopo mesi di studio matto e disperatissimo sul web, non vedono l’ora di sfogarsi su un cameriere, poveraccio, intontito per gli schiamazzi a cui non era più abituato e per la CO2 intrappolata dalla mascherina, nuovi esperti di vini che sperano quel cameriere, in un delirio tossico mistico, alla fine gli si inginocchi davanti e gridi: “tu hai inventato il perlage”.
L’ancheggiare delle donne, il suono dei tacchi, i jeans attillati che strusciano, le code degli occhi degli uomini, la pancia degli occhi degli uomini, il cazzo degli occhi degli uomini, imbambolati e disperati e pronti a qualsiasi gesto concesso dalla civiltà. Le mani dei baristi che toccano i soldi come qualcosa di nuovo e quando cade una moneta dicono in falsetto, come a un cucciolo: “dove vai, eurino”.
Le brutte musiche di sottofondo, i tormentoni, le banalità verbali e armoniche ripetute all’infinito, che poi diventeranno il titolo di un’intera cartella di ricordi irripetibili, il sapore acustico di un’epoca della nostra vita. I selfie da aperitivo, tutti uguali, con un occhio più aperto dell’altro e la bocca accartocciata, l’iconografia di un secolo, l’autocelebrazione codificata, le statue equestri degli imperatori romani.
Le chiacchiere, le discussioni sui grandi mali del mondo, sui grandi beni del mondo, che si incartano e finiscono inevitabilmente in qualche vicolo cieco e si concludono ogni volta con un “chissà”, con un “vedremo”, con un “non sappiamo tutto” o con un “non ci dicono tutto”, e poi con un “vabbè, dove andiamo a cena?”.
La prima irruzione dell’alcol nel cervello, quel momento in cui tutto sembra benevolo e possibile, in cui ci si accetta con i propri difetti. Come svanisce in fretta, quel momento, e subito dopo come si è stanchi di lottare per una felicità che sguscia dalle mani, un sapone bagnato, e allora “cameriere, un altro giro”.
Le sigarette in piazza: arrivati al filtro, quei secondi di indecisione: cercare un cestino o buttarla per terra? Soppesare in pochi istanti i pro e contro: l’economia della fatica, la quantità di passi, il tempo di smaltimento della plastica, la biosfera, lo scioglimento della calotte polari, “ma dov’è un cestino?”, le scelte sbagliate del comune, sticazzi.
I saluti da lontano, l’avvicinarsi controvoglia, l’interessarsi, il lavoro e la famiglia, il non sapere cosa dire per mostrarsi cortesi, dietro un “tutto bene” c’è un’immensa spocchia, un’immensa idiozia, un’immensa menzogna, allora magari “non c’è male”, e poi tocca pronunciare il doveroso “e tu?”, ci si passa la farsa come una palla, e se in quel momento doveste decidere chi vive e chi muore tra voi due non ci pensereste un secondo, quell’altro lì, deve morire, ma poi come cazzo si chiama?
Il giudicare e il sentirsi giudicati, i ciuffi pettinati, i rossetti ripassati alla toilette, i modi di dire appresi sui social, azzardarli e vedere l’effetto che fa, vedere se è arrivato il momento di un nuovo anglicismo, temere di essere in ritardo sull’inesausta trasformazione della parola, le piccole e grandi sette linguistiche, i gerghi professionali e sportivi, il pericolante zoo del linguaggio umano.
Il disperdere la propria personalità nell’accumulo di corpi, diventare anonimi, perdere se stessi, liberarsi dal qui e ora e da queste braccia e da questo pancreas, diventare tutti, non esser più nulla. Le luci della sera, le ombre che zebrano ciottoli e cementi, il blu dello sfondo, il sonno che preme sugli occhi, ma aspetta ancora un altro po’, l’illusione che di notte possa accadere ciò che non può accadere di giorno, che possa accadere tutto, che magari svolti la prossima via, entri nel prossimo bar, ed eccola lì, la felicità.