Sta imperversando questo caso che vede protagonisti il direttore dell’Huffington Post, Mattia Feltri, e l’ex presidente della Camera – e forse anche ex blogger dell’Huffington Post – Laura Boldrini. Se siete qui, significa che conoscete i fatti. Per i ritardatari, in sintesi: Boldrini scrive un pezzo per il suo blog contenuto all’interno dell’Huffington Post in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne in cui, in un passaggio, cita come esempio di victim blaming un articolo di Vittorio Feltri (padre di Mattia) sul caso Alberto Genovese. Mattia Feltri chiede a Boldrini di eliminare quel riferimento, Boldrini rifiuta, Feltri cassa il pezzo, Boldrini accende la cassa delle doglianze gridando alla censura (il pezzo verrà poi pubblicato dal Manifesto).
Boldrini è stata censurata? Non diciamo sciocchezze. Mattia Feltri ha ragione? Non proprio.
Non esiste censura perché è pacifico che rientri nelle prerogative di un direttore decidere che cosa si pubblichi e che cosa no. Fine. Si chiama linea editoriale, non censura. Ora però la vicenda non è così lineare per due ragioni: uno, in questo caso la linea editoriale si fonda sul semplice fatto che Mattia sia il figlio di Vittorio; secondo, l’articolo di Boldrini non era su Vittorio Feltri, il quale veniva soltanto citato sommariamente, e inoltre Vittorio Feltri è un personaggio pubblico che nello specifico si esprimeva su un caso di cronaca diventando parte attiva del racconto.
Quando Mattia scrive di aver deciso, “più o meno da vent’anni”, di non commentare le cose scritte dal padre, dice una cosa assolutamente lecita ma che forse quando fai il direttore non puoi applicare così alla lettera all’universo mondo. Mi spiego: mentre è legittimo non scrivere né pubblicare pezzi di commento sul padre, non è così ragionevole cassare un intero pezzo soltanto per un inciso che lo tira in mezzo. Mattia avrebbe serenamente potuto non pubblicare se il pezzo di Boldrini avesse avuto Vittorio Feltri come oggetto, a partire magari dal titolo (ma non necessariamente). Pretendere che il padre non venga mai citato in nessun articolo, in nessun passaggio, neanche sommariamente e neanche quando quel che dice diventa parte della cronaca e del racconto dell’informazione, non è comunque censura ma diciamo che è un’applicazione un tantino bulgara del concetto di linea editoriale.
Non conosco personalmente Mattia Feltri (e nemmeno Vittorio), quindi non ho legami né consorterie da difendere, lo leggo da molti anni e lo considero uno dei migliori giornalisti italiani. Uno dei più equilibrati, senza ombra di dubbio. Ecco, qui credo sia mancato esattamente in questo, nell’equilibrio. Come è evidente la matassa non è semplice, comporta una serie di risvolti personali e psicologici che non devono necessariamente trovare spazio nei commenti sui giornali, però rimane che quello di Boldrini comunque non era un pezzo su Vittorio Feltri e Vittorio Feltri con quel fondo era entrato a far parte attivamente di quello che oggi viene definito come storytelling di una vicenda.
Personalmente, in quella che è la nicchia di Rolling Stone, adotto la medesima linea editoriale di Mattia Feltri. Lo sanno i redattori e lo sanno i collaboratori a cui rigetto pezzi di commento su Vittorio Feltri – è successo puntualmente anche in quest’ultimo caso.
Perché? Perché a mio modo di vedere Feltri – e soprattutto il feltrismo – non si combatte sul piano ideale. Si combatte – udite udite – proprio con la censura. Non commentando, non divulgando, non rappresentando, non invitandolo in trasmissioni tv, non tirandolo in mezzo, non telefonandogli, insomma non parlandone. Mai. A ben vedere si potrebbe dire che la vera censura messa in atto da Mattia Feltri sia quella nei confronti del padre.
Vittorio Feltri non è più tecnicamente un giornalista da anni. È un provocatore di professione, peraltro il più bravo che c’è, come si vede dai polveroni che regolarmente riesce ancora ad alzare. Io lo tratto con rispetto ma lo approccio per quel che è: un vecchio satiro. Leggo i suoi interventi quando ho voglia di farmi due risate amare, allo stesso modo in cui guardo uno show di humor nero. Per me Vittorio Feltri è più o meno come Dave Chappelle. Dice cose che non vuoi sentirti dire, che nessuno dice più, ma che continuano a farti incazzare. Chappelle lo fa all’impiedi con una sigaretta in mano, Vittorio davanti a una tastiera con il cognacchino sempre pronto. Per il resto sono uguali, fanno lo stesso identico lavoro. La differenza è che il pubblico di Chappelle ne è consapevole; quello di Vittorio no.