Non c’è niente da ridere, a Sanremo 2025 ha vinto il nostro passato peggiore | Rolling Stone Italia
Boomer Gang (Sanremo Edition)

Non c’è niente da ridere, a Sanremo 2025 ha vinto il nostro passato peggiore

La balorda nostalgia e l’incapacità d’immaginare il futuro, la disfatta del rap e la retromania tendente a destra, la finta autenticità del pop che ha sconfitto la finzione ricca di possibilità dell’hyperpop. Non è “tutta l’Italia”, è una Weimar all’amatriciana. Dialogo sul carlocontismo

Non c’è niente da ridere, a Sanremo 2025 ha vinto il nostro passato peggiore

Alessia Marcuzzi a Sanremo 2025

Foto: Daniele Venturelli/Getty Images

Giovanni Robertini: Bah, non vedo di che sorridere! Dovrei essere contento che sul podio ci siano tre cantautori? Del trionfo della “vera musica” o come ha scritto su FB la critica musicale Giulia Cavaliere a proposito di Lucio Corsi, di «una storia enorme che racconta dell’arte che tallona stretta le strategie e i poteri, un esempio incredibile di quanto sia possibile fare solo con il talento vero»? Per carità, anzi io ci vedo un brutto, fosco presagio. Spero di sbagliarmi, ma questa Balorda nostalgia di Olly mi spaventa un po’. Più che nostalgia quella dell’ex rugbista genovese è la retromania profetizzata da Simon Reynolds, ovvero la nostalgia di un passato che non si è vissuto, quello dei cantautori della sua città, come il De André che ha portato nella serata dei duetti (ma vale anche per il fantasma di Bowie evocato da Corsi). Un passato immaginato, mitizzato nell’incapacità di immaginare un futuro, scusa ma il filosofo Mark Fisher va citato per forza, ora la smetto. Dicevamo. Il sexy bear Olly, bravo ragazzo (e sembra pure simpatico) con studi in economia e al conservatorio, fa parte insieme a Bresh, Izi e Tedua di una scena che è stata ben raccontata in un documentario di Claudio Cabona e Yuri Dellacasa dal titolo La nuova scuola genovese e che, unico esempio nel mondo rap da cui tutti loro provengono, ha un forte legame con il mondo dei cantautori, Bindi, Tenco, Paoli e De André appunto: il folklore dei caruggi con le prostitute, lo spleen del mare, ma anche il patriarcato libero in cui il maschio poteva gridare le sue pene d’amore per essere stato lasciato dalla fidanzata senza essere accusato di tossicità. “Ma come te lo devo dire / ’Sta vita non è vita senza te”, canta Olly nel pezzo vincitore, “Non so più come fare senza te / Te che mi fai, vivere e dimenticare / Tu che mentre cucini ti metti a cantare”. Ho i brividi, ma non è una bella sensazione. Seguimi: come ha vinto Trump se non con una falsa nostalgia, una retromania di America, di un mondo in cui tutti avevano un lavoro e i neri, i gay e gli immigrati stavano al loro posto? Per non parlare di Salvini, che nei caruggi lascerebbe volentieri le prostitute ma caccerebbe tutti gli immigrati che ormai da anni li abitano…

Alberto Piccinini: Hai ragione. Aggiungo soltanto: se la nostalgia è la benzina del nuovo fascismo, quale mezzo migliore che usare le canzoni di Sanremo per misurare quanto ci manca ancora? “Sospeso tra un passato non realizzato e un futuro irrealizzabile”, è quel che pensava negli anni ’30 lo storico Ernst Bloch del nazismo e dell’uso perverso che Hitler faceva dell’utopia coi suoi seguaci. Make Germany Great Again. L’ho letto in una recensione sul Manifesto e me la sono segnata perché bisogna studiare, sennò non se ne esce. Di Olly oltre a quelle che citi tu mi interessano altre svolte poetiche: frasi come “addormentarci sul divano / col telecomando in mano”, oppure “ti cerco ancora in casa quando mi prude la schiena”, che mi richiamano non so perché il crepuscolarismo folle di “felicità è un bicchiere di vino con un panino”, Al Bano, immortale inno dell’ultima volta che qui in Italy siamo stati davvero Great. E penso che Al Bano era ironico, e pure i Ricchi e Poveri a confronto di oggi. E l’Umberto Tozzi di Tu, forse musicalmente la cosa più vicina a Balorda nostalgia che mi venga in mente, era criptico ma non fino al punto di capire che comunque si sarebbe venuti al sodo. Olly invece canta in una casa vuota, haunted per l’appunto, in cui non si vuol neppure riconoscere l’evidente stato psicotico del “piatto in più quando apparecchio a cena”. Non ce l’ho con lui, poveretto, ma al confronto il teatrino incel di Fedez – a parte la modernità dei suoni e l’evidente debito verso Elon Musk – è un bagno di realtà: fluoxetina, serotina, cianuro. Diamo un nome all’inganno dei sentimenti, al narcisismo ferito, all’incapacità di uscire dal patriarcato. Invece no: facciamo grande la canzone ancora. Torniamo a cantautori bianchi, maschi, italiani che ci hanno cullato nelle gite in macchina e in tutte le spiagge della penisola, prego prima lei. Facci caso, nei ritornelli di Olly e Lucio Corsi suona lo stesso giro di Do, l’inganno supremo. Brunori suona Rimmel di De Gregori, e con Cristicchi ci intrattengono sui loro drammi di figlio e di padre, sopra gli stessi quattro accordi. Il sospetto è che non gliene freghi niente della fidanzata e della mamma, ma solo di fregare noi con la canzone.

GR: In un Sanremo senza un nuovo italiano, poco fluido molto etero, e per nulla incazzato, pure il rap ne è uscito sconfitto. Incapace di esprimere una nostalgia per la sua giovinezza – per il rap vecchia scuola – senza cringiare, ci ha fatto capire che Sanremo non è roba per rapper: Guè, uno dei migliori, non ha mai fatto prima delle rime così anestetizzate, l’apparizione di Neffa sembrava fatta con l’AI (per quanto stilosa) e Tony Effe ha scelto la canzone romana, altro che Dark Polo Gang! Sarà perché il rap e la trap vivono nel presente, quindi lontane dalla nostalgia e dal futuro inimmaginabile di Sanremo, sarà perché il buonismo educato dell’Ariston a cui il carlocontismo le avrebbe volute educare snaturandole ha fatto da buttafuori nella selezione all’ingresso, fatto sta che “tutta l’Italia, tutta l’Italia” è una grossolana distopia che ci ha distratto per una settimana o per sempre, non fa differenza. “Però ti voglio bene / ed è stata tutta vita”, chiude così la Balorda nostalgia di Olly. Aiuto!

AP: Ogni volta che finisce Sanremo sono esausto. È il girare a vuoto, l’horror vacui della critica (noi compresi), la macchina celibe dei social e della tv. Stamattina al supermercato mi sono sorpreso a cantare Olly mandato dalla radio a tutto volume e avrei voluto affogare nel reparto degli yogurt greci piuttosto. Per questo guardo con invidia all’entusiasmo delle ragazze della libreria bar lesbica Tuba al Pigneto (che come sai è uno dei miei punti di riferimento estetici e per il caffè della mattina) che hanno perso senza ritegno la testa per Rose Villain e per Achille Lauro. Ecco: il confine che divide il teatro e la queerness di questi due dalla presunta verità dei cantautori mi appare finalmente come una pista interessante da indagare. Il teatro è finzione, queerness, possibilità, avventura. Rose Villain coi capelli blu e i colori primari è la nostra regina hyperpop. «L’hyperpop parte dal principio che, nell’era dei social network, per un* artista è impossibile essere autentic* e spontane*», scrive Julie Ackermann nel saggio Hyperpop (Not edizioni). Achille Lauro in versione sciantosa di periferia è un chiaro omaggio al cabaret di Weimar? Se Tony Effe ci avesse messo un po’ d’impegno in più avremmo potuto metterlo in questa categoria: il suo maschio italiano Ferragamo/Califano maschera narcisista criptogay come del resto insegnano tutti i riccetti da Pasolini in avanti, e non voglio spingermi oltre. Sì, il rap, la trap, l’hip hop escono da questo Sanremo fatti a pezzi e secondo me è un buon segno, ti dirò. È quasi sempre un buon segno se una cosa non funziona a Sanremo, che pure quest’anno ce lo siamo levato. Ti saluto.

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