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Oltre alle gambe c’è di più: ma questa Miss Italia senza costume da bagno non sarà un po’ ipocrita?

Nell’era della body positivity, il concorso di bellezza rinuncia alle sfilate e diventa una specie di esame di maturità. Ma forse non è così che si sta ‘dalla parte delle ragazze’

Foto: Daniele Venturelli

«Non sfileremo in passerella come di consueto per mostrare la nostra bellezza, che comunque non intendiamo tenere nascosta, ma daremo risalto a tutta la nostra forza, daremo spazio alle individualità di ciascuna delle nostre ragazze, ai loro sogni, alle loro aspirazioni e anche alle loro debolezze, perché da quelle parte il coraggio di affrontare la vita di donna». Patrizia Mirigliani, patron di Miss Italia, nel 1991 aveva quarant’anni, e quel «Siamo donne, oltre le gambe c’è di più; donne, donne, un universo immenso e più» deve esserle entrato bene in testa – oltre che nel cuore – tanto da voler inaugurare una nuova era del concorso che elegge la più bella d’Italia, un’era dove è importante l’universo immenso e più, mica la figaggine delle candidate.

Viviamo in un’epoca bizzarra, in cui la bellezza fisica è offensiva, divisiva, discriminante. Siamo tutte belle, ci dice la body positivity, che ha fatto più danni dei pantaloni a metà polpaccio. E tu, con le tue caviglie sottili, il tuo sedere rotondo, le tue chiome fluenti e i tuoi fianchi stretti, dovresti vergognarti: mi fai sentire inadeguata, ti adatti agli standard imposti dagli uomini, non vedi che il corpo è un costrutto sociale? Mi viene da chiedermi come abbia fatto io – figlia degli anni ’80 – a crescere in maniera tutto sommato equilibrata, quando da piccola, da ogni giornale che sfogliavo, spuntava fuori una Turlington, una Crawford, una Schiffer o un’Evangelista. Erano sbagliate loro o ero sbagliata io, che le trovavo meravigliose, ultraterrene, inarrivabili e andava bene così? Di sicuro non andrebbe bene ora, ché non ci si può limitare a essere belle e basta: se sei figa devi anche essere impegnata, attivista, abbracciare la politica identitaria, sostenere i poveri, i disabili, i trans, i cani abbandonati, i gatti ciechi, le mosche senz’ali.

La bellezza, insomma, devi dimostrare d’essertela meritata con un po’ di beneficenza e volontariato, e soprattutto non la puoi dare in pasto così, nuda e cruda, allo sguardo altrui. No, devi infarcirla di pipponi metafisici che motivino il tuo stare davanti a una videocamera in mutande e reggiseno: stai facendo divulgazione, combattendo lo slut shaming e demolendo il patriarcato, nessuno ti sta scattando una foto per una tua personale vanità («è la mia narrazione e tu la lasci in pace») o affinché tu possa trarre un guadagno da quel corpo e da quel visetto («mi stai forse dando della troia?»).

In un campo minato che manco la campagna cambogiana nel 1968, l’ottantunesima incoronazione di Miss Italia – che per la prima volta non ha trovato una collocazione in un palinsesto televisivo e sbarcherà online con un evento ad hoc trasmesso in streaming – non può certo rischiare di perdere un arto. Tradotto: dato che la tradizionale passerella in costume rischiava di creare disagi e crisi mistico-esistenziali, s’è pensato di ricorrere a «abiti semplici, ma preziosi, omaggio alla moda, che sostituiscono il tradizionale costume da bagno. E la sfilata in passerella si trasforma in un colloquio delle candidate con la giuria, una riflessione, tra l’altro, sul periodo che stiamo vivendo». Finalmente, insomma, potremo soffermarci sia sulla forma che sulla sostanza, e – presiedendo una specie di commissione d’esame della maturità – annuire compiaciuti scambiandoci gomitate e convenendo che «la penultima è bòna, e ha pure detto delle robe intelligenti».

Lunedì 14 dicembre, per un’ora e mezza, ascolteremo le dolenze di venti cristiane che nel 2020 sono convinte che Miss Italia possa rappresentare una svolta nella loro vita (e già questo la dice lunga, ma andiamo avanti), e non potremo giudicarle solo sulla base della loro avvenenza (Miss Italia è sempre stato un concorso di bellezza, mica sono le Olimpiadi della Matematica), ma dovremo concentrarci sulle profonde verità e ragionamenti di cui ci metteranno al corrente. Vestite con «abiti semplici, ma preziosi» (che scelta di termini sublime, chissà cos’ha in mente la Mirigliani: cocktail dress di Dolce & Gabbana? Tubini neri di Armani? Orli rigorosamente sotto il ginocchio?).

Fatico a capire la motivazione reale che ha portato all’abolizione di costumi da bagno, sfilata e all’istituzione di un colloquio con la giuria: gli organizzatori temono che le nazi-femministe montino i soliti shitstorm? Credono sinceramente che una ragazza che s’iscrive con cognizione di causa a un concorso di bellezza si sentirà meno “usata” perché indossa un vestitino e un tizio le domanda la sua opinione sul coronavirus? Dobbiamo arrivare a vergognarci perché l’aspetto fisico gioca ancora un ruolo fondamentale nelle valutazioni che esprimiamo sulle persone, e chi lo nega con forza è un po’ bugiardo, un po’ ipocrita?

In occasione della cover di gennaio di British Vogue, nonché del 28esimo anniversario dal suo debutto sulla copertina del magazine, Kate Moss ha risposto a 28 (ma toh) domande rivoltele dai suoi famous friend, dalla sua famiglia e da chi ha lavorato con lei. Il risultato è un video su YouTube dove la mia prediletta, la donna più bella, cool e sexy del globo, colei che da che ho memoria ha scelto il dono del silenzio e non ha mai sentito l’urgenza di raccontarsi, spiegarsi, giustificarsi, chiacchiera amabilmente per tredici lunghissimi minuti. Tredici lunghissimi minuti durante i quali io continuavo a pensare a un’unica cosa, ossia a quanto preferissi la sua vecchia versione: quella in cui se ne stava zitta.

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