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Perché è così difficile essere una donna che non odia gli uomini?

In questo 8 marzo senza manifestazioni, dovremmo fare un minimo di autocritica sull'inclusività di un movimento femminista spesso respingente perché troppo rigido, in cui non esistono vie di mezzo ma solo vincitrici e vinti

Foto: LUCAS BARIOULET/AFP via Getty Images

Potrei prendere a esempio centinaia di accadimenti per avvalorare la tesi di cui sopra: oggi, come mai prima d’ora, è estremamente difficile essere una donna che non ce l’ha a morte con gli uomini. Ma mi limiterò a citarne tre, dal meno al più recente.

Lo scorso 13 gennaio, quando sono state annunciate le candidature ai 92esimi Academy Award, s’è urlato allo scandalo per l’esclusione di Greta Gerwig dalla categoria “miglior regia”. Nonostante il suo Piccole donne avesse conquistato sei nomination, inclusa quella di miglior film, le neo-femministe sono insorte, inneggiando al sempreverde patriarcato, accusando l’Academy di negligenza, spammando l’Internet a suon di hashtag #tuttimaschi. Non è chiaro quale dei cinque nomi in lizza avrebbe dovuto essere messo da parte, e non è nemmeno chiaro come fosse possibile essere così graniticamente certe senza avere un quadro completo dello scenario, dato che 1917 di Sam Mendes sarebbe uscito nelle sale italiane dieci giorni dopo. Sottigliezze? Non proprio. Gerwig non compariva nella rosa composta da Bong, Mendes, Phillips, Scorsese e Tarantino per una semplicissima e comprensibilissima ragione: da un punto di vista registico (dando per scontato che il club delle indignate conosca i tecnicismi premiati da un Oscar alla regia), il film di Gerwig era inferiore, punto. Però era impossibile ammetterlo: nei giorni a seguire, ho letto insulti a Scorsese («Un vecchio che farebbe meglio a ritirarsi»), a Tarantino («Film per maschi, girato da un maschio») e in generale a chiunque rientrasse nella categoria maschio-bianco-etero, a quanto pare la causa di tutti i nostri mali. Una furia cieca, insomma, che non teneva conto del punto fondamentale della questione: non riusciamo a essere contente del fatto che questa cinquina ci abbia regalato un titolo più bello dell’altro? Ci è davvero così difficile accettare un’estromissione basata sul solo merito e non sul sesso? Siamo sicure che ciò sia l’ennesima sconfitta del genere femminile?

Avanti veloce fino al 24 febbraio: Harvey Weinstein viene dichiarato colpevole di stupro di terzo grado per una violenza avvenuta nel 2013 e di atti sessuali criminali di primo grado per un episodio del 2006. Di lì a poco, Asia Argento nelle sue Instagram Stories pubblica la foto di un maiale allo spiedo con la didascalia «Pig Roast #harveyweinstein». Le sue sostenitrici esultano, nessuno ha il coraggio di sottolineare la gravità del commento, né la non appropriatezza dei festeggiamenti in terrazza, brindando mentre mostra il dito medio a «quelli che mi hanno dato della puttana». Weinstein, se vogliamo mettere i puntini sulle i, è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale predatoria, dunque non è e non può essere definito un predatore sessuale.

Delle 87 donne che, nel 2017, lo accusarono di molestie, stupri, assoggettamenti psicologici e abusi di potere, oltre una trentina tra attrici ed ex dipendenti della sua società nel dicembre 2019 ha preferito raggiungere un patteggiamento sotto forma di 25 milioni di dollari versati come risarcimento. In cambio, l’ex magnate di Hollywood non ha dovuto riconoscere le proprie colpe: un dettaglio non di poco conto, peccato che la cultura popolare abbia già fatto di tutta l’erba un fascio, non distinguendo i crimini e lasciando stabilire le pene eterne alle campagne mediatiche. «Se vogliamo che la società e gli uomini si evolvano, non penso che demonizzarli e stigmatizzarli fino alla fine della loro vita sia una buona idea. Quale aggressore vorrà confessare i suoi errori se il suo crimine è un debito che non potrà mai pagare? E quale vittima vorrà denunciare un’aggressione se questa rimarrà attaccata per sempre alla sua pelle?», ha spiegato Samantha Geimer, l’ex tredicenne stuprata da Roman Polanski (che si è sempre sottratta al paradigma vittimista) in una recente intervista a Slate. Il che ci porta al terzo e ultimo avvenimento.

28 febbraio, Parigi, 45esima edizione dei César: Polanski vince il premio come miglior regista per L’ufficiale e la spia – film di rara bellezza nonché attualità – e sia all’interno che all’esterno della Salle Pleyel di Parigi scoppia il putiferio. L’attrice Adèle Haenel lascia la premiazione non appena annunciato il vincitore, seguita da Céline Sciamma, regista di Ritratto della giovane in fiamme. Intanto, fuori, la protesta organizzata contro Polanski dai gruppi Osez le féminisme! e MeToo degenera in scontri con la polizia. Lo sdegno generale arriva in seguito alle dichiarazioni di Valentine Monnier, l’ex attrice che lo scorso novembre, dopo quarantaquattro anni, ha accusato Polanski di averla violentata nel suo chalet di Gstaad. Il regista ha negato, il ritardo della denuncia ne ha causato la prescrizione, ma l’assenza di evidenze o prove non ha impedito alla gogna (mediatica e non) di scattare. Fanny Ardant non ci sta, e lo dichiara ai microfoni di AlloCiné: «Quando amo una persona, l’amo appassionatamente: amo moltissimo Roman Polanski, e sono altrettanto felice per lui. Capisco che non tutti siano d’accordo, ma viva la libertà. Seguirei qualcuno fino alla ghigliottina, non mi piace la condanna». Ardant, per colpa di tali dichiarazioni, viene messa in croce un po’ ovunque da donne offese dalla sua insensibilità, dalla mancata adesione al movimento femminista e dalla difesa di colui che, ai loro occhi, è un mostro che non merita alcuno sconto. Gli insulti sono talmente pesanti da far scendere in campo (ossia su Instagram) in suo sostegno Nicolas Bedos: «Laddove voi vedete cecità e indecenza, io vedo umanità e decenza», chiosa in un post. Come se bastassero le belle parole a spingere un manipolo di invasati a fermarsi e ragionare.

L’odio spropositato, folle, smodato e sconsiderato: eccolo, il filo rosso che lega tre episodi diversi, eppure con una matrice comune. L’odio nei confronti dei cinque registi uomini che hanno impedito alla protégée delle neo-femministe di aggiudicarsi un premio; l’odio nei confronti di Weinstein che non ammette fastidiose puntualizzazioni; l’odio per Geimer che si permette il lusso di voltare pagina e di non disprezzare Polanski; l’odio per Polanski stesso, un (presunto) recidivo a cui dovrebbe essere impedito di lavorare; infine, l’odio nei confronti di Ardant, una schiava del patriarcato che osa non voltare le spalle a un amico. Non è affatto mia intenzione sminuire i reati sessuali, assolvere chi è colpevole o iniziare un noiosissimo dibattito sul sacrosanto diritto di scindere l’uomo dall’artista. Allo stesso tempo, però, fatico a trovarmi rappresentata in un femminismo così fazioso, estremista, che non vuole ammettere dubbi e che mira soltanto ad affossare l’universo maschile con ogni arma a disposizione.

In questo 8 marzo orfano di manifestazioni e scioperi, mi piacerebbe che – anziché sbatacchiare pentole o altro a una determinata ora del giorno – si riflettesse con un minimo di autocritica sulla reale inclusività di un movimento femminista spesso respingente perché troppo rigido, ideologico, in cui non esistono vie di mezzo ma solo vincitrici e vinti, esempi virtuosi e innominabili. Mi piacerebbe che il merito tornasse a essere l’unico e insindacabile metro di giudizio che determina la validità di un libro, di un film, di una fotografia, di un piatto o di un’opera d’arte, indipendentemente dal sesso dell’autore. Mi piacerebbe non dovermi destreggiare tra innumerevoli aut aut, bensì scivolare con un po’ di leggerezza sulle contraddizioni senza trasformarle in scogli insormontabili, e senza un moralizzatore che stabilisce per me cos’è bene e cosa no.

Ma, soprattutto, mi piacerebbe che amare le donne non implicasse quasi automaticamente odiare gli uomini e ridurli a seccanti incidenti di percorso che ci impediscono di dar prova del nostro potenziale o a predatori privi di morale pronti ad approfittarsi di noi. Lo conferma Geimer: siamo forti, intelligenti, e non è demolendo gli uomini che esaltiamo le donne. Chissà se questo potrà mai diventare lo slogan del nuovo femminismo. Io non perdo le speranze.

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