L’abbiamo vista quasi tutti, Vanessa Incontrada sulla copertina di Vanity Fair. Completamente nuda, con lo sguardo fiero, l’attrice e conduttrice televisiva ha deciso di portare avanti così la sua personale campagna contro il cosiddetto “body shaming” avviata tempo fa: «Questa copertina è il momento più bello degli ultimi anni», ha dichiarato la 41enne. «È il punto d’arrivo che vede il mio corpo diventare un messaggio per tutte le donne (e per tutti gli uomini): dobbiamo tutti affrontare, capire e celebrare una nuova bellezza». Il tutto corredato da un video diffuso sui social in cui la stessa Incontrada dice: «Quando vedo abbassare lo sguardo di una donna perché viene criticata per come si veste, per come si trucca, se è magra, se è grassa, quanto profumo si mette, come guida, quanto parla, quante persone frequenta. Se vuole un figlio, se non lo vuole, se è troppo maschile, se è troppo femminile, se è troppo libertina è una poco di buono, se non lo è, è troppo rigida. Ogni volta mi ricordo di quante volte io ho abbassato lo sguardo per quello che mi son sentita dire, finché ho capito che nessuno mi può giudicare, perché ho capito che nessuno ti può giudicare».
E va bene, brava, bis. Ma qui diventa necessaria una riflessione che non ha a che vedere con la Incontrada in quanto persona che ha sofferto e probabilmente ancora soffre per certe osservazioni e dinamiche denigratorie nei confronti del suo aspetto fisico, ma che, semmai, ha a che fare con l’impostazione concettuale di questa sua iniziativa e con la narrazione che ne è derivata un po’ ovunque su giornali e siti web.
Partiamo dalla frase “il mio corpo diventa un messaggio”. Ok, libera di dichiararlo, peccato che – come qualcuno non ha mancato di osservare nel caos del dibattito social – quel corpo non è davvero il tuo, non è quello reale, è evidente che sia stato ritoccato almeno un minimo per celare non tanto le forme, quanto certi difetti della pelle e della carne che noi donne conosciamo molto, molto bene. Ed è assolutamente comprensibile non voler mostrare nel dettaglio cellulite, cuscinetti, smagliature e simili, però, nel momento in cui si decide di esporsi con parole del genere, forse non è il caso di autocelebrarsi come modello di donna che ha finalmente imparato a fregarsene dei giudizi altrui. L’impressione, guardando quel servizio fotografico, è che Incontrada desiderasse tantissimo essere bella e sexy esattamente nello stesso modo in cui la televisione, il mondo dei media e in particolare (paradossalmente) i magazine femminili, e ancora il mercato dei prodotti cosmetici e quello pubblicitario e della moda, ci richiedono più o meno esplicitamente di essere. Ossia senza difetti nel peggiore dei casi, senza troppi difetti nel migliore. Perché, diciamolo, qualche progresso si è fatto, ma manca ancora molto per arrivare a poter dire che tutti questi mezzi, inclusi quelli che si auto-promuovono come “dalla parte delle donne”, abbiano abbandonato del tutto quel modello di perfezione fisica contro cui Incontrada giustamente si scaglia a parole, salvo poi aderirvi con delle immagini patinate che definire “fuori fuoco”, come ha fatto lucidamente Selvaggia Lucarelli, è poco. Il messaggio che passa non è “ragazze, accettatevi così come siete”, bensì “ragazze, accettatevi così come siete, basta qualche trucco e sarete magnifiche”. Che non è tanto diverso dal “per essere belle bisogna soffrire” di antica memoria.
Poi c’è quel termine, “messaggio”, buttato lì quasi a sottolineare il valore etico-sociale dell’intera operazione: mi denudo per tutte le donne, per trasmettere loro il coraggio che in passato non ho avuto, eccetera. E questo non significa altro che elevarsi a icona, a simbolo, a emblema, a punto di riferimento. Di chi? Non di tutte le donne, visto che le incongruenze che abbiamo appena elencato hanno suscitato una buona dose di perplessità in molte esponenti dell’universo femminile. Ma soprattutto: perché? E qui si pone il problema della narrazione, una narrazione che naturalmente ha sempre fatto parte delle nostre esistenze e del nostro modo di comunicare, ma che da qualche tempo è diventata un diktat teso non più solo a rendere coinvolgente il racconto della vita di un artista o di un personaggio, per esempio, ma anche a costruirci attorno uno storytelling extra (così facciamo felici anche i fan degli inglesismi) che non è volto a dire la verità, ma ha l’obiettivo di costruirne una, di verità. In questo caso quella di Vanessa Incontrada paladina dell’accettazione di sé, e pazienza per le contraddizioni di cui sopra, ma pazienza anche per tutte quelle ragazze che forse più che di paladine avrebbero bisogno di persone che si mettano al loro stesso livello. Insomma, se le critiche nei confronti del tuo aspetto fisico ti hanno ferita e ora vuoi comunicare al mondo che hai imparato ad accettarti, perché impacchettare questo rispettabile intento in maniera artificiosa e quantomeno forzata? Senza giri di parole: perché confezionarci attorno un servizio giornalistico che dalla carta è approdato sui siti di news online e infine sui social sulla base di un battage mediatico della stessa potenza di una campagna pubblicitaria? Perché non avere il coraggio di farsi vedere non così, ma al naturale, sui propri profili social, senza ricorrere a intermediari? È la stampa, bellezza!, esclamerà qualcuno, ma quando pronunciava questa frase in L’ultima minaccia di Richard Brooks, il giornalista interpretato da Humphrey Bogart intendeva ben altro, e un ben altro che varrebbe la pena ricordare correttamente, senza storpiature.
È il marketing, bellezza!, farà notare qualcun altro sarcasticamente, e sicuro che lo è, ma ancora una volta: almeno per sostenere certe cause importanti non sarebbe meglio distaccarsi da meccanismi che ormai dovremmo conoscere bene e che ci riducono a meri oggetti di indagini di mercato? Su Internet c’è anche chi ha commentato che se sei un personaggio pubblico difficilmente puoi evitare determinate modalità comunicative, ma a parte che ciò che è difficile non è impossibile, pensiamo ad Arisa: quest’estate, senza protagonismi, ha condiviso sul suo Instagram delle fotografie scattate col cellulare in cui semplicemente si mostrava in bikini senza se e senza ma, senza trucco né parrucco, senza null’altro che la propria carne non rimaneggiata in bella vista e tantissima autoironia: “Sono un albero di arance, un panino al latte, una dea”. Quello che ne risulta sarà anche il messaggio di una cantante famosa, ma è un messaggio che acquisisce una credibilità maggiore e che ha più probabilità di mettere a proprio agio e rasserenare una ragazzina che magari proprio in questo istante sta combattendo contro i suoi complessi. Perché è importante ricordarselo: sono in primis le adolescenti che hanno bisogno di essere sostenute in un percorso di autostima, non si può negare o bypassare questa verità con un discorso autoreferenziale tra over40 che hanno dalla loro fama e successo.
C’è un altro punto della questione: Incontrada afferma che nel momento in cui il suo corpo denudato finisce in copertina “diventa un messaggio per tutte le donne (e per tutti gli uomini)”. Ma poi nel video cui si è accennato all’inizio dell’articolo parla con tono accorato di quando vede “abbassare lo sguardo di una donna quando viene criticata per come si veste, per come si trucca…”. Anche da questo punto di vista la narrazione rischia di essere ambigua, in quanto conforme a una retorica divisiva che tende a porre in risalto il ruolo di vittima della donna. Sia chiaro, la stessa Incontrada ha ribadito più volte che alcuni uomini l’hanno aiutata a superare le sue difficoltà e che le critiche che l’hanno maggiormente ferita le sono state rivolte proprio da donne, però è come se a queste sacrosante e oneste osservazioni si fosse alla fin fine sovrapposta, in qualche misura, l’esigenza di evidenziare quanto per le donne sia tutto più arduo, complesso e faticoso. Nessuno mette in dubbio che in una società che è ancora innegabilmente di stampo patriarcale un’assoluta parità tra i sessi non sia stata ancora raggiunta con tutto quel che ne consegue, ma anziché mettere gli uomini (letteralmente) tra parentesi si potrebbe almeno tentare, specie in frangenti così plateali, di superare una distinzione tra sessi – le donne, gli uomini –, per parlare semplicemente di persone. Persone condizionate da un paradigma patriarcale che non può essere sconfitto adottando il medesimo linguaggio categorizzante su cui quel paradigma si fonda: è quello stesso linguaggio che va cambiato, modificato, trasformato, nella direzione di un’unione e di una comunione d’intenti che stimoli un dialogo e non escluda nessuno, contro una polarizzazione e una frammentazione che non possono che condurre, in ultima istanza e se non si fa attenzione, a un’esacerbazione del conflitto sempre più grave. E sì, tutto ciò esige uno sforzo incredibilmente enorme, ma senza uno sforzo simile invece che andare avanti si rischia, pian pianino, di tornare indietro.