C’è una coincidenza triste e grandiosa nel giorno in cui si è estinto Leiji Matsumoto, ovvero il 13 di febbraio. Qualcosa di poetico in una maniera struggente, esemplare e sublime come nell’opera tutta del compianto maestro. Un caso del destino che ci indurrebbe a pensare, non fosse questa una speculazione morbosa e forse persino immorale, se l’artista non fosse conscio della concomitanza durante quell’ultime ore fatali e questo non gli sia stato in un qualche modo di amaro conforto.
Centoquaranta anni prima, lo stesso giorno, si spegneva a Venezia il musicista e poeta Richard Wagner per il quale Matsumoto, come tanti altri artisti da Marcel Proust a Thomas Mann, da Baudelaire a Joey DeMaio dei Manowar, provò un lungo e intenso amore che condizionò e ispirò i suoi lavori.
Una passione wagneriana sorta quando ascoltò per la prima volta, ai tempi della sua giovinezza, la Marcia funebre di Siegfried dal Crepuscolo degli dei, «l’epicedio per tutti gli eroi» noti e ignoti di ogni epoca (come la definì il musicologo Celli), una musica propostagli dal padre che fu pilota durante la seconda guerra mondiale e che lo indusse poi a conoscere e riverire la musica tedesca e austriaca soprattutto romantica. Una coincidenza, quasi una corrispondenza, che alimenta suggestioni non così dissimili da quelle di Incompiuta, un breve manga del 1969 in cui il dolore amoroso di un giovane disegnatore si sovrappone alle immagini reinterpetate del film Leise Flehen Meine Lieder (1933) di Willi Frost, un languido quanto ispirato adattamento della biografia di Franz Schubert, in Italia intitolato Angeli senza Paradiso e da non confondere con il teneramente agghiacciante film omonimo del 1970 diretto da Ettore Maria Fizzarotti, con Al Bano nel ruolo dell’immenso musicista austriaco deceduto a soli trentuno anni per una febbre tifoide che distrusse il suo corpo già indebolito dalla sifilide.
Il protagonista del manga prova empatia per quello del film, che in letto di morte celebra la sua Sinfonia in Si Minore rimasta incompiuta comparandola ad un amore infelice anch’esso destinato a permanere senza fine; «io ne ho quindici di anni», conclude il ragazzo, «ho ancora un futuro». Qui c’è un’altra potente coincidenza lirica, perché quando Matsumoto scrisse e disegnò Incompiuta nel 1969, essendo nato nel 1938, aveva proprio trentuno anni , quindi la stessa età del soccombente Schubert, ma per fortuna sua e nostra egli aveva davvero un lungo, brillante e magnifico futuro davanti a sé.
È stata più volte sottolineata e argomentata quell’affinità elettiva che c’è tra la musica e l’opera manga e anime di Matsumoto, da quello straordinario adattamento wagneriano che è Harlock Saga L’Anello del Nibelungo diventato un OAV (original anime video) nel 1999 con le musiche del Ring che si inseriscono nella colonna sonora originale in una squisita e drammatica contaminazione, fino a quello spettacolo di suoni, idee e immagini che è Interstella 5555 (2003) musicato dai Daft Punk.
Tuttavia è proprio il tratto di Matsumoto, il suo disegno, che possiede ed emana una musicalità espressa tramite un armonia e gentilezza assoluta: la leggiadria davvero schubertiana di una bellezza eterna quanto effimera, il titanismo e l’umanità del Beethoven più epico e universale, la “grandeur”, l’intimismo e la rivoluzione esplicita del Wagner che fu compagno di Bakunin durante i moti del ’48. E in questo tratto dalla rara beltà c’è qualcosa di musicale che può risultare evidente a chi ha osservato i manoscritti degli spartiti originali dei grandi musicisti, anche quelli più tormentati dalle correzioni e dalle indecisioni, la grazia implicitamente sonora del pentagramma, delle note, dei legato. D’altronde Matsumoto affermò più volte che la musica nasce prima delle parole, intendendola come linguaggio a priori di ogni lingua, e il suo disegno così come le sue storie sono appunto improntate sul puro umano anche quando “non umano” o “oltre umano”.
La fantascienza di Matsumoto, anche se in superficie può rimandare alla space opera è in realtà assai più vicina a quella umanista di Clifford Simak, anche quando trascorre nel western, come in Gun Frontier (1972-1975) dove l’autore con un profondo sguardo critico e cinefilo mette in risalto le relazioni e le osmosi stilistiche tra l’immagine del cinema di frontiera di John Ford e quello sui samurai soprattutto di Akira Kurosawa, il regista giapponese più innamorato della cinematografia fordiana.
Avveniristica nel suo anticipare le crisi di un’umanità che torna ad essere disumanizzata su un pianeta morente, esemplare nell’essere motrice di dissenso e ribellione, antica o meglio ancestrale nella ricerca di ciò che definisce l’essere umano, l’immensa opera di Leiji Matsumoto è ora compiuta, grave e soave, terrena e onirica, sperimentale e classica, sempre di una bellezza che va oltre la categoria del bello per affermarsi come vero in un’accezione che è inesplicabile e assoluta insieme, secondo le intuizioni del poeta Keats sulla celeberrima urna greca.
L’opera di Matsumoto viaggia nello spazio dell’immaginario in un’odissea infinita, immutabile nella sua potenza artistica e dolcemente mutante secondo gli spazi e i tempi interiori di chi abbraccia, sia chi continua a ricercarla sia chi l’avvicina per la prima volta. L’opera di Matsumoto è necessaria, oggi più che mai.