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‘Saxofone’, Milano, cinema totale: perché torniamo sempre a Renato Pozzetto

Lo Sgargabonzi non si stanca mai di rivedere il film "più di culto" tra i film di culto di Pozzetto. Perché è "sgangherabile" e fa tornare ogni volta bambini cattivi, con tutta la vita davanti

Foto: Angelo Deligio/Mondadori via Getty Images

Renato Pozzetto è sempre stato non solo una delle mie due comete comiche (l’altra è Alfredo Cerruti degli Squallor), ma una delle personalità più complesse, magnetiche e non catalogabili della commedia italiana.

Tutto un universo, con tanto di ecosistema e infrastrutture, in un volto, uno sguardo, nei suoi gesti, nelle sue reazioni. Sempre più ingombrante di qualsiasi descrizione possibile e dello sguardo dello spettatore. Pozzetto attraversa un film e quel film, a prescindere dalla sua reale qualità (non che siano tanti i film sbagliati in cui ha inciampato), diventa una pellicola degna d’interesse.

Deve essere nel destino di Tom Hanks ricalcare i passi di Renato Pozzetto, perché dopo Big, che annacquava e plastificava l’intuizione dello splendido Da grande, si è trovato a fare lo stesso anche con Forrest Gump, per certi versi simile a Saxofone, film del 1978, opera totale di un Pozzetto in purezza, che avevamo visto esordire come autore nel primo episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra. Ma dove Forrest Gump è un film melenso e ruffiano, Saxofone è un capolavoro per stile, inventiva e atmosfera. Un acquario dove vorresti abitare.

Ed è davvero un peccato che questa pellicola sia una delle meno conosciute di Renato Pozzetto, al contrario dei soliti Il ragazzo di campagna e La casa stregata (ma il miglior Pozzetto è quello degli anni ’70). La regia di Saxofone porta la sua firma e, come quasi sempre, lui ne è anche sceneggiatore, in questo caso insieme agli amici Enzo Jannacci, Cochi Ponzoni e Beppe Viola, oltre che ovviamente protagonista.

La storia è quella dell’incontro tra una yuppie suo malgrado (Mariangela Melato) e uno strano individuo chiamato Saxofone. Quest’ultimo, senza mai separarsi dal suo sassofono, se ne va in giro per un’assurda Milano e si lascia coinvolgere nelle più surreali avventure. Attratta dalla concezione tutta particolare della vita che ha Saxofone, la donna in carriera finisce per seguirlo ovunque, mettendo anche a rischio la sua relazione con un famoso tennista (Teo Teocoli).

Saxofone, per certi versi, può ricordare i film ecologisti e molto milanesi di Adriano Celentano, come Yuppi du e Joan Lui. Le pellicole del molleggiato però sembrano i setting terapeutici del protagonista: congegni programmati a puntino solo con il fine di dargli ragione e farlo costantemente apparire il più fico del bigoncio, rivelando per contrasto tutte le insicurezze del Celentano autore. Al contrario, il film di Pozzetto non vive di rendita e di mossette furbe, ma si mette in gioco rischiando pure tantissimo, con uno sterminato catalogo di idee bizzarre e intuizioni geniali, tutte ben sviluppate.

Nel film, Pozzetto sfoggia infatti un inarrestabile horror vacui, che lo porta a riempire ogni momento del film di sorprese per lo spettatore. Pozzetto, come un bambino curioso, gioca con la macchina-cinema, perché sa che può invertire la logica, il tempo, la gravità e la morale. Come autore, pensa che avere la possibilità di sceneggiare e dirigere il proprio film e non riempirlo di singoli momenti da ricordare sarebbe un’occasione persa. Ne esce una pellicola sovrabbondante ma soprattutto, come direbbe Umberto Eco, “sgangherabile” come poche altre. Estrapola una frase o una sequenza e già lì c’è tutto un mondo. Esattamente quello che succede nelle cose più belle, nelle opere di culto prima ancora che d’arte. Come negli album degli Squallor, che quando li fai ascoltare a un amico, è tutto un dirgli: “E senti cosa dice Cerruti adesso… e Pace ora… e poi Cerruti ancora qua…”.

Per Saxofone si può adoperare senza vergogna l’aggettivo “cult” perché è la somma di tante sequenze di culto. Dalla “pettinata” davanti all’edicola al Cochi Ponzoni prete e confessore, dalla scena in metropolitana all’inaugurazione della salumeria, dalla visita dal dottor Andreasi all’incontro di pugilato con Boldi. Se questo film fosse stato opera di John Belushi o John Waters sarebbe negli annali del cinema e molti tirerebbero fuori uno scontato: “Era sotto acido quando l’ha scritto”. Mentre la sfortuna di questo capolavoro è quello di essere “soltanto” un film di Renato Pozzetto. Uno che dimostra di avere un perfetto controllo dei propri sogni, rendendoli di contagioso divertimento e mai esercizi solipsistici e ombelicali.

Pozzetto non ha mai la tentazione del one man show di tanti suoi colleghi, in cui assurge a unico protagonista e dove tutto è funzionale e subordinato a lui. Saxofone è soprattutto una città costellata da facce e improbabili personaggi, tutti accuratamente scelti, scritti e cesellati, fosse anche con poche battute. C’è tutta la Milano del Derby tra quei volti, con tanto di Diego Abatantuono alla sua primissima apparizione. E davvero ti viene da sognarti uno spin-off su ognuno di questi. Ma qui soprattutto c’è il concentrato del Renato che amiamo come nessun’altro. Quello lunare, stralunato, malinconico, ma anche cinico, vigliacco e maschilista, ma che cade costantemente in piedi.

Per il resto, venga pure qualche cinefilo a dirci che questa è roba di poco conto rispetto a Mancia competente di Ernst Lubitsch. Questo film è fatto della materia dei sogni, è un labirinto in cui perdersi, ritrovarsi, innamorarsi e – finalmente – tornare bambini cattivi con tutta la vita davanti.

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