Si chiamava via Tazzoli, una stradina bordata di abeti e lampioni fuori da San Benedetto. Che era un oratorio con i preti vecchi, il campanile pendente e un campo da calcio da slogarsi le caviglie tra buche e pietroni. Mia mamma mi diceva di non andarci perché lì c’erano i drogati. Non sapeva, mia mamma, che i drogati avevano un sacco di ragazze al seguito. Quante pippe, per le ragazze dei drogati.
Una al mare metteva già a 14 anni abitini neri attillati, si chiamava Peccaferri e io mi chiudevo nel bagno, mi schiaffeggiavo da solo e mi dicevo – confuso tra preti, madre e drogati — sì, fammi peccare, Peccaferri. I drogati per lo più fumavano cannoni. Avevamo quindici anni. Il resto è arrivato dopo e per qualcuno non se n’è mai più andato. Ci sono capitato, tra i drogati di via Tazzoli, con un ingombrante bagaglio di erre moscia, spalle curve e ragionevole certezza di dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato. E, infatti, sono stati mesi di “e tu chi cazzo sei?”, “via dai coglioni”, “sfigato” (non c’è cosa peggiore da dire a chi cerca ancora la propria fortuna riflessa nello sguardo degli altri). Ma non me ne sono mica andato, sono stato lì a subire, perché farsi schiaffeggiare direttamente dalla Peccaferri valeva queste pene e molte altre — intanto mi venivano irritazioni biancastre al glande.
Gli insulti, che facevo cadere sulla ghiaia insieme al mio sguardo abbassato, si sono trasformati gradualmente in accettazione e l’accettazione in “dacci cinque mila lire che ti facciamo fumare”. E così ho fatto: abbiamo fumato, e fumando insieme ho capito che anche quegli altri erano stati sfigati e in fondo la vita era storta per tutti quanti, anche per quelli che uscendo dai cespugli già ti facevano annusare l’odore di vagina sul medio. Tutti quanti avevano famiglie disastrate e compiti noiosi e complessi fisici. Insomma, a un certo punto ci siamo sentiti fratelli. Brufoli, divorzi, balbuzie, paura del buio, di non rizzare, di essere gay, dell’algebra, di avere il naso storto. C’eravamo dentro tutti, a quest’universo mutilato. E quell’universo era mutilato non per colpa nostra, ma di tutti coloro che c’erano stati prima di noi e che restavano al di fuori di noi. Fumando mi sono sentito parte di qualcosa, di qualcosa che non si poteva fare. Lì, sulle selle degli scooter in un uggioso martedì d’ottobre, con un’idea vaga del futuro e di che cosa volesse dire lavorare o rateizzare un mutuo, si è creato un abisso tra chi ti vietava di fare qualcosa, e noi che facevamo le cose che qualcuno non voleva facessimo. C’era San Benedetto, e c’era il Sistema. C’eravamo noi, e il Bene, e c’erano Loro, il Male.
Anche i genitori facevamo parte del Sistema e del Male ma forse un giorno, sì, forse un giorno gli avremmo fatto capire che si sbagliavano, che gli era sfuggito qualche passaggio. Il Bene bivaccava sulle nostre teste come una nuvola di fumo biancastro, si raggrumava sulle nostre bocche impastate, che ruminavano le caramelle e i popcorn venduti nell’oratorio. Venduti da una certa Dani, che forse era divorziata e la cosa era scandalosa in parrocchia e forse adesso è morta investita, e chissà se allora capiva perché mangiavamo tutti quei popcorn e quelle caramelle.
Don Roberto aveva la erre da rana e organizzava le gite a Gardaland. Una volta quelli del Parchetto, una banda di bulli che ci prendevano a tibiate e ci davano pochi giorni per saldare i debiti di fumo, visto che don Roberto gli aveva detto che a quell’ora col calcino dentro non ci si poteva giocare, l’hanno alzato di peso, il calcino, e l’hanno portato in via Tazzoli, e il prete non sapeva più che dire, ha iniziato a gracidare e allora abbiamo riso anche noi. Sembra folle, ma noi ne eravamo certi, che il Bene bivaccasse sopra le nostre teste: era tutto un gioco, tutto uno scherzo, uno scherzo da scherzare sempre affamatissimi. Ci si faceva seri solo quando si parlava di Musica e di Senso, insomma, degli unici argomenti che abbiano un qualche interesse per chi ha il futuro davanti. E allora avanti per ore e ore a spaccare il capello in quattro, le sfumature della fattanza, Dio, quello è più forte a picchiarsi perché non ha paura di morire, i giri di basso migliori, e no, non è vero, è meglio quest’altra versione, poppante.
Le ragazze c’erano ancora ma quasi te ne eri scordato. Qui c’era da combattere, da pianificare una strategia di rinascita cosmica. Mica da farsi le coccoline. Anche chi si faceva le coccoline con una ragazza e le dava i limoni e magari la toccava in modo continuo ed esclusivo, insomma, quelli che stavano insieme, anche quelli tendevano già ad avvicinarsi al Sistema, al Male, a tutta quella goffa e crudele umanità che non aveva capito il viaggio. Non capivano le priorità, quelli che stavano insieme. Prima l’Universo, poi la fidanzata. Idioti.
E alla fine capitava che ti innamorassi anche tu, proprio tu. Non lo dicevi a nessuno. Tu eri duro e puro, deciso a prenderti tutto con la canna tra i denti, il polso piegato e la mano stretta attorno all’acceleratore dello scooter. Distante anni luce dai coglioni che incrociavi in piazza e che non ne sapevano niente della vicinanza che si poteva creare tra cervelli vergini e strafatti. Magari te ne stavi in via Tazzoli a parlare con un amico e vedevate passare uno yorkshire nero, riprendevate a parlare, lo riguardavate e adesso era uno schnauzer gigante, allora tu e il tuo amico vi fissavate un secondo e senza dire una parola scoppiavate a ridere: i cervelli vergini e strafatti si parlano senza voce. Cosa potevano capirne, i servi del Sistema, di queste magie. Chi non crede alla telepatia faccia un salto in via Tazzoli alla svolta del millennio e si accorgerà con i propri stessi occhi che i ragazzi, là, si parlano senza spiccicare parola e scovano gli inganni di questo cosmo maligno e drogato, che fa crescere i cani a cazzo.
Le ragazze si muovevano in gruppi da quattro o cinque esemplari, con gli anfibi e il Woolrich, i jeans attillati, le sigarette sempre nella borsa, i loro commenti sottovoce, le loro alleanze fluide. E alla fine capitava che ti innamorassi di una di loro, che ovviamente non ci stava. Probabilmente ci stava con tutti tranne che con te. È sempre così: se hai superato i 17 anni, in un certo periodo sei stato l’unico escluso di una qualche ragazza. Ma mica lo dicevi agli altri, che ti eri preso una cotta per una che al massimo ti offriva una sigaretta. Soffrivi come un cane e ti incazzavi ancora di più contro quelli-che-non-capiscono-il-viaggio. Ecco, ora si faceva tutto chiaro: anche lei doveva fare parte del Sistema. Cioè, non proprio. Lei era stata traviata. Lei va con-quelli-che-non-capiscono-il-viaggio e la fanno soffrire. Tu le daresti tutto, tutte le conclusioni a cui sei giunto in pomeriggi di nebbia e mattine di caffè corretti in fuga da scuola, le riveleresti il segreto per trasformare lo yorkshire in schnauzer, la porteresti nel futuro in cui tu hai la faccia piena di rughe e il conto pieno di soldi e le faresti dire dal tuo te ottantenne: “non ho mai più pianto lacrime così belle, con te erano orgasmi nelle palpebre”. Ma lei preferiva altri tizi a te, che ti davi del tu con Dio. Se per caso ti scappava di rivelarle qualcosa lei ti guardava con una pena che ti faceva aggiungere: “dai, scherzavo”.
Ma Noi vinceremo contro il Sistema, ti ripetevi, contro il Male, contro quelli a cui lei l’ha data, contro tutto ciò che ci separa dalla felicità eterna. Ed ecco di nuovo la musica, i cantanti. Ne identificavi uno, quasi per caso, a istinto, uno del quale imparavi a riconoscere la voce anche da un colpo di tosse. Uno tale e quale a come avresti voluto essere tu un giorno. L’idolo, la speranza, il condottiero, la guida. In genere quell’idolo corrispondeva a quello dei tuoi amici, vi attaccavate a lui come cozze a un palo, perché tutti eravate stati l’unico-a-cui-non-l’ha-data, lo sfigato, il perdente della galassia. Vi attaccavate addosso a quel pilastro sonoro e cantavate assieme ed eravate ancora più uniti appiccicati strafatti incazzati contro la vita che sarebbe stata così meravigliosa, non fosse stato per pochi, stupidi, borghesi dettagli. Ma noi ce la faremo, basta poco: è tutto insicuro, vago, possibile, ancora possibile. Tutti con la pelle d’oca. E a volte le lacrime. Piagnucolavi e guardavi gli altri e li scoprivi lacrimosi come te: solo voi le capivate, queste cose che non trovavate le parole per esprimere. Ma c’era da lottare. E un giorno la sfangheremo, solo noi, primi nell’umanità.
E poi hai passato i 18 anni, e poi è stato tutto un soffio: universitàlavorofidanzatemoglifigli. E nessuno risolve mai un cazzo. Si passa il testimone a quelli che vengono dopo. Però in certi momenti lo senti che è ancora tutto possibile. È stato sprecato solo qualche anno in un’eternità di miliardi di miliardi di anni, che vuoi che sia. Tutto, ancora tutto è possibile, ti dici in certi momenti. E, se sei onesto, ti dici pure che ti può essere costata neuroni, parenti, anni di condizionale, multe, parcelle dallo psicanalista… ma la strada, per quanto polverosa e ignorante e grezza e drogata, la strada ti ha fatto vedere per un breve attimo nell’Eternità che un altro mondo è possibile. Che, insieme, si è davvero qualcosa di diverso e di più grande. Dura poco quel qualcosa, tra i 14 e i 20 anni, ma c’è, puoi riprenderlo per un secondo come l’acqua con le mani a coppa. Un altro mondo è possibile e ci ha fatto vedere le sue tette dalla fessura del bagno, e aveva un culo molto più sodo di quella vitina pulita con cui poi sei finito a letto per decenni, ma è ancora tutto possibile.