E così da ieri sera l’era della post-verità è approdata anche su un campo di pallone. È successo al Franchi durante il posticipo di Serie A tra Fiorentina e Inter al minuto 96, che per una partita di calcio non sono pochi. Sul 2 a 3 per i nerazzurri Federico Chiesa, capitano dei viola, mette un pallone in mezzo, l’interista D’Ambrosio interviene in maniera non pulitissima sul pallone e l’arbitro Rosario Abisso indica il dischetto. Il suo collega al VAR Michael Fabbri lo richiama, non è convinto che la scelta sia giusta. Lo invita a vedere in prima persona le immagini a bordo campo.
Abisso va al monitor e lì trascorre qualche minuto, mentre il pubblico sugli spalti e quello a casa frigge. Intanto, almeno per quelli sul divano, le immagini scorrono. Cresce la sensazione, che piano piano diventa certezza, che avesse ragione Fabbri: D’Ambrosio, che a velocità normale sembrava aver colpito con la mano il pallone, in realtà ha usato il petto. Spiace per la Fiorentina, illusa dal fischio arbitrale di poter agguantare un pareggio clamoroso, ma le immagini sono abbastanza evidenti. Tutti si aspettano il dietrofront dell’arbitro.
Non arriva: Abisso indica ancora il dischetto. Il suo errore non sarebbe stato “chiaro ed evidente”, quindi la decisione è confermata. Al minuto 101 Veretout fa 3 a 3. Spalletti, l’allenatore dell’Inter, in tv va fuori di testa – sai la novità: pensa di aver subito un’ingiustizia, se la prende con i giornalisti che, analizzando il caso, non parlano chiaramente di errore, ma fanno gli azzeccagarbugli sulla scelta arbitrale. Ora è passata qualche ora, ma su siti e social le schermaglie proseguono.
Sarà memoria selettiva, ma l’episodio appare un inedito assoluto e rappresenta un gigantesco salto di qualità nella grande battaglia del calcio italiano per distruggere una delle poche cose buone fatte negli ultimi anni: l’introduzione del Video Assistant Referee. Già, perché di errori in regime di VAR ce ne sono ormai a ritmo settimanale, ma non si ricordano casi in cui un direttore di gara abbia visto con i propri occhi quello che è successo, e che vedono tutti, e sbagli in maniera palese. Ma l’inciampo di Abisso è – forse – figlio di quella nube tossica che avvolge la tecnologia in campo fin dal suo approdo in Italia. Al di là del rosicamento interista, che ieri era milanista e romanista e domani sarà del Frosinone (che vale quanto quello degli altri).
Servono un po’ di passi indietro. Il VAR è un sistema composito, che affianca alle decisione prese sul campo l’aiuto delle immagini e di un altro arbitro, in collegamento radio, che sappia interpretarle. Si utilizza per annullare o convalidare un gol, per decidere sui calci di rigore, per le espulsioni dirette e gli scambi di persona. In pratica l’arbitro al VAR vede le immagini e capisce se è tutto ok, in caso contrario avvisa il collega, che, se il dubbio rimane, è invitato ad andare a rivedere cosa è successo per modificare eventualmente la chiamata.
I primi a usare il VAR sono stati gli americani, che hanno introdotto il meccanismo per la prima volta nel 2016. Man mano le sperimentazioni sono proseguite in giro per il mondo, prima nelle amichevoli e poi nelle varie competizioni internazionali. L’Italia, all’inizio dello scorso campionato, è stato il primo grande torneo europeo a varare la “moviola in campo”. Il successo dell’iniziativa è difficile da negare, le storture sono diminuite e, soprattutto, i numeri parlano chiaro: secondo i dati della federazione arbitrale in un anno sono calati i falli (-8,8%), le espulsioni (-6,4%,), le ammonizioni (-14,7%), le proteste (-19,3%) e le simulazioni (-43%).
In generale anche l’approccio del pubblico è sembrato positivo, anche se al tifoso in quanto tale girano sempre i coglioni quando le cose non vanno bene per i suoi colori (e ci mancherebbe non fosse così). Un po’ diverso l’atteggiamento di qualche addetto ai lavori: soprattutto nelle generazioni più agée, non sono mancati quelli del “si stava meglio quando si stava peggio”. Anche tra le società il rapporto con l’arbitro virtuale ha avuto alti e bassi, la Juventus e il suo allenatore Allegri non sempre hanno sposato la causa, mentre il laziale Simone Inzaghi l’ha vissuta un po’ come in una canzone di Battisti.
Vincitori e vinti, perplessi ed entusiasti di ogni rivoluzione. Inevitabile. Ma, complessivamente, l’anno uno del Var tricolore è stato un successo. E non a caso il modello è stato replicato quasi subito nei teatri più prestigiosi: al Mondiale in Russia in estate è andata benissimo, e dagli ottavi, iniziati due settimane fa, è arrivato anche il momento della Champions. E poi la Liga, da quest’anno parte del club VAR, e la Premier, che ne sta sperimentando l’introduzione in questa stagione.
Peccato che, nel frattempo, l’Italia si stia un po’ sfilando. È accaduto quest’estate, mentre la gente era in vacanza, con l’obiettivo dichiarato di cercare di migliorare gli aspetti più controversi del VAR, chiarire le situazioni su cui intervenire e ridurre il tempo di attesa per la decisione finale. Che qualcosa fosse diverso si è notato sin dalle prime giornate, quando gli spettatori si sono trovati davanti a un numero minore di interruzioni, senza capire esattamente il perché. In molti casi la “moviola in campo” non è stata consultata anche quando era più che necessaria per raddrizzare un errore – il rigore negato a Zaniolo contro l’Inter, su tutti -, svilendo tutto il processo. E facendo sì, visto che il check scatta invece sempre in caso di rete realizzata, che il controllo video abbia come prima finalità quella di annullare gol, togliendo spettacolarità a un gioco che su quello si basa.
Grande protagonista del dibattito mediatico è così diventato “il nuovo protocollo”. Perché, appunto, le regole d’ingaggio sono cambiate, anche se la cosa è stata comunicata molto male. La grande novità è questa: gli addetti VAR ora possono intervenire solo in caso di errore chiaro ed evidente. Se l’arbitro ha fatto una cazzata qualcuno lo deve fare ravvedere, in caso ci siano anche solo margini per discuterne vale la prima idea che si è fatto. I vincoli sono più stringenti e il parere umano torna a essere più centrale, non si sa se per volontà della classe arbitrale o altrui.
Insomma, un passo indietro non da poco. E, soprattutto, nuove regole, dopo un solo anno di applicazione e metabolizzazione di quelle precedenti. Dare un senso di incertezza è sempre il modo migliore per abbattere una novità, missione compiuta. Al resto hanno contribuito i vari attori coinvolti nel processo. Le “smattate” sistematiche di allenatori e presidenti in zona mista e quelle dei calciatori in campo, dopo che un provvedimento – anche se giusto – va contro di loro. I media, che hanno continuato a insistere con titoli tipo “graziato dal VAR”, “l’errore del VAR” e altre amenità. Capiamo la sintesi, ma il VAR non salva e non condanna nessuno: analizza le immagini, stop. Non ha nemmeno l’ultima parola. E imputargli doti umane, in un universo particolarmente suscettibile, non aiuta a fidelizzare, diciamo così.
E poi c’è il grande discorso dei tifosi, che in questo clima di eterno mettere tutto in discussione, non sono più così convinti che il VAR sia un bene. Perché lì sono stati portati per mano. Lo abbiamo visto al Franchi ieri sera, così come a Madrid nella sfida tra Atletico e Juve: dopo che il VAR è andato contro la propria squadra – in entrambi i casi per ben due volte, e ovviamente a ragione -, tutto lo stadio ha cominciato a ribollire. E, c’è da pensare, lo stesso è avvenuto sui divani di casi. Il clima è diventato così invivibile, ogni volta che la palla finiva nell’aria avversaria scattavano i boati del pubblico (e le proteste dei giocatori in campo). L’idea in questi casi è che si debba al più presto pareggiare i conti. Compensare.
Qualche volta – guarda caso in Italia, e non in Champions – accade. E così c’è un Abisso che può fare a meno di credere al valore di un fermo immagine – peccato, tutto petto! –, perché è come se al 96° e visti i precedenti il copione prevedesse il rigore. Un bel disastro, la logica del tifo ha prevalso ancora una volta. In effetti non dovrebbe stupirci: accade nella politica, nella musica e nelle abitudini alimentari. Figuriamoci tra i veri tifosi.