Il problema – anzi, “problema” è il termine sbagliato, diciamo la questione – credo stia un bel po’ a monte. Prima ancora di definire Harry Styles in abiti femminili sulla cover di Vogue America rivoluzionario o scandaloso, forse dovremmo riflettere sul nostro continuo bisogno di una legittimazione dall’alto, e su ciò che riteniamo appunto sia “alto”. Mi spiego meglio: perché durante una pandemia globale; in un’epoca in cui quasi nessuno compra i giornali; in un settore – la moda – dove, McLuhan perdonami, l’influencer o la celebrity è allo stesso tempo mezzo e messaggio; perché proprio ora sentiamo la necessità che sia il magazine patinato per eccellenza a sdoganare la moda gender-fluid? Lo stesso magazine, guarda caso, che in un recente passato è stato accusato di non celebrare doverosamente l’inclusività, un peccato veniale dimenticato in fretta e furia schiaffando l’ex One Direction in copertina di-Gucci-e-da-donna-vestito, unico uomo a comparire da solo in 128 anni di storia della rivista.
L’amicizia (che è anche una partnership) tra Alessandro Michele e Harry Styles è cosa nota, già da un po’: tutti d’altronde ricordano le unghie color lavanda abbinate al collettino di pizzo, alla collana di perle e alle Mary Jane per il red carpet dei Brit Awards 2020, nonché la blusa d’organza trasparente nera con i jabot di pizzo e l’orecchino a pendente al Met Gala 2019. Con i 33 milioni e passa di follower su Instagram di Styles e i quasi 42 di Gucci, la strategia di comunicazione (o lo storytelling, come amano chiamarlo oggi) sviluppata dai due non richiedeva ulteriori benedizioni, figuriamoci. Per pura proprietà transitiva, è sacrosanto che – così come una donna decide di indossare un tailleur maschile (Hedi Slimane, quand’aveva inventato Dior Homme vent’anni fa, aveva regalato una nuova dignità al concetto) – un uomo scelga abiti che non trasudano testosterone. E in tal senso, Harry Styles non è certo un pioniere: David Bowie, Kurt Cobain, Marc Jacobs, Ezra Miller, Prince, Pharrell Williams… la lista è lunga, e nessuno di loro – Styles incluso – era diventato una faccenda politica, oltre che social(e). Perché nessuno di loro – Styles incluso – era finito sulla copertina di Vogue America.
Quello che sto cercando di dire, insomma, è che nel 2020 la carta batte ancora il web: gli 11 milioni di lettori di Vogue America pesano più dei 75 milioni di follower della popstar e del brand italiano, e avallano il tema del mese, ossia (in senso lato, molto lato) la libertà di vestirci come ci pare e piace. Chissenefrega di tappeti rossi, di campagne pubblicitarie bellissime, di foto che macinano tonnellate di like: lo deve scrivere la Bibbia della moda per essere vero, altrimenti non ci credo. E, soprattutto, altrimenti non potrebbe scatenarsi un dibattito accesissimo che contrappone le due solite fazioni di conservatori e progressisti, ma a cui qualunque passante dell’internet si sente in diritto di partecipare.
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A destra Candace Owens, attivista repubblicana e pro-Trump che dal suo profilo Twitter tuona (più o meno): «Aridatece er maschio alfa». «Non c’è società che può sopravvivere senza uomini forti. In Occidente la progressiva femminilizzazione dei nostri uomini mentre il marxismo viene insegnato ai nostri figli non è una coincidenza, è un attacco diretto». E dato che a sinistra la possibilità di tacere e farsi una risata non viene contemplata, ecco spuntare Alexandria Ocasio-Cortez, che non se ne lascia scappare una: durante un botta e risposta con i propri supporter su Instagram puntualizza che Styles «è meraviglioso, gli elementi maschili e femminili sono bilanciati magnificamente. Alcune persone sono infastidite perché esaminare ed esplorare i ruoli di genere nella società le rende vulnerabili. Forse ciò provoca rabbia o insicurezza nei confronti della mascolinità/femminilità/etc. Se lo fa, allora questo è parte del problema. Sedetevi con quella reazione e pensateci, esaminatela, esploratela e crescete con lei» (qualsiasi cosa possa significare una frase del genere, aggiungo io).
Nel mezzo, una manica d’offesi di diverse tipologie: quelli che Harry Styles è un maschio bianco, abile e privilegiato, dunque Vogue America alimenta il circolo vizioso del white privilege; quelli che «aprite gli occhi, è soltanto marketing!»; quelli che «ma poi mica ci va in giro, conciato così»; quelli che «è un passo avanti nella rappresentazione, ma la moda deve farne, di strada»; quelli che «è troppo magro!»; quelli che «è troppo ricco!»; quelli che «Candace Owens deve scusarsi» (con chi, esattamente, non è dato sapere). Mutando l’ordine degli addendi, il risultato comunque non cambia: da circa una settimana le foto di Styles, firmate da Tyler Mitchell, sono in ogni dove e ci dimostrano per l’ennesima volta sia la validità dell’adagio più vecchio – il caro e rassicurante «purché se ne parli» – sia la sacralità dell’impero di Anna Wintour. Che, nonostante periodicamente la si dia per spacciata e la si consideri ormai roba antica, superata, continua imperterrita a dettare l’agenda dei nostri argomenti di conversazione.
Noi, duole constatarlo, la lasciamo fare e continuiamo – più o meno consapevolmente – ad alimentare il mito della sua potenza e della sua influenza, bisognosi di un riconoscimento formale che garantisca la presentabilità di mode e tendenze. Era necessario che Vogue America prendesse ufficialmente atto che non esiste più una netta demarcazione tra guardaroba maschile e femminile? Dovevamo aspettare che mettesse in copertina un uomo in abiti femminili per sentirci autorizzati a vestirci come ci pare? Prima di questo atto sovversivo, esprimere la propria identità attraverso l’abbigliamento era considerato un crimine? Ma soprattutto, e qui non c’è Harry Styles che tenga: siamo davvero liberi, se Anna Wintour ci suggerisce che possiamo (anzi, che dobbiamo) essere liberi?