“Mi hanno spezzato il cuore e mi hanno uccisa, ma non sono morta. Hanno provato a seppellirmi, ma non hanno capito che ero un seme”. Sono rare le persone in grado di riassumere la propria vita in una frase. Shuhada’ Sadaqat, che noi cresciuti tra gli Ottanta e i Novanta ci ostiniamo a ricordare col nome di Sinéad O’Connor, ci è riuscita. In queste poche parole, prese dal documentario Nothing Compares che la regista Kathryn Ferguson le ha dedicato nel 2022 (in Italia è disponibile da domenica 30 luglio su Sky e NOW, ndr), Shuhada’ faceva un bilancio della propria vita: un bilancio che era al contempo spietato e pieno di speranza. Perché è vero: hanno provato in ogni modo a farla fuori.
Il momento più celebre della sua storia personale, infatti, coincide con l’inizio della fine della sua carriera.
Era il 3 ottobre del 1992 quando Shuhada’ strappò davanti alle telecamere del Saturday Night Live una foto di Papa Wojtyła. Con lo sguardo dritto in camera, gridò: «Fight the real enemy!», combatti il vero nemico. I cretini lo presero come un irrispettoso attacco contro la fede e non contro le responsabilità personali dei vertici del Vaticano, colpevoli di aver sistematicamente insabbiato per anni lo scandalo della pedofilia nel clero. Quella volta, i cretini riuscirono a fare qualcosa di impensabile: fissarono la luna e non il dito, e sbagliarono comunque.
E di abusi, fisici e psicologici, Shuhada’ ne sapeva qualcosa. Quando nel 2021 pubblicò il suo memoir, Rememberings, raccontò senza troppi mezzi termini come – quando era una bambina – sua madre la obbligò a spogliarsi e stendersi a terra inerme per prenderla a calci nei genitali. Nel libro gli episodi di violenza materna sono quasi un filo rosso, poiché il disturbo da stress-post traumatico l’avrebbe non solo accompagnata per tutta la vita, ma l’avrebbe resa estremamente sensibile alla sofferenza degli altri. E una ragazza cresciuta nell’Irlanda degli anni Settanta non poteva restare indifferente alle tante storie di pedofilia che sentiva raccontare. Lei, vittima di una madre crudele, sapeva bene quali segni lasciasse la violenza nella mente dei più giovani, ed era perfettamente consapevole che quelle ferite non erano destinate a rimarginarsi: sarebbero cresciute insieme a quei bambini, segnandoli per sempre. Proprio come era successo a lei.
Shuhada’/Sinéad aveva diciotto anni quando sua madre morì in un incidente stradale. Da anni ormai viveva con suo padre, ma quel giorno entrò nella camera da letto materna e staccò una foto dal muro. Una foto del papa: l’avrebbe conservata per un sacco di tempo, perché Shuhada’ sapeva aspettare.
Aspettò otto anni prima di strappare quella foto, perché voleva farlo al momento giusto, quando l’avrebbero notata in tanti: davanti alle telecamere del Saturday Night Live, nel momento più alto della propria celebrità. Certo, una ventina di anni dopo, un po’ alla volta, si sono ricreduti tutti, anche i cattolicissimi irlandesi: il problema sistemico della pedofilia nella chiesa cattolica è stato portato alla luce da un’infinità di indagini e inchieste giornalistiche e il gesto dirompente di Shuhada’ è stato finalmente rivalutato, contestualizzato, compreso e anche ammirato. Ma allora la reazione fu univoca: attaccare Shuhada’, cancellarla dalla faccia della terra.
Quale altra star internazionale ha mai fatto un uso più diretto, disinteressato e suicida della propria visibilità? È difficile trovare altri esempi simili, anche cercando tra i pionieri dello show business, gli esponenti di punta di quella categoria anni Settanta-Ottanta che potremmo definire “Età del proto-esibizionismo”: persone che avevano studiato come farsi conoscere e imporre il proprio volere sul pubblico. Il proto-esibizionista per eccellenza fu Michael Jackson, un uomo che visse il suo warholiano quarto d’ora di shit storm per tutta la vita, anni prima che i social network comparissero sulla faccia della terra. Per certi versi Shuhada’ era una Michael Jackson per palati raffinati, una popstar dall’allure décontractée, elegante ma stropicciata, un po’ come Cacciari, ma della sua classe il pubblico se ne è accorto colpevolmente tardi. Solo nella seconda metà degli anni Zero, ovvero nel pieno della fase storica che avrebbe segnato la “Fine della musica”, molta gente si accorse di quanto avessimo sopravvalutato gruppi come i Sonic Youth (sempre tentati da operazioni-ironia su Madonna e da collaborazioni con i modaioli dell’indie rock) e trascurato personalità originali come quella di Shuhada’ che nel 2005, anziché capitalizzare beceramente sul revival di una hit mondiale come Nothing Compares 2 U, è andata in Jamaica a registrare disco come Throw Down Your Arms: un capolavoro prodotto dal leggendario duo Sly and Robbie che si apriva con una cover scarnificata, quasi a cappella, di Jah No Dead di Burning Spear (uno dei padri fondatori del roots reggae), inno rastafariano del 1978, apparso anche nel leggendario film Rockers, una sorta di mix giamaicano tra Ladri di biciclette e Robin Hood.
Oggi Throw Down Your Arms rimane come il capolavoro di Shuhada’/Sinéad, la Cappella Sistina alternativa di un’artista inaspettata. Ma di lei restano anche le qualità che la distinguono nettamente dagli esibizionisti di oggi, meglio noti come influencer: gente che usa la propria visibilità non per denunciare la violenza sui minori, ma per un abbonamento in palestra e un codice sconto del 15 per cento su un marsupio multifunzione che non userai mai. Lei, condannata al successo da un talento vocale e a una presenza scenica senza pari, non ha mai cercato la popolarità né una redditizia strategia di co-branding con qualche azienda di tute da sci. Semmai il contrario, visto che già nel 1989, quando la sua carriera era ancora agli albori, Shuhada’ si lasciò sfuggire che appoggiava l’Ira. È anche vero che, molti anni dopo, avrebbe in parte ritirato quelle affermazioni, ma fatto sta che a oggi le popstar che hanno in curriculum il sostegno a un’organizzazione rivoluzionaria (che all’epoca non era ancora pienamente considerata terroristica) non sono proprio tante.
E come dimenticare i commenti misogini e abilisti che dj radiofonici, giornalisti, opinionisti e opinione pubblica in generale hanno riservato a Sinéad? E stavolta uso volutamente solo il suo vecchio nome, perché è questo il nome su cui i media si sono accaniti, prendendo irrispettosamente sottogamba la conversione di Shuhada’ all’Islam: una scelta di vita che gli ignoranti hanno svilito come l’ennesimo sintomo della sua “pazzia”.
E se anche si fosse trattato di “pazzia”, io mi chiedo: ma se la storia della musica migliore è costellata di nomi come Syd Barrett, Roky Erickson, Brian Wilson, Laura Nyro, Arthur Lee per arrivare fino a Skip Spence, GG Allin e Jay Reatard… per quale motivo la critica musicale si ostina a perdere tempo dedicando quasi tutta la sua attenzione agli artisti che si sono “ispirati” ai “pazzi”? Perché non si occupa soprattutto dei cosiddetti “pazzi”? Cioè di quegli artisti che – pur vivendo nell’epoca dell’esibizionismo da social – hanno deciso di non collaborare con un marchio di scarpe da tennis, perché la loro arte non ha bisogno di trovare, in senso calvinista, una sua terrena funzionalità.
Chiunque scriva di musica, e mi ci metto dentro anche io, ha un debito di riconoscenza verso chi l’arte la respira e la crea semplicemente vivendo. E il debito con Shuhada’ è uno di quelli che non potremo mai ripagare.