Sono andato a un concerto dei Måneskin e ho visto quattro ragazzi che spaccano | Rolling Stone Italia
Elzevirus

Sono andato a un concerto dei Måneskin e ho visto quattro ragazzi che spaccano

Basso, chitarra, batteria. Nessuna base, un suono enorme. Strepitosi nel gestire il palco. Si possono riconoscere i meriti della band di 'Rush!' anche se ci si sente più “a casa” ascoltando i Fuh

Sono andato a un concerto dei Måneskin e ho visto quattro ragazzi che spaccano

Damiano e Victoria dei Måneskin sul palco di Sanremo 2023

Foto: Daniele Venturelli/Getty Images

Sabato 25 febbraio sono andato a vedere i Måneskin al Pala Alpitour di Torino. E vorrei parlarvene. Se potessi darvi un consiglio: prendete questo argomento e il mio articolo con leggerezza. C’è così tanta pesantezza intorno a loro (anche lo snobismo di molta indifferenza nei loro riguardi appare spesso pesante…).

Ho già avuto modo di dirne, qui, sul mio Elzevirus, perché mi davano fastidio le strepitanti cattiverie al loro riguardo, e allora avevo approfittato della loro vincita del Festival di Sanremo per parlarne bene, giacché su quel palco avevano spaccato. Non mi vado a rileggere, e non so se ve lo feci notare, ma quel palco è roba tosta: i Marlene ci sono stati e vi racconto questa.

La gara non andò bene: uscimmo subito. In quella edizione (non fu l’unica, ma se non ricordo male dopo quella non ce ne furono altre) la votazione da casa faceva fuori gli ultimi due, più o meno a metà competizione: noi di certo non avevamo né stuoli di ragazzine che votavano per noi né massaie infervorate per me e il mio torbido girocollo nero sotto la camicia (lo so, non fu una scelta felice: mi affidai totalmente a un amico stilista, di cui ho sempre amato tutto; mi vedeva figo, ma io quando mi son rivisto in tv non ho pensato la stessa cosa). Prima di esser fatti fuori definitivamente avemmo però occasione di performare con Patti Smith nella serata dedicata ai duetti: regalammo al festival una delle cose più belle di quella edizione, con la nostra versione di Impressioni di settembre della PFM e con la voce possente dell’americana (fu una soddisfazione particolare poter mettere sul piatto della bilancia da una parte l’indignazione dei prog-puristi o dei semplici rosiconi – la categoria è sempre ben rappresentata, e i Måneskin ne hanno a stuoli che gli starnazzano contro – e dall’altra i due messaggi via sms di Mussida e di Di Cioccio, con cui, il mattino dopo, mi trasmettevano soddisfazione e gratitudine).

La sera in cui venimmo eliminati accadde una cosa gustosa: eravamo nei camerini (è rinomata l’angustia di quei lunghi corridoi compressi e di quei piccoli spazi in cui ci si ritrova dandosi i turni, in specie se paragonata allo sfarzo del teatro e dei posti a sedere gremiti all’inverosimile che la televisione amplifica dando l’illusione che si tratti di un enorme contenitore) e mancava circa mezz’ora o poco più alla chiamata che ci avrebbe messo in pre-allerta (c’è tutta una successione di micro-eventi che ti porta all’anticamera della performance, quando sei a tu per tu con la diretta che da lì a un nonnulla ti metterà davanti a qualche milionata di spettatori). Stavamo facendo un genuino casino nel nostro camerino: naïf (forse troppo) e schiettamente noncuranti, venimmo notati da un addetto ai lavori che aveva appena superato la nostra porta per dirigersi trafelato a un camerino poco oltre. Tornò indietro e si affacciò, facendo comparire solo la testa come in una gag alla Buster Keaton: «Sono anni che lavoro qua, ma non ho visto mai nessuno come voi!» (in realtà uso anche un termine per qualificarci, e giurerei che fosse “menefreghisti”).

Non eravamo sbruffoni o menefreghisti: semplicemente avevamo giurato a noi stessi di non andare laggiù a patire un’atmosfera opprimente di competizione serrata, oltre a bandire social e internet per dieci giorni di fila. Forse ci prendemmo fin troppo alla lettera, perché se non arrivammo fino in fondo magari fu anche per questo motivo. E se di vincere o arrivare ultimi non ce ne importava nulla, ci dispiaceva senz’altro perdere l’opportunità di non far sentire ancora una volta almeno il nostro pezzo a mezza Italia: la promozione era l’unica cosa che ci interessava.

Ebbene, nonostante questa attitude quel palco metteva comunque soggezione. Non ci fece tremare le gambe, ma ci fece vivere momenti particolarmente intensi.

Ebbene: i Måneskin non sembrarono averne, in una edizione stramba dove non c’era il pubblico reale (era l’anno pandemico) ma solo la fantasmatica presenza di una valanga di spettatori casalinghi. Loro andarono su quel palco e gridarono nel ritornello più o meno le stesse parole che io avevo scritto circa 30 anni prima per la nostra Fuoco su di te, e furono sufficientemente credibili: “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro”. Perché tirar fuori quella cazzimma e non sbagliarne una, fra note suonate e cantate, cari lettori, non è roba per chiunque. È roba da ragazzi un po’ fuori di testa, e non importa se non è il tipo di “fuoriditestaggine” che potrebbe piacere all’alternative incallito. Non tutto il rock’n’roll è stato fatto da gente irreprensibile dal punto di vista della coolness secondo i nostri parametri di riferimento: un sacco di rock’n’roll è stato fatto da veri e propri cazzoni, e da gente ben poco stimolante da un punto di vista intellettuale (e non sto insinuando che i Maneskin siano dei cazzoni non stimolanti: a fine articolo lo dimostrerò).

Di fare un peana ai Måneskin non me ne importa nulla: potete farvene una ragione. Però sono andato a vederli. A Torino. Sabato 25 febbraio. E ho visto quattro ragazzi che spaccano. Nessuna base e un suono enorme e bello che mi faceva dolere le orecchie pure se stavo al lato opposto del Pala, quindi lontano tipo una trentina di metri dal palco occhio e croce. Un basso, una chitarra e una batteria: nient’altro. Davvero nient’altro. (Ovviamente il click nelle orecchie almeno del batterista c’era eccome: ce l’ha un buon 70% di gruppi a ogni latitudine del pianeta. Forse di più).

Non uno sbrego particolare, quadrati, dotati a sufficienza di groove (in alcuni momenti dotatissimi), semplicemente strepitosi nel gestire il palco a petto in fuori, senza introversioni da posa alternative (io provengo da quella impostazione, e tutta la mia generazione alternative rock, italiana e straniera, saliva sul palco a testa in giù e spalle ricurve, e non sto parlando solo dello shoegaze). Estremamente vitali e pieni di energia, scorrazzavano per il palco con fare sbruffone (quanto dà fastidio in Italia la sbruffonaggine, quintessenza dall’anima rock anglosassone), e si esibivano al meglio di tutto il loro repertorio, Damiano e Victoria giocando la carta sexy in modo efficacissimo, proprio come le star del rock mainstream mondiali fanno da decenni, e Thomas, il chitarrista, gigioneggiando con deliziose movenze da finto sfigato – lui è il mio preferito. Ethan, batterista, è il meno appariscente, ma visto da vicino è però il più bello. In maniera quasi sorprendente.

Parliamo di tecnica, la famosa tecnica che fa tanto inorridire i virtuosi degli strumenti (e rosicare ancor di più): ce n’è milioni come loro? Direi di sì. Ce n’è milioni più bravi di loro? Direi di sì. Ma ce n’è molti di più meno bravi di loro. E poi: quanti ce n’è (soprattutto in Italia) in grado di far ballare diecimila persone con un basso, una chitarra e una batteria? Di farli ballare qui in Italia come nel resto del mondo? La risposta è ovvia.

Suonano bene, e insieme sono potenti. Della loro musica, da un punto di vista artistico, non mi interessa nulla, e non è il tipo di gruppo che sono solito andare a vedere: il rock mainstream e le folle oceaniche nei grandi spazi non mi interessano. Ma mi piacciono poco pure gli show degli artisti non mainstream (almeno nel genere musicale) che suonano in spazi grossi: per me il concerto ideale è entro le 1000 persone. Anche meno. I concerti jazz con 50 persone li adoro. Amo essere realmente al cospetto di chi suona, desidero sentirlo vicino e vivo, o quanto meno desidero che, nonostante io sia lontano dal palco, mi arrivi la sua fisicità e non ci sia bisogno di schermi giganteschi per poterci capire qualcosa e sentirmi coinvolto. Delle luci e dello show in genere mi interessa molto meno rispetto alla musica in sé. (Sono fan di Nick Cave, e dunque lui mi va di vederlo anche negli spazi enormi dove ora suona: perché sono contento per il suo incredibile successo, e perché da fan mi basta sentirlo. E poi all’Arena di Verona ero seduto davanti, quindi raggiungibile da lui, che va in mezzo al pubblico costantemente: quando è arrivato dalle mie parti la sua furia da predicatore invasato mi ha sfiorato e… beh, un giorno potrei parlarvene. Vi parlerei di cosa ho percepito della sua presenza fra il pubblico, di cosa posso immaginare che viva quando è lì, con quegli occhi spiritati e al contempo incredibilmente vigili, spietati, lucidi, temibili, attenti, rapaci, e tanto altro ancora, perché “spietati” e “temibili” sono banali su di lui: lo si sa da tempo, che è temibile… Ma c’era altro, e non alludo alla compassione e cose simili a causa dei suoi tragici lutti… Insomma: ve ne sto quasi parlando, e mi fermo qua. Il mio focus sono i Måneskin).

Non mi piacciono quei concerti, vi dicevo, e incidentalmente vi dico che il giorno prima ero ai Murazzi a vedere i Fuh: sono una band di Canale d’Alba, passato “glorioso” nel giro ultra-underground del noise rock (ma è riduttivo) della provincia cuneese (ma non solo), riformatisi qualche mese fa. Lì ho goduto proprio, e mi sono lasciato trasportare da un sound che rarissimamente ormai si ascolta (complice lo snobismo dei troppo cool che si farebbero impalare piuttosto che ascoltare ancora le chitarre) e dalle onde di dinamiche centellinate che sapevano condurmi psichedelicamente in luoghi di piacevole beatitudine, memore del tutto quanto vissuto dal me ascoltatore di anni fa (nessuna nostalgia, solo il piacere di apprezzare qualcosa di molto genuino e potente, sufficientemente senza tempo, e se vi capitano a tiro e vi interessa il rock di matrice ultra-underground andate a vederli: lo riscrivo, i Fuh)

Le dinamiche: ecco, a un concerto dei Maneskin le dinamiche sono manichee. O tutto tutto o il momento ballatone, con solo la chitarra acustica (suonata molto bene) e la voce: prevedibile e molto mainstream. Ben poco coinvolgente per uno come me, che si emoziona dei quasi silenzi e dei furori in magica alternanza, passando per tutte le altre posizioni del range a disposizione, ma centinaia di concerti sono così, ovunque nel mondo. Quindi che problema c’è?

Mi ripeto: sono rimasto davvero sorpreso da quanto siano in grado di gestire una roba simile, con tutte le pressioni che posso solo immaginare (non ho mai avuto un tale successo, neanche col binocolo) e la tante gente che li va a vedere. E suonano, eccome se suonano. Non è la mia cup of tea, ma non saper ammettere che questi suonano è davvero poco elegante.

Al concerto ci sono arrivato perché la mattina stessa ho scoperto che erano a Torino in serata. Ho il numero personale di uno di loro, perché quando ci citarono in una intervista al Guardian come loro band di riferimento gli/le scrissi su Instagram per fargli/le notare che avevo apprezzato. Quindi poi sono andato a trovarli e conoscerli nei camerini.

Ma voi lo sapete che l’età media loro è di 22 anni? Ma riuscite a immaginare cosa vuol dire spaccare nel mondo facendo rock a 22 anni? Da italiani? (Uh, altra faccenda spinosa: «questo non è rock!», urla il detrattore imbufalito. In che senso non è rock? Un basso, una chitarra e una batteria: volumi mostruosi e efficaci, riff, wah-wah, svisate, ritmi potenti, urla – intonatissime – movenze sexy, corse ovunque, tuffi nel pubblico, occhi negli occhi, sudore, energia: in cosa questo non è rock? Non ti piace? Lecito. Non piace neanche a me, anche se in due o tre momenti il ritmo mi ha preso, e molto. Cos’è il rock? A questa domanda ci si potrebbe perdere: ma la disquisizione oziosa e barbosa nel merito mi lascia sfiancato in partenza, e lascio agli altri le rifiniture dei limiti entro cui una cosa ha dignità rock e un’altra no).

Ebbene: nei camerini ho visto quattro ragazzi svegli, presenti, del tutto sani (non è un requisito rock questo, ma il benpensante che mi leggesse potrebbe immagazzinare come un punto a favore questa info), presenti a se stessi e capaci di capire che quello che sta loro succedendo è abnorme e folle, e che l’unica è entrarci dentro divertendosi in un mix di consapevolezza e doveroso sragionamento. (È girato in questi giorni un videino social con loro alla sfilata di Gucci seduti di fianco alla Ferragni, e Thomas e Victoria a fare i cretini – sono molto divertenti da vedere. Mi è capitato di leggere alcuni commenti. Beccatevi questo: «Sono dei cafoni e pensano di essere già arrivati. Non hanno capito che di strada ne devono fare ancora molta». Vorrei ci fosse un emoticon più potente ancora di quello con le doppie lacrime: stronzata più galattica è davvero difficile da immaginare).

Ho parlato molto con Thomas (21 anni: provateci voi a 21 anni – con la mente tornate indietro ai vostri 21 anni, perché ormai non li avete più – a sbruffoneggiare nel mondo, dall’alto di un palco con la gente sotto che ti osanna… e suonando benissimo, senza errori o particolari sbavature): divertente, rispettoso, attento, curioso, sveglio, desideroso di capire com’era la nostra scena, rosicando il giusto per non aver fatto parte di un mondo in cui un sacco di ascoltatori viveva in modo attivo una cultura di sostanza e di valore…

Molto interessante sentirgli dire del rammarico nel dover subire le ingerenze nella produzione delle loro musiche (e come potrebbe essere altrimenti per dei ragazzini che macinano soldi e che nella loro biografia non vantano una provenienza dall’alternative – è una colpa? – e che non hanno nemmeno avuto il tempo di esplorare il mondo dei live facendosi anni di locali? È una colpa, se tutto gli è esploso? Loro l’hanno gestita questa esplosione, alla grande, e questo è un fatto. Secondo me ben pochi altri che gli ululano contro ci sarebbero riusciti. Ma davvero ben pochi. Magari altri due o tre gruppi immaginari. Non di più. Potremmo ovviamente stare a parlare del valore ben più consistente dell’integrità artistica di una giovane band coi controcoglioni: ma, miei cari lettori, il mondo sta cambiando, e ora la musica si fa gratis. Vogliamo davvero pretendere da un ragazzo di immolarsi aggratis per il rock? Di questo si sta parlando, al netto di tutte le sofisticate e pedanti parentesi argomentative che potreste aprire: abbiate la premura di rifletterci su, prima di sparare a vanvera. E chi mi legge con attenzione sa della mia verve nel manifestare tutto l’odio di cui posso disporre per questo sistema di merda in cui siamo sempre più impantanati tutti), ma altrettanto interessante, nella chiacchierata con Thomas, era notare che oltre al rammarico per le ingerenze c’era anche molto orgoglio per il live che è tutta roba loro, e nessuno gli dice praticamente un cazzo.

Ho visto far girare con soddisfazione e sghignazzamenti vari (il sussiego dell’alternative che si compiace nel credere di sparare sulla croce rossa) il 2 (su 10) dato da Pitchfork al loro ultimo disco. Premesso che Pitchfork ama ogni tanto fare ste cosucce (celeberrimo lo 0 dato a NYC Ghosts and Flowers dei Sonic Youth – avete letto bene… una delle cose più stupide – forse la più stupida – in cui mi sia capitato di imbattermi in merito a musica e recensioni). Vi giro quest’altro link di Metacritic (consulto sempre Metacritic). Come potete vedere autorevoli siti di musica (Allmusic su tutti: ve lo stra-consiglio, le note sui gruppi e le loro connessioni – related, influenced – sono deliziose, complete e spesso molto utili) nel mondo ne parlano bene o molto bene. Una sola altra insufficienza. È un fatto). Quindi, amici alternative, se siete intellettualmente onesti dovete soppesare lo sbam di Pitchfork con gli sbam di tutti gli altri nel mondo che si sono occupati di Rush! dei Måneskin: la media sarà di una sufficienza piena.

Chiudo col pubblico: aihmé, uno stuolo di ragazzine che col rock non hanno nulla a che fare. Sono perfettamente consapevole con questa affermazione di prestare il fianco alla critica: ma quanto snobismo nel condannare una band perché suona davanti a un pubblico che non capisce un cazzo di certa musica… Per il gusto non elitario e non puzzone di molti che ascoltano rock senza pretese di selezione e affinamento i Måneskin sarebbero perfetti: ma va così, li si snobba. Loro però si divertono a prescindere, e spaccano comunque, e in tutta verità ho notato che, proprio per via della loro spensierata giovinezza, delle critiche se ne fregano beatamente: a ben pensarci questo è molto, molto rock.

Ciao (vado ad ascoltarmi gli Italia 90. Ieri ho ascoltato un po’ di Meg Baird, dopo aver letto una bella recensione: nei prossimi giorni approfondirò. Queste sono le mie comfort zone, tanto per capirci. Ah… ho sentito anche l’ultimo di Lil Yachty, e mi è piaciuto un sacco).