Con ogni probabilità, contravvenendo a una delle regolette da non infrangere se si vuole ascoltare bene a un concerto, mettendosi cioè a una distanza ideale dal palco proporzionale alla grandezza del locale, in posizione focale rispetto al suono convergente dell’impianto, Nick Cave va visto là sotto, da lui, diciamo nelle prime tre/quattro “file”, dove concentra una percentuale altissima delle sue attenzioni rivolte al pubblico.
Lo ammiro da quasi 40 anni, e la prima volta che l’ho visto live era da poco uscito Kicking Against the Pricks (anno 1986), che considero uno dei suoi dischi più incredibili. Per chi non lo sa, è un disco di sole cover, sorprendentemente brillante nell’altalena di umori che contraddistingue spesso i suoi pezzi: una girandola fra la follia quasi giocosa del grottesco e della esagerazione e la plumbea serietà di una intensità straordinaria, responsabile di parte del mio modo di intendere le interpretazioni e i pezzi dei Marlene Kuntz. Reinterpetazioni di pezzi (quelle di Cave nel disco di cover) in cui spesso il contenuto melodico che li connota stride con l’asprezza di quanto fino a quel momento prodotto da lui, Birthday Party inclusi. Ci fosse già stata la rete lo avrebbero massacrato in molti.
Ha sempre avuto delle attenzioni particolari e mirate per il pubblico, e le prime file ne hanno viste di ogni colore. Sono estremamente rammaricato di non aver potuto, per questioni anagrafiche, andarmi a prendere qualche spavento ai concerti coi Birthday Party, la band prima dei Bad Seeds, dove a quel che si dice le performance di tutti i componenti erano all’insegna di un’attitudine brutalmente spavalda e orrorifica. Il suo avventarsi sulla gente (cerco di tenere a bada la tentazione di mitizzare oltre misura) era estremamente aggressivo, diabolicamente energetico, teatralmente ringhioso, urlante, bavoso, sudato, e le parole che sceglieva per i testi (molto connesse con le storie del Vecchio testamento, sua lettura ispiratrice… Immaginate un ventenne che sceglie di farsi influenzare dalle letture conturbanti di un Dio spietato che maltratta le sue creature: intuizione geniale) quelle parole, dicevo, lo fomentavano per farsi vomitare al microfono con tutto il carico di disgusto cui dava vita, dallo scritto all’urlato, senza ritorno.
Il pubblico delle prime file diventava quindi il soggetto malcapitato verso cui Cave andava a ringhiare con fisicità elettrica e temibile: alto come un dinoccolato di rispetto ma tremendamente nervoso, magrissimo, coraggiosamente impavido nel suo delirio protettivo di droghe sempre dominate e sfruttate per questa resa aliena, piegava con tensione sovrumana le sue giunture sulle facce di chi era nei pressi, e la punta dello sguardo azzurro come il ghiaccio blu era feroce: molto arduo, se non si era teppe di professione, osare tenere il confronto senza farsi intimidire. Penso anzi che era del tutto impossibile. L’atmosfera che si respirava nei piccoli locali di questi concerti leggendari era di decadenza drogatissima, e il fascino che ne promanava era talmente incendiario che spesso, così si dice, si verificavano risse. Posso immaginare la band sul palco, debolmente protetta dalla barriera psicologica dell’altezza, pronta a non tirarsi indietro dal volo eventuale di bottiglie di vetro scagliate o corpi sporcati dal sangue. E semmai a intervenire.
Con questo curriculum di tutto rispetto inizia dunque la carriera del performer live Nick Cave coi Bad Seeds, che io, ripeto, vedrò per la prima volta nel 1987: avevo 21 anni, e fu un concerto impressionante, iniziato, lo ricordo con eccitazione, con la cover incredibile di Hey Joe, resa celeberrima da Jimi Hendrix e trasformata dai Bad Seeds in una ballad cupissima tra le percussività del post punk e l’anima irreggimentabile del blues. La violenza aggressiva dei Birthday Party era leggermente sfumata in una presenza solo di poco più contenuta e sicuramente più elegante (l’eleganza di Cave è proverbiale, e ha inizio in quel periodo) che prima di tutto si definiva per il livello di alterazione dell’eroinomane che era: una figura spiritata seppur vigile a se stessa e nella “valutazione” del pubblico, che, nonostante l’effetto estremamente alterato dentro di lui, teneva sotto controllo per stregarlo, provocarlo e impressionarlo, barcollando, cantando come un impossessato con innominabili stonature, e agitandosi quasi come una marionetta. Non era sfumata in nulla invece quella tensione quasi inspiegabile a favore di una performance così conturbante, che tale rimarrà per tutto il resto del suo percorso fino ai giorni nostri, prendendo sembianze e sostanza poco per volta diverse, ma sempre debitrici di questa matrice giovanile.
Io ne rimasi folgorato, fin da subito intercettando in lui un essere davvero “diverso”, fuori dal comune in un modo verace, dove l’eccentricità era il corredo e non la sostanza di una essenza forgiata in una personalità imparagonabile e inimitabile. E di sicuro la sua personalità così marcata, che gli ha permesso di giocare sempre e comunque un campionato a parte nel mondo della musica, è uno dei tratti cardine sui quali si fonda la lenta e inarrestabile ascesa di un percorso artistico integro, di fronte al quale non si può che rimanere ammirati e sorpresi.
L’ho poi visto parecchie volte ovviamente, e ho anche raccontato in un altro mio articolo qua su Rolling Stone (finito nel mio libro Il suono della rabbia, che ne raccoglie una selezione) di come l’ho conosciuto, potendo poi avere il privilegio di rivederlo in molte altre occasioni e di poter instaurare con lui un mini-rapporto epistolare durato il tempo di alcune emozioni lampanti.
Forse il mio concerto preferito suo fu a Lione, per promuovere The Good Son, che è il mio disco preferito della sua discografia. Ho il ricordo di una versione roboante del pezzo eponimo, alla fine del quale, durante la pausa, dunque con un logico silenzio sul palco, lui torna indietro verso il pubblico dopo aver finito la canzone addossato alla batteria, e con una temerarietà spudoratamente rissosa mira un giovane piuttosto corpulento puntandogli il dito contro dall’alto (cosa che continua a fare oggigiorno, ma con altro tipo di intenti), per urlargli in faccia «don’t do it again» (mi sono sempre chiesto cosa avesse fatto l’incauto). Impressionante.
L’aneddoto che ho appena raccontato mi ricorda il siparietto con cui a Milano domenica 20 al Forum di Assago ha ammonito in modo molto meno minaccioso una donna (se ho visto bene nello schermo delle proiezioni, ma non ne sono sicuro) che evidentemente continuava a cercare di stringergli con troppa determinazione il polpaccio mentre lui passava dalle sue parti sulla passerella dove scorrazza in lungo in largo per due ore e passa: «Potrei morire se mi fai inciampare». E con una certa propensione allo spettacolo “alla Nick Cave”, ovvero con una ironia in certi rari casi quasi avvoltolata su se stessa e non così fortunosa nel cogliere la giusta reazione del pubblico, fermo piuttosto in una sorta di perplessità, le concede una stretta di polpaccio privilegiata, di una manciata di secondi, per farle incamerare una volta per tutte l’emozione che va cercando, mettendosi in posa volutamente goffa e parodistica a favore di click. Non saper cogliere i vari momenti ilari e ironici di Cave, anche nei suoi dischi, vuol dire perdersi un pezzo abbastanza importante della sua curiosa personalità.
E che dire della volta che lo vidi a Nizza (tour di The Boatman’s Call, forse il mio secondo suo disco preferito) vestito in modo particolarmente elegante (più del solito direi: indosso un abito prezioso tagliato su misura) a confrontarsi con un bellissimo concerto molto intimo, conforme alle atmosfere del disco, con un gruppetto di italiani (ahimè) particolarmente noiosi nel loro chiasso caciarone e mediterraneo, intenti a spezzare l’incantesimo del silenzio e della religiosità che regna ai suoi concerti e a reclamare certi pezzi più violenti della sua carriera, con lui stizzito a ribattere per le rime con una vena di sarcasmo e di stupore, azzittendoli.
In Italia, va da sé, l’ho visto in più occasioni, anche se la migliore per me resta quella suddetta del 1987: si era a Torino, al Big Club. Dal punto di vista musicale un disastro (troppa droga in corpo, e mica solo lui), ma quale spiazzante intensità! Quale modo alieno di esibire i pezzi e i testi, andando oltre il concetto stesso di interpretazione, vivendoli con una specie di teatralità veemente e canagliesca, costantemente in bilico fra il grottesco, l’epico e il drammatico, inscenando una rappresentazione fuori dal mondo, eccitante, provocante, sconvolgente (chi a quei tempi c’era, sa… e anche se è evidente che fossi facilmente impressionabile, giacché ero un ventenne, resta l’oggettiva e incontestabile realtà dei fatti). Dal punto di vista emotivo uno scossone imparagonabile e stupefacente, pari solo al primo dei Sonic Youth, sempre al Big Club, epoca Sister.
Ne ricordo due con aneddoti che vi potrebbero regalare qualche sorriso. Entrambi al Rolling Stone di Milano. Ecco il primo, dovrebbe essere 1989, tour di Tender Prey: io e un amico (chi era? Non ricordo) riusciamo (come? Neanche questo ricordo) a entrare nei camerini, come chiunque con un po’ di tenacia (molta) può provare a fare (ovviamente vale per band non troppo di successo). Il mio speciale lasciapassare di “addetto ai lavori”, che ha la possibilità non garantita di arrivarci con le conoscenze (tutto il mondo è paese), non è ancora stato perfezionato. Ricordo invece distintamente due cose, oltre a sprazzi di concerto memorabili: 1) la mia condizione di pischello impietrito a osservarlo con la sua giacca blu a quadretti, rilassato e inspiegabilmente sorridente nel parlare con qualcuno: non gli dico ovviamente nulla, e lo guardo come dicono si guardi una divinità (di certo lui lo era per me, in quel momento); 2) mentre Blixa Bargeld fa la sua parte da incazzato dicendo in modo querulo – a chi? Anche questo non lo ricordo – che il letto in cui lo avevano messo a dormire era troppo corto, i Not Moving – erano la band di apertura, oggi siamo in ottimi rapporti e li saluto amichevolmente – trasmettono ai presenti una condizione di disagio con i pianti di qualcuno dei componenti (forse una faccenda di cachet, con soldi concordati e non ricevuti: vissi quella scena con un certo malessere interiore, enfatizzando quel non so che di disperato che ben si attagliava al loro look decadente e definitivamente dark. Una condizione da loser, così appariva ai miei occhi e alla mia sensibilità impressionabile, condizione che ha il suo appeal presso un certo pubblico incline alla mitologia rock… A me, semplicemente, spiacque e impressionò tantissimo vederli così affranti, o percepirli tali).
Ed ecco il secondo dei due concerti. Mi ero da poco fidanzato con colei che sarebbe diventata la mamma di mio figlio. Ero molto eccitato all’idea di portarla con me per farle scoprire il mio eroe del rock: dopo averla introdotta alla sua arte facendole ascoltare giorno e notte i suoi dischi, era giunto il momento della dimensione live. Passai parte del viaggio a informarla di un fatto: finito il concerto avevo la mission indefettibile di entrare nei camerini, costasse quello che costasse. Ad esempio costasse il fatto di perderci io e lei (c’era almeno un amico con noi, ma non ricordo chi). «Appena finito il concerto io cercherò di arrivare dietro. Se ci perdiamo, come penso, non ti preoccupare: una volta dietro ti vengo a prendere. Basta che tu stai dalle parti del palco»: questo il senso del mantra con cui la afflissi. Ebbene: finito il concerto tentai con tutta la tenacia del mondo, e non ci fu verso. Rassegnato all’idea di non poter andare nel backstage tornai dentro al locale (restavano pochissime persone da far uscire), e chi vidi sul palco? La mia fidanzata, che mi era venuta a cercare. «Vieni, sciocchino: è da dieci minuti che sono nei camerini…». Era il 1993, il concerto era quello di Henry’s Dream.
Torniamo all’inizio di questo articolo. Sì, penso che il modo più emozionante di vedere un concerto di Nick Cave sia andare da lui, là sotto, dove ti verrà a travolgere. Non avendolo mai fatto (non amo sgomitare troppo e rompere le palle agli altri per guadagnare le posizioni, e d’altronde non amo nemmeno molto l’idea di arrivare ore prima per appollaiarmi alla transenna) posso solo immaginare la solenne potenza con cui si viene travolti da questo nucleo incandescente di energia esplosiva che ti si appoggia alle mani sospese in aria arpionandole alle sue, lasciandosi abbandonare a corpo morto sulla tua faccia sospesa nell’incantamento di una apparizione…
Quanta tensione percepirà il prescelto nel momento in cui quel cumulo di ossa abituate a tutto, in vita da 67 anni e vigorose come quelle di un trentenne, gli scaraventerà addosso la sua massa convulsa carica dell’energia cinetica di una belva all’attacco? Si sentirà anche il timbro naturale della sua voce se ti viene a scorticare le orecchie col microfono in mano urlandoti che si sta trasformando e sta iniziando a volare?
Penso che l’esperienza dei suoi occhi famelici e invasati (l’attenzione predatrice dell’aquila, la spietatezza del leopardo che azzanna), fissi nei tuoi, inibiti, illuminati, estatici, a pochissimi centimetri di distanza, abbia la capacità di inchiodarti come mai avresti detto possibile. E sono tanto sicuro di quello che dico quanto penso possano suonare esagerate certe mie frasi a chi non sia così interessato e coinvolto dall’australiano… Ed è ovviamente nella logica delle cose, quindi a costoro si può solo dire «provare per credere».
E che effetto può fare rendersi conto “toccando con mano” di questa sua energia fuori dal comune? I miei generosi e benevoli ammiratori mi farebbero notare che anche io non scherzo in quanto a energia, ma io e le mie chitarre appese al collo non abbiamo mai sviluppato l’arte del contatto fisico col pubblico (chi avrebbe cantato al posto mio se con la mia chitarra fossi andato a schiantarmi sulla gente?), e dunque posso anch’io restare sospeso con l’immaginazione nel provare a prefigurare lo scuotimento di un tornado simile sul tuo corpo inerme…
Esiste una band ovviamente, i Bad Seeds, egregi nel creare i presupposti della sua deflagrazione, assecondandolo, anticipandolo, seguendolo, enfatizzandolo, arginandolo, amandolo, letteralmente amandolo, facendosene travolgere a loro volta, assorbendo il suo furore, trasformandolo in una miscela perfetta di tutti gli ingredienti del rock’n’roll (forse, senza il divo Blixa Bargeld, il vero bello della band, non più in formazione, la sensualità è in second’ordine, e credo che lo stesso Nick non emani essenzialmente questa caratteristica, se mi è concesso di dire), ma è a tutti evidente che lo show è essenzialmente su di lui, debordante, ingombrante, inaggirabile, inevitabile protagonista consapevole ed esperto. E dunque tutta la scena è sua, e l’allestimento del palco è incentrato sulla sua possibilità di avventarsi sulla gente staccandosene, planando letteralmente su quella passerella neanche tanto larga – meno di un metro, mi verrebbe da dire – che tange in tutta la sua larghezza il fronte delle primissime file, e che lui percorre con un senso ragguardevole dello spazio (è un fatto: non casca!) e con una fregola quasi inspiegabile.
Nonostante ciò i Bad Seeds sono bellissimi da vedere, e lo sono sempre stati, e di certo esiste, non scritto, un codice estetico ben preciso che fa si che chi verrà eventualmente assoldato (tantissimi sono stati gli avvicendamenti nel corso del tempo) ne sia a qualche titolo degno rappresentante (mi viene in mente il periodo in cui nella band c’era alle chitarre l’ex Saints Ed Kuepper: durò molto poco, e verrebbe da dire, ma potrebbe essere una stronzata, che il suo look imbolsito e troppo “normale” sia stata una delle cause del suo allontanamento). I Bad Seeds sono di certo una delle band rock più vigorose, possenti e spaccaculi del pianeta, e per me che sono un fan sono la band più vigorosa, possente e spaccaculi del pianeta. E in fondo del tutto inimitabili.
Entro i confini dei concerti pressoché mainstream si è soliti assistere a qualcosa che ha a cha fare con l’intrattenimento, e gli allestimenti e il modo di gestire il live da parte dei musicisti sono connessi a questa modalità: in genere trattasi di uno spettacolo con le sue cadenze studiate e i suoi vari punti fermi da rispettare, secondo qualche tipo di preparazione mirata (nulla di sbagliato in tutto ciò), ma quello che si vede con lui ha molto poco a che fare con questi canoni estetico-funzionali. Nonostante le migliaia di persone che lo vanno a vedere ogni sera, con le loro esigenze e le loro consuetudini e aspettative conformi a questi appuntamenti di massa, resta a tutti gli effetti viva la modalità del rock più istintivo e umorale, che fa affidamento sulle sole armi del musicista che sale sul palco per suonare selvaggiamente in ossequio all’essenza primitiva delle performance rock. Non c’è null’altro che la loro presenza fottutamente rock (Nick Cave suppongo abbia qualche problema con questa parola usata per connotare un’attitudine che non vuole avere) e non ci sono piattaforme volanti che prelevano i musicisti per fargli fare un po’ di angelicanza in cielo. E nel caso di Nick Cave and the Bad Seeds aleggia prepotente, di questi tempi, una dimensione che attiene all’ambito della spiritualità (senza angelicanza artificiale). Chi lo ha scoperto da non molto usa spesso parole tipo “sciamanico”, “rito”, “messa”, “liturgia”, per definire il tipo di esperienza vissuta. Conoscendolo da molti più anni, quello che è sempre arrivato a me è più connesso alle parole che ho usato sopra per descrivere i suoi live dal mio punto di vista (vigore, energia sovrumana, aggressività, esplosione, tensione, esasperazione, e, non dette fino a ora ma ineludibili, lirismo, pathos, intensità, poesia, calore, umanità, visionarietà, dolcezza, catarsi) e la dimensione del predicatore che a così tanta gente arriva è per me l’evoluzione di un qualcosa di più variegato che è sempre stato il motore pulsante di tutto il suo percorso di performer.
Non che io stia dicendo che è errato percepirlo tale, perché in tali sembianze è normale che arrivi oggigiorno alla gente (due figli morti da metabolizzare legittimano quasi qualsiasi pensiero, e d’altronde la sua connessione con la religione è da far retrocedere alle sue frequentazioni da giovane, quando cantava nel coro della chiesa, facendosene impressionare come ho detto da qualche parte sopra), dico solo che il Nick Cave che si vede ora è il prodotto di una logica evoluzione in cui la foga bestiale dei primi live si è lentamente sganciata dalle manifestazioni più selvagge per arrivare a modalità conformi a un essere che nel frattempo stava guadagnando sempre più soldi e stava lentamente invecchiando (come accade a ogni band, c’è un sacco di gente là fuori che non tollera questa sua evoluzione, e ciascuno col suo disco spartiacque decide a un certo punto di non seguirlo più: a naso direi che The Good Son, di una bellezza commovente intrisa di lirismo e melodie sontuose, possa essere uno dei dischi spartiacque più gettonati, oltre che uno dei primi in ordine cronologico).
Cave è persona estremamente intelligente, e sono sicuro che da qualche parte nella sua carriera egli si sia cominciato a porre domande su chi era e su cosa stava facendo e dove stava andando. Pensate al giorno della presentazione ufficiale alla famiglia dei genitori di Susie, sua futura moglie (fatelo senza sorridere più di tanto: in fondo il problema c’è, no?): lui, con la sua pessima reputazione di eroinomane furente che sul palco si trasforma in un killer esagitato che si rotola sulla gente con urla sguaiate e sgraziate, lui 40enne, sa di essere visto con molto sospetto dalla famiglia ospite, e non può non esserne almeno in parte influenzato. D’altronde, se non erro, sono cose dette da lui stesso in Fede, speranza e carneficina, suo libro che raccoglie conversazioni col giornalista Sean O’Hagan. Niente di più facile dunque che per via di constatazioni come questa abbia sovente tentato di portare la sua performance live in territori più signorili, provando ad ammansire e trasformare la esasperata foga rabbiosa delle sue interpretazioni.
Ma nonostante i tentativi di approcciare le cose da un punto di vista più signorile e composto, rari e bene individuabili nel corso dei più recenti anni, Cave alla fin fine è sempre tornato a esplodere di una energia selvatica, mantenendo in vita i toni accesi summenzionati (divertente e emblematico il periodo dei mustacchi sopra le labbra, coi Grinderman, dove è super cool nella sua ovvia non bellezza reale): la gente così se lo aspetta, lui lo sa, e buona notte. Ora, a 67 anni, visto a Milano al Forum, tutto ciò si è puntualmente verificato, e se ne è avuta una rappresentazione esemplare.
Ci sono molti “nuovi acquisti” nel suo pubblico, gente che bene o male ci è arrivata, anche, sull’onda lunga degli strascichi penosi della morte dei figli, e tutta la loro predisposizione al concerto si pone, molto più inconsciamente che non, sulle frequenze della partecipazione a un lutto elaborato in manciate di canzoni di composta tristezza e dolore, le sue ultime. E nonostante il concerto sia tutt’altro che indulgente su questa perdita, si è propensi a percepirsi parte di un rito collettivo, benevolmente predisposti a farsi travolgere da quella sorta di lunga predica che le suggestioni fanno percepire come tale. Per coloro che è da molto più tempo che lo seguono, credo, questa componente non è prioritaria ed è ben mescolata con tutto il resto che egli è sempre stato, esattamente quello che ho descritto nelle righe precedenti. E più che a una messa collettiva, per essi, per me, si ha la sensazione di esser stati “nient’altro” che a un concerto di straordinaria efficacia, di una potenza emotiva deflagrante, con un uomo sovrumanamente in forma e indomabile, straordinario, speciale. Terribilmente speciale.
Da sottolineare una cosa in particolare: l’esecuzione, se non erro, di tutto l’ultimo disco (forse tranne un pezzo?), Wild God, che io considero incredibilmente bello e riuscito (mi ci sono voluti quattro ascolti, e ora sono tutti cuoricini per lui). Una scelta molto poco mainstream e ammirevole, perché è risaputo che il pubblico in genere non è mai settato sui nuovi pezzi, e mi piace sottolineare che anche i Marlene, nel loro piccolo, suonarono tutto Karma Clima, quando uscì. Il resto della scaletta passa ovviamente per alcune perle sentite moltissime volte e tante scelte possibili fra una marea di tante altre scelte possibili. Nessuna sorpresa eclatante per i consuetudinari come me, tranne forse Papa Won’t Leave You, Henry, ma davvero chi se ne frega: così tante sono le cose di cui si può godere all’interno di ogni singola esecuzione, che qualsiasi essa sia ci sarà sempre motivo di provare qualche tipo di sollazzo beatificante. E sarà subito estasi.
Una cosa mi piace sottolineare congedandomi da voi: da dopo la morte di Arthur, suo figlio, per sua stessa ammissione le cose sono cambiate, dalla sua percezione del mondo alla vita, sia quella che è intorno a noi, sia la sua nelle sue manifestazioni personali («sono un padre, un marito, e ora lo so, e non vivo più una vita così assorbita in maniera assoluta e esclusiva dall’arte che produco e nella quale usavo rifugiarmi bandendo il mondo intorno a me», più o meno sono le sue parole dette da qualche parte che ora non ricordo). In questo cambiamento risiedono anche le tante, ricorrenti parole spese nelle varie interviste e esternazioni pubbliche a favore della parte bella dell’essere umano, quella che gli fa pensare che l’uomo è buono nonostante tutto (un bel cambio di prospettiva, considerando le tante volte in cui in passato ha sottolineato il suo disgusto per le dinamiche della vita): il lungo tunnel del lutto che ha dovuto percorrere lo ha messo a contatto con la commozione intorno a lui, ed egli ha saputo elaborarla e trasformarla in una decodificazione dell’esistenza all’insegna dei semplici atti di premura e bontà coi quali ci possiamo affermare nel mondo. Mi pare che per tutta la durata del concerto echi di parole così coinvolte in questa sensazione risuonino con ricorrenza, e credo sia un fantastico contributo che egli può dare, in quanto artista, per favorire consapevolezza e umanità ai suoi ascoltatori, senza la retorica e la banalità delle buone intenzioni di zero sostanza in cui ci si imbatte sovente. In un mondo sempre più brutto e votato al peggio, questo aleggiare di una sorta di indulgenza universale fa la sua sporca piccola parte per continuare a provare a non farsi travolgere dal peggio che ci attende e che purtroppo arriverà, con commovente resistenza.
Miei pezzi preferiti in quella bellissima serata: Oh, Children e White Elephant.
PS: può non essere conveniente per la propria immagine apparire fan di un proprio collega altolocato, ma il fatto è che Nick Cave è un gigante, uno fra i migliori cantautori di sempre, ed essere suoi fan mi appare in fondo… inevitabile.