Il testo qui pubblicato è stato scritto dall’autore per il festival La Milanesiana, ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi.
Gli scrittori dicono che sogniamo più il ritorno della partenza. Non è vero. Non credetegli. Però torniamo sempre sui luoghi da cui siamo partiti. Torniamo per valutare i passi falsi e i passi perfetti – facciamo anche quelli. Torniamo per riallinearci e poi ripartire. Torniamo perché è da lì che tutto ha inizio.
Spesso non lo facciamo di proposito. L’altro giorno, per esempio, sono tornato a Pompei. Ci sono tornato dopo una ventina d’anni. Ero a Napoli per presentare il mio libro e ho deciso di tornarci perché la prima volta che ci sono stato non sono andato a vedere gli scavi. Penserete che è stato un passo falso, ma le cose sono andate un po’ diversamente.
Era la prima estate dopo nove mesi di Erasmus. Ester, Amaya e Penelope, le compagne spagnole, erano finalmente venute a trovarci in Italia e Mario aveva organizzato tutto perché voleva che Ester visitasse la sua terra, il Salento. Era innamorato di lei fin dal primo giorno, ma in quasi un anno di vita in comune era riuscito a strapparle sì e no qualche bacio sulla guancia.
Ci siamo dati appuntamento a Roma. Un paio di giorni lì, tra Il Pincio, Campo de’ Fiori, Trastevere. Siamo persino passati davanti alla Parolaccia per farci insultare… avevamo vent’anni. Giornate splendide, giornate in cui le città d’Italia erano solo mie e dei miei amici.
I romani sarebbero rimasti lì, a casa loro. Tra gli italiani ero l’unico a scendere verso Sud con Mario e le ragazze e poco prima di lasciare Roma abbiamo deciso di fermarci a Napoli. Mario era con la sua macchina. Ester saliva con lui mentre Amaya, Penelope e io avremmo affittato un’auto e li avremmo raggiunti agli scavi di Pompei. Peccato che siamo arrivati appena dopo l’orario di ultimo ingresso e le porte degli scavi erano già chiuse.
Abbiamo aspettammo Mario e Ester seduti sul marciapiede facendo incetta di granite al limone, riconoscendo già allora l’importanza di essere semplicemente lì, piuttosto che da qualsiasi altra parte. Erano giorni felici. Eravamo arrivati tardi a causa della coda di turisti che si accalcavano nell’ufficio del noleggio auto, ma era bello starsene lì fuori a cianciare di Mario e Ester con Amaya e Penelope, di lui che era cotto di lei e di lei che di lui non lo era.
Il giorno dopo siamo ripartiti per il Salento. Era l’estate di Asereje e di Salirò e noi ballavamo e cantavamo a squarciagola tra bicchieri di Negroamaro, risate e bagni di mezzanotte. Proprio lì, tra una risata e un’altra, Mario mi ha raccontato che in quella visita agli scavi di Pompei lui e Ester si sono fermati e si sono voltati l’uno verso l’altra. Mi ha raccontato di aver sentito quella misteriosa eccitazione che si produce all’inizio di ogni estate. Le ombre silenziose nelle case di sasso ronzavano nella luce di fine giugno, tra le vie di turisti che si rimescolavano tra loro e facevano trambusto. Con la coda dell’occhio, ha visto due bambini che ridevano alle loro spalle, ma mentre il volto di Ester, arrossato dal sole, si avvicinava al suo, il cuore gli batteva sempre più forte e non gli interessava altro che sentire il tocco di quelle labbra sulle sue.
Tutto quello che Mario mi ha raccontato quella notte, anche nel suo spaventoso sentimentalismo, mi è tornato in mente quando finalmente anche io ho varcato le porte degli scavi di Pompei, vent’anni dopo. Pochi giorni fa. Ho visto le bancarelle con le granite al limone e ho visto due ragazzi di vent’anni che si davano un bacio.
Gli scrittori dicono che, alla fine di tutto il nostro andare, torniamo sempre al punto di partenza e capiamo che li avevamo già tutto. Non è vero. Non credete agli scrittori. Io vent’anni fa non avevo praticamente niente. Ogni volta in cui torno a un punto di partenza mi accorgo di quanto sono cambiato, di quanto diverso sono da allora. Giudicavo tanto ed ero convinto che Mario non avesse alcuna possibilità con Ester. Credevo di sapere tutto e quasi lo prendevo in giro. Avevo vent’anni.
Quell’estate ho riso tanto e ballato e amato, ma nel tempo ho fatto tanti altri viaggi. E ho riso, ho ballato, ho amato. Lo faccio ancora.
L’altro giorno ho camminato sul selciato dove vent’anni anni fa Mario e Ester si sono dati il loro primo vero bacio. Il bacio di cui tutti noi parlavamo tanto, loro se lo sono dati senza che nessuno lo sapesse. A me l’ha detto solo perché aveva bevuto troppo Negramaro e mi ha chiesto di non dirlo a nessuno. Noi parlavamo di loro e loro si baciavano.
Torniamo nei luoghi del nostro passato e ci accorgiamo di quante cose abbiamo visto e imparato, di quante cose ci siamo lasciati alle spalle, quanti giudizi. Ci accorgiamo di come oggi, se lo vogliamo, sappiamo essere ancora più felici di allora.
Le reazioni verso il nostro passato sono sempre distorte, ma quando ritorniamo sui passi già fatti li ripetiamo in cammini sempre nuovi. È un po’ come quando, per scrivere, cominciamo da una pagina bianca e ci confrontiamo con tutte le pagine che sono state scritte prima di noi. Eppure scriviamo e scriviamo nella speranza di riempire quel vuoto, di fare meno errori, di avere sempre qualcosa da imparare. Ma non credete agli scrittori. Non importa quante pagine bianche abbiano riempito. Sbagliano anche loro.