La prima volta che divisi in due categorie l’umanità fu durante una qualche estate della mia infanzia. Dopo le solite due settimane al mare, all’hotel Chery di Milano Marittima, realizzai che c’erano miei coetanei che vivevano il rientro a casa come un incubo fulciano. Erano la minoranza. I più erano felici di rincasare e lo erano per la ragione più dolce e nobile possibile: rivedere i nonni.
Io facevo fieramente parte del primo gruppo. Per me i nonni erano la noia, la minestra, le pantofole, la televisione tenuta bassa su Rai 1, i Telesette spillati, i racconti dell’eccidio nazista a Civitella in Val di Chiana, le caramelle Supergelo alla menta, le crostate industriali Despar alla prugna e la morte. Gli ultimi giorni al mare li passavo catatonico, con la mente ero già a casa, e avrei preferito non rivedere mai più i miei nonni per restarmene lì.
Del resto le vacanze erano l’opposizione a tutto questo presentabile olocausto. Lo erano e lo sono. E ancora di più quelle nella riviera romagnola.
Lo skyline della Romagna visto dal mare è un sinuoso serpente di hotel e stabilimenti balneari. Il resto sono ristoranti, bar, locali, edicole, negozi, sale giochi, discoteche, minigolf, arene estive, parchi acquatici, piazze con le panchine e le fontane. Quasi esclusivamente non luoghi, l’uno accanto all’altro, morbidamente ma quasi senza respiro per decine di chilometri, da Casal Borsetti a Gabicce, che è nelle Marche ma misteriosamente è sempre in Riviera romagnola. Esercizi che nella vita si frequentano solo se non si ha fretta, se ci si scorda del tempo che passa. E la Riviera romagnola t’illude che la vita possa essere esattamente questo. Che si possa passare da un momento piacevole all’altro, per sempre. L’alba sul mare, la colazione in hotel, le buste convenienza con gli Alan Ford in edicola, la passeggiata sul bagnasciuga, il bagno a mezzogiorno, la doccia calda, il pranzo completo a prezzo fisso, la camera pulita, il riposo pomeridiano, il giro in pineta, il ping pong, il tramonto dietro gli hotel, l’aperitivo, la piadina, il gelato da passeggio, il karaoke, il risció e ancora al mare sotto le stelle.
La stessa pineta che caratterizza molte località rivierasche è una materna zona di penombra che separa una terra incantata dalle tenebre, dal buio della statale Adriatica, dal pensiero della morte.
Ho sempre prediletto la riviera romagnola più turistica, come Milano Marittima o Lido di Savio, quelle località che si accendono a fine maggio e si spengono a settembre, dove va in scena un simulacro della vita, che è poi la vita stessa senza le parti noiose, insabbiando alla buona il dolore.
Mentre me ne sto sotto l’ombrellone a succhiare una Bomba al pompelmo rosa insieme a una bella fica, se avessi un radar che mi indica il malato terminale più vicino, è facile che me lo darebbe lontano chilometri e chilometri. In città invece, sarebbe esattamente dietro la parete del palazzo che ho davanti.
Del resto in vacanza ci si viene se si sta bene. E in vacanza si può stare tranquilli: le cellule non mutano.
Da piccolo avrei voluto stare in villeggiatura molto più tempo di quanto i miei mi concedevano. Non avevo responsabilità, avrei potuto permettermelo. Ora che ho sulle spalle il peso del mondo, resto al mare un mese e mezzo, in hotel, come il Principe Odescalchi. Non tollero più che la Riviera rappresenti l’eccezione nella mia vita. E da lì, quarantacinque monoporzioni di marmellata Cuor di Frutta all’arancia aperte di mattina fra agosto e settembre.
E non mi si rompano i coglioni, grazie. Del resto la Riviera non si vende mai per niente di diverso da quello che è, non ti stordisce coi discorsi sulle radici e sullo sbarattolare, ma parla soltanto con chi ne comprende la verità più autentica, oltre i cliché e le banalità. Arrivo io e trovo un mare stupendo, limpidissimo, caraibico. Gli chiedo di restare così, perché l’indomani arriverà a rompere i coglioni un mio amico che va al mare in Sardegna.
Poi quel mio amico con la puzza sotto il naso arriva e l’Adriatico gli tira fuori sotto al naso mucillagini, cicche, flaconi di sciampo Campus e meduse morte. Se ne va e torna cristallino.
Esistono tre diversi chioschi di piadine che contraddistinguono la riviera. Tutti in legno, ma a strisce verticali bianco-rosse, bianco-celesti o bianco-verdi. È una tipicità locale e possono essere solo così. Da piccolo, quando coi miei andavamo a mangiare una piadina in un chiosco bianco-rosso o bianco-celeste, ero felice e non c’era nessun problema. Ma se mi portavano in un chiosco bianco-verde mi deprimevo, avvertivo energie negative, forse addirittura radiazioni, come se l’avessero costruito sopra un terreno K. E non capivo come mai. So solo che non mi godevo la piadina, avevo solo fretta di andarmene.
A una vita di distanza ho capito il perché, grazie all’ipnosi regressiva del dottor Kevorkian. Il rosso mi ricordava il sole, il celeste il mare, il verde la pineta, l’entroterra, l’Appennino, il Passo dei Mandrioli, l’orto dei miei nonni, l’abete maledetto del logo delle crostate della Despar.