Mi sono messa in un angolo appena dopo la fine dell’Halftime Show, sotto il tunnel del backstage, dove mi ero infilata appena prima dell’inizio del block party organizzato da Dre. Dovevo in qualche modo tornare verso la mia area – non so se avete presente il SoFi Stadium di Inglewood, tiene 70mila persone, ci vuole un po’ – e in quel momento passa proprio Dr. Dre su un golf cart. Li usano un po’ tutti per spostarsi da una parte all’altra in maniera rapida. Gli chiedo un passaggio e mi dice di sì. Che fai, non sali?
Salgo a bordo fingendo di non essere seduta nei sedili appena dietro di lui, Dre fissa il vuoto e si tampona la fronte sudata. A Los Angeles ci sono 25 gradi e su quello stage a forma di casa dell’hip hop ha salito e sceso un milione di scale per dare vita a uno show incredibile che celebra l’essere cresciuto a pane e hip hop, la blackness, una certa cultura e una consapevolezza che da strada si è fatta mainstream, letteralmente a spallate. C’è 50 Cent che spunta a testa in giù da una stanza e canta In Da Club, Mary J. Blige che a cinquant’anni ci dà una pista a tutti, Kendrick Lamar che intona Alright, uno degli inni di Black Lives Matter, Snoop Dogg che fa alzare in piedi tutti i tifosi del Sofi Stadium, Eminem che mentre canta Lose Yourself si inginocchia in segno di protesta contro il razzismo, contro la NFL, facendo sorridere da qualche parte Colin Kaepernick e un po’ di gente sugli stadi. È un argomento lunghissimo questo e sistemico, quindi magari lo rimandiamo alla prossima. Dopo una performance così probabilmente anche io sarei sudatina e con un asciugamano sulla fronte, senza avere 56 anni come lui.
Forse Dre pensava al cazziatone che prenderà dal Commissioner della NFL, Roger Goodell, per il gesto di Eminem, o forse era semplicemente un po’ incredulo. In fondo, i due anni di pandemia e la sua vita ormai ben lontana dai palcoscenici devono avere influito un po’ su come si è vissuto questo Halftime Show. Anche se negli Stati Uniti le restrizioni per concerti e altro sono state un po’ più leggere che da noi, fa impressione veder ballare la gente in uno stadio pieno: le persone si abbracciano, cantano, urlano, vivono.
C’è una magia attorno al Super Bowl, sembra il posto dove succedono le cose. Molto spesso in Italia cercano di paragonarlo a qualcosa: “È come la finale di Champions”, “la finale dei Mondiali”. Ma ecco, no. Non è nessuno dei due, il Super Bowl è un mondo a sé. Un mondo in cui tutti sono felici di far parte di qualcosa di più grande. I tifosi non sono astiosi nemmeno se perdono, sono allo stadio dalla mattina accampati nei tailgate pre partita, si vestono in modo assurdo e bevono insieme ai loro “rivali” perché vogliono godersi ogni minuto di un’esperienza a dir poco esclusiva. Andare al Super Bowl è quasi impossibile per un tifoso medio, non solo perché i biglietti costano troppo, ma perché è proprio difficile che una squadra ci arrivi spesso. Quindi, come ha detto bene Eminem, è “one shot, one opportunity”.
Siamo a LA, la terra delle star, e infatti dove ti giri vedi spuntare un vip. Sono tutti vip. “Everybody seems so famous”, cantava Miley Cyrus in Party in the USA, ma qui son famosi davvero. Non è uno scherzo, ma giro un po’ per lo stadio: mi volto e vedo Katy Perry e Orlando Bloom che limonano, Drake in ansia mentre aspetta la vittoria dei Rams (dato che ha scommesso quasi un milione su un touchdown del suo amico Odell Beckham Jr., che per la cronaca arriva presto. E sempre per la cronaca, Drake si lamenta scherzando che avrebbe dovuto scommettere sul fatto che sarebbe stato il primo touchdown), Cardi B e Offset che brindano, Kanye che cerca di bere una birra con la maschera in faccia, in temporanea pausa dal suo rant squinternato e pericoloso su Instagram. A un certo punto saluto Olivia Rodrigo che mi prende il telefono e si fa un selfie. Ci sono LeBron, Martha Stewart, Ellen Degeneres, Steve Aoki, J.Lo con Ben. Dove succedono le cose, dicevamo. Probabilmente, più che per vedere una partita di football, sono tutti qui per far festa, per gli afterparty e per indossare un cappellino dei Rams che hanno comprato due giorni prima, lo stesso giorno che hanno saputo dell’esistenza della squadra.
Per chi non lo sapesse, Los Angeles non è una città di football, è una città di basket e baseball. I Rams per tanti anni sono stati la squadra di Saint Louis in Louisiana e successivamente si sono trasferiti nella City of Angels, ma è come se LA non li avesse mai adottati realmente. Anche nello stadio si sentono più tifosi di Cincinnati che di Los Angeles – molto di più – e si vede proprio che ai giocatori dei Rams, nel secondo quarto, manca quel tipo di supporto, quel dodicesimo uomo che ti alimenta la motivazione della squadra. C’è un motivo, in realtà: un amico ha spiegato a qualcuno digiuno di football che questa finale è Juventus-Pescara. Rende l’idea, diciamo, della disparità societaria e di spirito “popolare”.
Gli LA Rams partono in vantaggio contro gli sfavoriti Bengals, che poi rimontano, e sino alla fine è una partita combattutissima. Si fanno male due stelle, una da una parte e una dall’altra, OBJ e Joe Burrow, il quarterback che dal niente a 25 anni è arrivato qui, su questo campo – ci sono queste storie, ce n’è anche un’altra lato Rams: lo sport americano celebra tutti questi racconti di riscatto, di talento magari non riconosciuto all’inizio, esploso all’improvviso, tutte storie da documentario in streaming tra un anno.
Nell’ultimo minuto segnano i Rams e vincono il Super Bowl, in casa. La folla si scatena. “Whose house? Rams house!” Urlano tutti in coro. “Di chi è questa casa? Dei Rams!”. La casa è dei Rams, Los Angeles adotta una nuova squadra, all’improvviso. LeBron, il re del basket di LA, deve dividere il trono con qualcun altro.
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Un giro in golf cart con Dr. Dre: cronache dal Super Bowl
La più alta concentrazione vip di sempre, Katy Perry e Orlando Bloom che limonano, Drake in ansia, uno degli Halftime Show più importanti della storia. E poi, certo, anche la partita