In questo articolo dirò la mia su Fedez al Primo Maggio. Perché mi va di dire per quale motivo mi è piaciuto il suo discorsetto. Ma prima dovrete leggere la mia storiella, che permette di capire da dove arriva quel motivo. Eccola…
Ho bene a memoria le giornate in cui i Marlene erano lì lì per far uscire la loro versione di Bella ciao. La necessità di farla era nata in modo repentino nella mia mente subito dopo aver letto in un articolo su Repubblica a firma di Gino Castaldo che Tom Waits ne aveva fatta una a sua volta per il disco di Marc Ribot, suo sodale di sempre. Il disco si intitola Songs of Resistance, è uscito nel 2018, e raccoglie canti di protesta e ribellione transnazionali e di varie epoche, fra il precedente secolo e l’attuale.
Lasciate che estrapoli due o tre cose da una bella recensione fatta da Riccardo Bertoncelli per la rivista Musica Jazz (qua l’articolo). Intanto due dichiarazioni di Ribot (di passaggio vi dico che suo è uno dei miei assoli preferiti di sempre: una manciata di secondi su Jockey Full of Bourbon, in Rain Dogs, guarda caso di Tom Waits): 1) «Sono allarmato da Trump, ma non solo, capisco che c’è una tendenza in atto. Ho passato un bel pezzo della mia vita a suonare in giro per il mondo, mi piace definirmi un “internazionalista per caso”, e proprio per questo vedo che Trump non è un fenomeno isolato. E allora bisogna fare qualcosa: se non saremo noi a occuparcene saranno i fatti a occuparsi di noi»; 2) «Fare musica che tratti temi politici comporta dei rischi di contraddizione. Devi andare contro e senza diventare tu il bersaglio, per non finire a somigliare a ciò che detesti. Spesso è difficile capire cosa sia giusto fare ed è facile commettere degli errori, anche se poi dagli errori si può sempre imparare. Ma che io dovessi fare qualcosa l’ho capito nel momento in cui Donald Trump è stato eletto. Mi sono reso conto che non sarei mai stato il Furtwängler di un tipo con il ciuffo arancione che sogna di diventare un dittatore, non esiste» (Furtwängler fu il celeberrimo direttore d’orchestra il cui atteggiamento nei confronti del nazismo fu ed è tuttora controverso).
E poi l’estrapolazione di un pezzo di testo di una delle canzoni contenute nel disco, ovvero un’opera del messicano Manuel Eduardo Toscano: “Ratto sporco / Animale che striscia / Scoria di vita / Pazzo venuto male / Subumano / Spettro dell’inferno / Troia maledetta / Quanti danni hai fatto / Serpente velenoso / Spreco di vita / Ti odio e ti disprezzo”. Queste parole niente affatto politically correct sono state scritte contro Salinas, il Presidente contro cui il Movimento Zapatista guidato da Marcos scagliò tutta la sua dolorosa rabbia, ed è pensabile che il rospo col ciuffo arancione sia il destinatario dell’uso che Ribot ne fa facendo reinterpretare il cantato a un rapper, Ohene Cornelius.
Se non avessi scoperto questa cover di Tom Waits, e soprattutto se non avessi sentito il mood dolente con cui Ribot reinterpretò l’originale permettendomi di accedere a un significato altro rispetto all’approccio combat rock saltellante che mai è stato nelle corde marleniche, non sarei arrivato a pensare di spingermi a tanto, ovvero a farne una a nostra volta. Nella mia mente, e fino a quel momento, quel canto era stato prima di tutto, e per certi versi purtroppo, un pezzo di cui si era appropriata una certa retorica del mondo da cui ideologicamemte provengo che si ammantava di un’etica e soprattutto di una estetica lontane dalle nostre fascinazioni (giro di parole per dire che c’era un po’ di puzza sotto al naso, quand’anche non schifiltosa). A onor del vero l’articolo di Castaldo finiva con una nemmeno poco velata sfida lanciata a tutti noi. Una cosa del tipo: vediamo se anche i musicisti italiani sapranno fare altrettanto in un contesto nazionale che reclama altrettanta urgenza (sono parole mie, non sue: sto solo cercando di riportare un significato sbiadito nella sua precisa esattezza dallo scorrere dei mesi-anni. Ovviamente il senso è quello).
E dunque ho bene a memoria le giornate in cui i Marlene erano lì lì per far uscire la loro versione di Bella ciao… Il pezzo era pronto, Skin era scesa a Milano con la sua incredibile carica di energia e rabbia per cantarlo con me negli studi del caro amico e ottimo pianista Vittorio Cosma, e non restava che pianificare la data di uscita.
Ma mi bloccai. Cominciai a intravedere fantasmi, che a volte venivano a corrompermi pure il sonno. Forse ero particolarmente vulnerabile, scosso dalle mie debolezze del periodo e tormentato dai disagi che i pessimi venti della “tendenza in atto” (le parole di Ribot…) procuravano ai miei affanni, pronti a farsi permeare come terreno fertile. Fatto sta che cominciai a chiedermi chi me lo faceva fare. Certi scempi accadevano con sempre maggior frequenza in un crescendo apparentemente inarrestabile (per me il peggio del peggio fu rappresentato dal caso Diciotti, ma anche la Digos che faceva togliere gli striscioni anti-Salvini dai balconi non scherzava affatto, per dire…) e quello che sentivo di dover contribuire a osteggiare osteggiava il mio spirito, impaurendolo.
Erano infatti i tempi (è tanto bello quanto scivoloso parlarne al passato) in cui ogni intervento di natura etico-civica sui social di noi musicisti veniva massacrato dagli shitstorm creati ad arte, vien da dire, da quella nebulosa di reazioni istantanee concentrate nella manciata di minuti cruciali (forse dovrei dire secondi) in cui gli algoritmi, come squadre d’assalto, si mettono in azione per sostenerle, sobillarle e moltiplicarle. Come solerti sudditi del loro creatore GoogleFacebook (moderno Frankenstein) capiscono molto in fretta se sta accadendo qualcosa di diverso dal solito nei primi istanti di vita di un post (se parli di un argomento sensibile ai più, molti di quei più avranno una reazione quasi istintiva, la stessa che non avrebbero se, che ne so, ti mettessi a parlare di un disco jazz o di un film di David Cronenberg: è un po’ triste, ma è così. Ed è curioso, perché se parli di cose di natura etico-civico-politica, alcuni di quei molti, insensibili e del tutto disinteressati al disco jazz o al film d’autore in questione, ti verranno senz’altro a intimare con caustica prepotenza: «parla di musica e lascia stare la politica!»), e subito si scatenano, gli algoritmi, per mandare segnali ovunque nell’ammasso di profili connessi al tuo per dritto o per traverso (qualcosa di concettualmente simile ai famosi sei gradi di separazione). E quel non so che di anomalo diventa in un lampo straordinario, e a seconda di quanto sei grosso (noi Marlene siamo piccini da questo punto di vista) l’effetto moltiplicatore ti vomiterà addosso il peggio in gran quantità, come se si trattasse di una gragnuola di colpi che ci si beccasse sotto il tiro incrociato di un po’ di cecchini appollaiati dietro il parapetto dei terrazzi della via che si starebbe percorrendo di gran corsa.
A Frankenstein quella moltiplicazione giova per questioni economiche (poiché è del tutto disinteressato a quanto sia immorale e pericolosa la canea: quanta più ce n’è, tanto più guadagna, ed è tristissimo), e ai politici che hanno dei più che solerti e biecamente irresponsabili social media alle spalle (tutti dovreste ben capire di chi sto parlando) giova per far scatenare gli adepti o aspiranti tali (i follower della modernità) per fidelizzarli sempre più all’insegna di un odio a loro molto comodo. E tu resti a beccarti la tempesta di merda che ti sotterra e, per i più pavidi, ti impaurisce, ti spaventa e ti inibisce. Non che quei tempi siano finiti del tutto, e mi spiegherò meglio fra poco, ma in quel periodo (2017-2018-2019) lo shitstorm (è “lo” o “la”?) zittiva tutti o quasi tutti i tuoi potenziali difensori-sostenitori, e tu che ne eri il destinatario ti ritrovavi solo o quasi a incassare colpi che facevano molto male. L’intimidazione funzionava, e ogni giorno che passava sembrava sempre più efficace.
Da una parte dunque percepivo la necessità di fare qualcosa come Ribot e la stragrande maggioranza degli artisti, attori, musicisti, sportivi americani faceva contro il tremendo Trump, dall’altra sentivo di essere uno fra i pochi(ssimi), perché da queste parti non c’era quella stessa indignazione che aveva impedito all’intimidazione trumpiana di funzionare perfettamente. O c’era ma rimaneva una intenzione non espressa da pollici indolenti e raggrinziti dal timore. (Anche se non son così sicuro che ce ne fosse tanta in ogni caso, perché… boh, secondo me c’era una specie di incantata e incosciente indifferenza, una ignavia, che è esattamente ciò che serve ai futuri oppressori per attecchire poco alla volta nel tessuto sociale). Timore dicevo: di cosa? Credo di perdere pubblico. E forse anche di qualcos’altro. Un qualcos’altro che intimoriva anche me fino a bloccarmi, perché mi ritrovavo a dire a me stesso: «ma tu non sei un eroe». (La perdita di pubblico invece non mi intimoriva… Non la volevo, certo, chi mai la vorrebbe?, ma l’urgenza era più forte di qualche piccola percentuale di pubblico in meno. La mia onestà intellettuale reclamava i suoi diritti, la mia integrità morale pure, e il mio istinto mi impediva di far finta di non star cogliendo quello che stavo invece cogliendo eccome).
In quei tempi ebbi la fortuna di incontrare per una manciata di minuti un politico di rilievo nazionale, e gli esternai il mio spavento. Ne parlammo, e lui mi consigliò un libro: Sindrome 1933, di Siegmund Ginzberg, edito da Feltrinelli (lo consiglio a chi vuol rendersi conto di un pericolo forse corso). Mi disse: «Leggi questo. Fa impressione… Avrai la sensazione che tutto ciò che viene raccontato di quel periodo sia sorprendentemente simile a ciò che sta accadendo ora». Mutatis mutandis, aggiungo io, e ci mancherebbe, ma siamo ben lontani da quella fastidiosa attitudine del mondo intellettuale di due-tre-quattro anni fa di non nominare la fatidica parola: “fascismo”. Percepivo una sorta di pruderie affettata che non riuscivo a giustificare, e solo due o tre giornalisti dal piglio intellettuale vedevo distinguersi andando nei salotti dei talk show a dare il nome giusto alle cose e a pubblicare libri audaci. Gente che ho già nominato in un altro mio articolo e che non smetterò di ringraziare per aver contribuito a dar forza a chi si sentiva infastidito da quel «60 milioni di italiani me lo chiedono» senza aver il coraggio di scendere in piazza (reale o virtuale che fosse) per depotenziare questo delirio. (Ci pensarono le Sardine a portarli finalmente nelle piazze reali facendogli mettere la faccia: si scoprì in fretta, a quel punto, che non c’erano 60 milioni di rincoglioniti in Italia).
Credo che letto ora quel libro non saprebbe procurare gli stessi brividi, perché, per fortuna, due o tre sliding doors (le Sardine, il covid, ovviamente terribile per ben noti motivi ma distrattore efficace, la mancata presa dell’Emilia…) nel frattempo hanno ammorbidito una situazione che allora stava diventando, a mio modo di percepire la realtà, estrema. E hanno mitigato quel principio di incantamento che aveva irretito parte della popolazione. Le tempeste di merda a loro volta sono un po’ meno di merda, perché grazie a quelle sliding doors molta più gente ha preso coraggio, consapevolmente e inconsapevolmente, e anche nei social tanti “combattenti” sono passati al contrattacco usando le stesse armi di chi con tanta abilità comunicativa aveva gettato le basi per una propaganda efficace (anche a Goebbels si attribuisce una straordinaria capacità comunicativa, detto di passaggio…). Seguo due o tre profili in Instagram di gente che non si tira indietro e smerda le tante brutture di un certo tipo di mondo a me sgradito (e non solo a me ovviamente), e così facendo contribuisce a rendere molte persone a loro volta coraggiose. (Lo so, sembrano termini dalla natura guerresca, e non c’è niente di più lontano da me che l’attitudine guerresca. Odio le guerre, odio le tensioni, odio le scazzottate, odio l’odio. E come ho detto altre volte, desidero solo che la democrazia funzioni al meglio essendo il meno peggio che l’uomo si può concedere, con il sano principio dell’alternanza a indirizzare i consessi, liberandoli dai rischi degli estremismi a destra come a sinistra). Mi sembra che prima di quelle sliding doors si stava tutti (quasi tutti) piuttosto zitti.
Ora c’è bilanciamento, mettiamola così, e un quasi “plebiscito” (virgolette d’obbligo) si è trasformato in una quasi abituale schermaglia fra fazioni opposte. Tantissime cose fanno ancora schifo, altre fanno più schifo ancora, e molte non hanno colore politico, essendo brutte o orribili a prescindere, ma la contesa è ad armi pari e si può ragionevolmente essere un po’ meno intimoriti. Nel frattempo Trump è stato esautorato dal voto popolare, e una parvenza di normalizzazione, qualsiasi cosa questo voglia dire, fra pregi e difetti, visto che non si è mai dato il caso nella storia dell’umanità di vivere in un mondo perfetto, è riuscita a neutralizzare a livello internazionale gli squilibri della “tendenza in atto…” (sempre Ribot). Non essendoci stata la riprova del peggio (è il mio punto di vista ovviamente), si può aver gioco facile nel deridere queste mie parole tacciandole di attitudine paranoica, di rincoglionimento senile o simili: ma l’importante è che le cose per ora stiano così, e le risate sono meno contundenti della rabbia intimidatoria degli shitstorm di due anni fa. Tant’è. E per ora va bene.
Prima di arrivare alla parte finale di questo mio articolo, e dunque a Fedez, voglio chiudere il discorso intorno alla nostra Bella ciao.
Infine i Marlene e le persone intorno a me (la mia compagna, la mamma di mio figlio, mio figlio, il mio discografico, due o tre amici) mi fecero sentire la loro calda presenza e si arrivò tutti insieme a farla uscire. Di colpo, appena uscita, mi liberai di un fardello e sentii che i Marlene avevano fatto quello che in America stavano facendo gli artisti di ogni rango, dal mainstream all’alternative. E mi sentii felice. Le sliding doors arrivarono poco dopo, e mi piacque pensare di avervi contribuito in qualche piccolo modo, scongiurando almeno per il momento il rischio di diventare il Furtwängler di un tipo con la mascella quadrata di mussoliniana memoria e senza ciuffi da esibire.
E cosa prevede la parte finale del mio articolo? Questo: se le shitstorm (“le” o “gli”?) sono un po’ meno terribili da sopportare, e se i pieni poteri sono un piccolo-grande incubo per ora riposto nel cassetto dei desideri di chi li chiedeva per sé, molte cose ancora allarmano, e l’equilibrio di cui sto parlando va mantenuto vivo. Il deragliamento è sempre dietro la porta, e credo bastino un po’ di distrazioni assommate insieme per tornare in zona incubo. Per cui quello che ha fatto Fedez al Primo Maggio romano è del tutto conforme a quanto serve per continuare nell’azione di arginamento. Un personaggio di grande rilievo pubblico come lui, con interventi come quello di una decina di giorni fa, permette a una grande fetta di persone in Italia di tenere viva e desta l’attenzione, infondendo il coraggio dell’espressione delle proprie idee, anche in rete, nei social, che sono ormai parte essenziale della nostra vita (che tristezza). Il ritrovato coraggio di non farsi impietrire da un linguaggio aggressivo (dovrebbe essere riconosciuto da chiunque sappia essere intellettualmente onesto che è da destra che si è iniziato a usare la spudoratezza dell’aggressività nei social a fini politici, e dai politici, o meglio da un politico in particolare, alla Trump, né più né meno) il ritrovato coraggio impedisce l’intorpidimento e l’incantamento dell’ignavia e dell’indifferenza, e tiene in gioco le coscienze.
Da luoghi del pensiero opposti a quanto or ora espresso si sorride di certo a parole come queste, o ci si incazza proprio. E se il tipo di persona che vi appartiene è giunto fino qua a leggermi, dico che una certa egemonia culturale imposta dalla sinistra nei luoghi istituzionali dell’informazione e dello spettacolo mi ha sempre messo un po’ in difficoltà, perché sempre ho sentito che non era giusto dare per scontato di aver ragione nell’escludere o marginalizzare dai/nei salotti televisivi il pensiero antagonista. E di conseguenza pensare di aver ragione a prescindere (si ha ragione “dall’altra parte” a parlare di arroganza in questi casi). Ma penso a un pensiero antagonista civile e incline alla dialettica costruttiva, non l’estremismo aggressivo e prevaricatore delle urla della pancia sdoganato dalle libertà della rete e fomentato dalla rozzezza creata ad arte da certi social media (Umberto Eco aveva ovviamente visto giusto con la tanto discussa affermazione sugli imbecilli in rete, e aveva preconizzato la dipendenza che avremmo tutti progressivamente subìto nei confronti dei social: pensate, ma è solo un esempio, allo schifo della politica ormai fatta su questi canali, Twitter in primis, penosamente volgare, schifosamente brutale nella sua tremenda sinteticità fatta di affermazioni basiche e indirizzate ai bassi istinti della gente… pensate a tutto ciò…). Ma questo è in realtà un altro tema, e chissà che una volta o l’altra mi venga di affrontarlo in un articolo… Chiusa parentesi dunque. Torniamo a Fedez.
Si è parlato tantissimo di lui e molte analisi sono state fatte. Io posso e voglio dire che stavo guardando il concerto del Primo Maggio quel giorno, e dunque il suo intervento me lo sono beccato in diretta. Mentre snocciolava i nomi della lista di uomini politici che hanno fatto affermazioni brutte, stupide e penose nei riguardi degli omosessuali, pensavo: «È cazzuto Fedez! Quasi nessuno col culo parato come lui farebbe una cosa simile: lui va e la fa». È un fatto, e sticazzi il resto, detto alla romana.
Fedez è di sicuro un mix di scaltrezza, furbizia a quintali e abilità imprenditoriale fuori dal comune (il connubio con la sua consorte mi pare un tripudio di efficienza senza uguali), e dubito faccia molte cose che non prevedano un ritorno personale in termini di soldi. È un rullo compressore, e la dimensione intellettualmente casta e pura dell’arte non credo gli appartenga.
A naso non mi sembra però che il suo intervento al Primo Maggio sia una mossa di marketing: io non lo penso, non lo insinuo, e non lo scrivo. E se anche lo fosse vale quello che ho detto sopra a proposito dell’arginamento: c’è bisogno di persone con ampia presa sugli italiani che sappiano dare l’esempio del coraggio, contro l’ignavia del pavido e l’indolenza del pigro. Ma, ripeto, non penso al marketing. È più semplice immaginare che l’impegno per quei diritti civili gli sia congeniale e congenito per questioni di provenienza “ideologica”. E peraltro tutto ciò che pertiene alle questioni LGBT (generalizzo) è, come dire?, moderno, attuale, contemporaneo (dovrei anche usare la parola “progressista”, ma la metto in parentesi), del tutto conforme all’essere persone che vivono in un contesto occidentale globalizzato e a esso aspirano per desiderio di sentirsi parte di una grossa comunità ideale, al di là del concetto dei confini e delle frontiere, e nonostante questi concetti (liberali?) paiano di questi tempi esser caduti in disgrazia. E, peraltro, senza doversi per forza sentire moderni “senza se e senza ma”.
E dunque è facile immaginare una ovvia spontaneità da parte sua (di Fedez) nel difendere qualcosa che siamo in tanti a difendere, stupiti e indignati per ritrovarsi a lottare per quel qualcosa che vorresti fosse semplicemente ovvio alla moltitudine, ovvero impedire che certe categorie siano a rischio di vessazioni fisiche e psicologiche: perché è un problema che esiste ancora, molta cronaca recente lo ha messo in evidenza, e i Paesi a cui per molti motivi immagino ci piaccia essere idealmente vicini l’hanno risolto da tempo (anzi, vista da fuori la nostra querelle appare ridicola, assurda e retrograda). A meno che non si guardi a civiltà e culture non progressiste o alle democrazie illiberali come ideali modelli in cui identificarsi, e purtroppo, in verità, sembrano essere in molti a farsi abbindolare in tal senso.
Dunque direi che è del tutto normale attendersi che Fedez appoggi il ddl Zan tanto quanto è coraggioso che lui faccia nomi e cognomi di esponenti politici responsabili di affermazioni penose. (Vi state ancora chiedendo perché “coraggioso”? Leggetevi il punto 1 nella riga sottostante, e siate intelligenti nel processo di deduzione). E dovrebbero essere normali altre due cose:
1) che molti colleghi potenti come lui facessero uscite eclatanti e rischiose su temi scottanti di questioni civili ovunque e quando ve ne fosse l’urgenza (e ho cercato di “dimostrare” che viviamo tempi di urgenze, e che l’ignavia per comodità e opportunismo è pericolosa e condannevole);
2) che Fedez, sensibile a certe questioni legate ai diritti civili, non dimenticasse altri diritti civili altrettanto ugenti, e dunque non prendesse i tantissimi soldi che prende da contratti milionari con Amazon (come si dice, ma è quantomeno verosimile, e se non è vero faccio ammenda) perché i lavoratori di quell’azienda – che sta letteralmente distruggendo un mondo – non se la passano esattamente bene. E guadagnare milioni sulla loro pelle (quando tanti probabilmente ne hai già) mi pare purtroppo immorale. (Non è il tipo di accuse che amo fare e lanciare, e non amo ergermi a accusatore di nessuno in merito a questioni che ti fan diventare una sorta di moralizzatore. Lungi da me. Epperò le concatenazioni logiche delle mie frasi in successione, e il ragionamento che ne stava emergendo, non potevano che arrivare fin qui dove sono arrivate. Lo dovevo a me stesso e alla coerenza… intellettuale, perché no?, che cerco di dare a tutto ciò che penso e provo a “mettere su carta”. E ci sarebbero tante precisazioni da fare sul nostro essere a nostra volta immorali nell’accettare Amazon e nella nostra cupidigia nel volere tutto a costi sempre più bassi, finendo per essere inconsapevoli cause di una sorta di sfruttamento schiavista di massa ma… ci ho provato, e questa parentesi stava assumendo proporzioni gigantesche. Fermiamoci qua, ai milioni che generano la brama nel volerne altri e poi altri ancora… In un prossimo mio articolo potrei provare a mettere sui piatti della bilancia i due tipi di avidità: quella che abbiamo tutti noi nel volere sempre più cose spesso inutili a prezzi sempre più bassi, e quella che hanno i milionari di questo secolo nel volere sempre più soldi a danno di quasi tutti. Chissà come ne uscirei dal tremendo inviluppo dei ragionamenti in cui mi ritroverei…).
Riassumendo mi sembra che possano esistere in lui certe istanze ineludibili, e non solo il suo discorsetto al Primo Maggio, ma molti dei suoi interventi sui social in genere sono comunque in linea con un approccio al contesto sociale che sia di inclusione e non di esclusione (detta in modo estremamente generico e semplicistico). Almeno fin che si potrà permettercelo (dubito che potremo includere chiunque quando il global warming spingerà via tutti dai loro Paesi d’origine diventati roventi, ovvero quando il dramma sarà sempre più sotto gli occhi di tutti), il principio di inclusione inerisce a un approccio al contesto sociale fatto di attitudine umanitaria e compassionevole, e questo per me è sufficiente, importante e rimarchevole.
E poi diciamolo: Fedez sta all’Italia come Beyoncé, Madonna, Shakira, Young Thug, Neil Young, Bruce Springsteen, Lady Gaga, Miley Cyrus, Katy Perry, R.E.M., eccetera eccetera stanno all’America (lo so, se si estrapolasse la proporzione dal contesto chi la leggesse penserebbe a una bestemmia). La lista degli americani sarebbe ancora lunga, molto lunga. Si può dire lo stesso di quella degli italiani?
Dunque, per quel poco o nulla che possa valere, aggiungo anche il mio “bravo” a Fedez per aver contribuito a tenere vivace e desta una tendenza contraria a quella più volte da me riportata e nominata da Marc Ribot nella sua intervista: due tendenze che se la possono giocare ad armi pari, sperando non vinca mai in modo troppo schiacciante quella sbagliata.