Alberto Piccinini: Come va? Io sento intorno quest’aria di ripetizione, di doppio, doppelgänger. Anche inquietante al limite. Di cosa litigano davvero Adani e Caressa dandosi del coglione a vicenda? Di calcio norvegese? Uhm, non credo proprio. Ok, è il vecchio Processo di Biscardi però ha un aria diversa, livida. E il falconiere laziale nazista brasiliano con la protesi peniena (“peniena” è l’aggettivo dell’anno per me) non ti ricorda qualcosa? Quei personaggi di Twin Peaks tipo la Signora del Ciocco o il Nano che parla al contrario, un mondo di freak dove niente è quello che sembra. Sarà la morte improvvisa di David Lynch che mi ci ha fatto pensare, ma è un po’ come stare dentro la Loggia Nera, ricordi? Il posto dove le leggi del tempo e dello spazio sono sospese, a parte il Male. Adesso siamo all’ultimo sforzo goebbelsiano di rendere logica l’idea della remigrazione. “Negher a casa loro” proprio come gridavano i leghisti ubriachi negli anni ‘90 in fondo ai peggiori bar di Abbiategrasso. Però con metodo. Chi non si integra, dicono, è bene che torni al Paese suo – ne parlavano Mario Giordano e il generale Vannacci giusto l’altra sera in tv. Logico. Ma siccome il concetto di “integrare” e quello di “Paese suo” non sono così semplici da definire, allora in cuor loro sono già passati a fare i calcoli di quanto ci si metterebbe, come coi vecchi problemi di aritmetica: se un aeroplano contiene 300 disperati, quanti viaggi per rimandarne indietro un milione? Quest’ideuzza impossibile, criminale, ai neonazisti tedeschi dell’AfD farà guadagnare almeno il 20%. A Trump ha fatto vincere le elezioni. E noi chi siamo per? Trump la chiama col suo nome: deportazione. I nazisti, che primi la copiarono dagli antisemiti polacchi nel ‘37-’38, erano convinti di poter deportare tutti gli ebrei in Madagascar. Poi pensarono di risparmiare soldi e benzina come sappiamo. Indietro, ma dove?
Giovanni Robertini: Su questa nazi-idea “o ti integri o raus” che sta riempiendo il palinsesto iperpolitico dei talk show – non importa che si parli di Ramy o di taharrush gamea a Capodanno in piazza Duomo – ti segnalo un Cacciari di lotta a Otto e mezzo, che da giorni mi gira sui social: “Integrarsi a cosa? A questa Italia qui? A questi stipendi da fame? A queste regole qui? Io le regole le rispetto ma se non mi piacciono voglio cambiarle. Altro che integrarsi”. Boom! Come i ragazzi di seconda generazione del Corvetto da Del Debbio: “Perché Fares e Ramy non si sono fermati al posto di blocco? Perché quando ci ferma un carabiniere va sempre a finire male, abbiamo paura, meglio scappare”. Peccato che gli sceneggiatori di ACAB, già prima nelle serie tv Netflix, fossero distratti, troppo impegnati a colorare di stereotipi la dicotomia tra poliziotto buono e poliziotto cattivo: uno dei celerini violenti della serie, mentre si pompa con i pesi in palestra, ascolta Noyz Narcos, il rapper che all’odio per le guardie ha dedicato più di una rima, in un’accelerazione del mito pasoliniano ormai fuori controllo. Le piazze, la vita di strada e il mondo di mezzo sembrano il set dell’unica narrazione possibile, la paura: dalla trap di Spotify alla fiction di Netflix fino al salotto tv Mediaset. Altro che incubi lynchiani, buoni solo per noi abbonati a Mubi! Quindi, armati di buona volontà ma poca teoria, torniamo in strada: ho ascoltato Mafia Slime 2, il nuovo album di Nerissima Serpe e Papa V, veri eredi dei Club Dogo e del loro immaginario gangsta, aggiornato al 2025. I due rapper giocano citando il Gino Paoli di Quattro amici al bar, lasciandoci appesi a una continuità impossibile tra il cantautorato e l’oggi: se il proto gangsta Paoli cantava di quattro amici che volevano cambiare il mondo, parlando di anarchia e libertà tra un bicchier di coca ed un caffé, Nerissima e Papa stanno seduti al “Bar cinese” per mancanza di prospettive – “Senza soldi e tanti sogni, non si va in vacanza in ferie” – al massimo qualche giro in macchina “bevendo caipirinha su una Volvo” o “fumando con i miei G su una macchina, una Clio, ascoltando i Kiss”. Si sente l’eco degli 883 della provincia pavese da cui vengono anche i due rapper, serate sfigatissime “con un deca” e basta, solo che oggi il Jolly Blue l’han comprato i cinesi, l’Uomo Ragno l’hanno ucciso davvero e tira una brutta aria. Dalla strada è tutto.
AP: Sì, hai ragione, Nerissima e il suo amico Papa mi sembrano i figli di quelli che sbraitavano nei bar di paese di figa, politica e grandi imprese, uguali ai padri però nichilisti, cioè simpatici alla fine. Io invece ho passato una bella mattinata camminando nella pioggia e facendo il karaoke del karaoke con Timothée Chalamet che canta il best del best di Bob Dylan, da The Times They Are A-Changin’ a Like a Rolling Stone. Il film ho visto l’anteprima, che vuoi che ti dica? La sceneggiatura è deludente, il mistero di Dylan arrivato in autostop a New York come un completo sconosciuto resta tale, nonostante le 50 biografie e più uscite da allora. Le ragazze sono accecate dal genio del giovane poeta, i parrucconi radical-chic di sinistra travolti dall’anfetamina purissima di Like a Rolling Stone, poi c’è Kennedy, la bomba eccetera. Il regista Mangold, che in passato ha fatto vari supereroi, usa la stessa cifra anche qui: Dylan come Spider-Man, Superman, Silver Surfer, il superpotere, il mistero dell’ispirazione e altre chincaglierie midcult fino allo schianto in motocicletta che chiude il film. Nero. Titoli. Avrebbe potuto farlo benissimo Sidney Sibilia come la sua serie sugli 883 ispirata al potere nascosto dei supereroi, secondo me l’avrebbe tagliato meno con l’accetta. Detto questo le canzoni resistono a tutto, anche alla follia di ascoltarle come a Tale e Quale Show cantate dal simpatico Timothée continuando a chiedersi il perché. Come popstar planetaria lui mi piace, è carino, romanista, portava un bel maglione di Miu Miu e in ogni caso si veste molto meglio di Angelo Duro, il Checco Zalone della destra. Tenetevelo. Non sottovaluto il problema, comunque. Appena riesco a rubare il film ti dico, nel caso fammi un WeTransfer.
GR: Giusto oggi l’amico mio palermitano mi raccontava della sua amicizia con Angelo Duro: “A Palermo tra ragazzi all’epoca ci conoscevamo tutti”. Ecco, lui faceva il crooner in un gruppo swing, girava per localini, gli piaceva il canto jazz, poi ha iniziato a fare un po’ di stand up. Gli ho chiesto se è di destra, e mi ha detto: “No, no assolutamente, anzi…”. Anzi cosa? Nessuna risposta, però l’idea che Angelo Duro non sia neanche uno di destra mi destabilizza molto di più che se fosse un militante di Casa Pound. Forse avrei bisogno di una serie sulla comicità tipo ACAB, comico buono e comico cattivo…. Il trailer di Io sono la fine del mondo è un manifesto condensato del personaggio di Angelo Duro: in meno di due minuti è contro gli ambientalisti (“lo sai che mentre ti parlo si sta sciogliendo un ghiacciaio al Polo Nord?” gli dice l’attivista porgendogli un volantino, e lui: “e allora non mi parlare, stai zitta”, risata?), le donne, le persone sovrappeso, i genitori vecchi e rompiballe. Quindi dovrebbe essere un personaggio divisivo e scorretto? No, è semplicemente integrato, quindi tocca tenercelo qui.