Sotto il vulcano è una rivista trimestrale dedicata ai «pensieri e alle narrazioni nuove» che possono aiutarci a superare il momento che stiamo vivendo. Ogni numero contiene una parte monografica dedicata a un tema specifico, approfondito da scrittori, filosofi, artisti e scienziati italiani e stranieri, in una raccolta di racconti, reportage, poesie, riflessioni, graphic novel e memoir. Il secondo volume della rivista affronta il tema della metamorfosi, affidato alla curatela della scrittrice Premio Strega Melania Mazzucco – con la direzione di Marino Sinibaldi –, ed è in libreria da oggi. Qui sul sito di Rolling Stone potete leggere un estratto in esclusiva: si tratta di Teresa l’artista, un racconto di Fumettibrutti che potete leggere qui sotto. Il secondo numero di Sotto il vulcano verrà anche presentato dal vivo, in un evento organizzato al Piccolo Teatro Grassi di Milano il 23 febbraio. Parteciperanno la curatrice Melania Mazzucco, il direttore Marino Sinibaldi, Gad Lerner, Jonathan Bazzi e Vincenzo Trione (due autori presenti nel numero).
Teresa l’artista
Fa un freddo porco. Non ho mai imparato a vestirmi. Macelleria: è così che mi vedo, appesa per gli uncini, in vetrina, quando il dolore diventa pornografia.
La casa è solo un’altra delle catapecchie occupate in questa strada, di proprietà del vaticano. Gesù è tra gli ultimi, come noi troie. Sul mio corpo sono spuntate altre due macchie, una quasi al centro del petto, l’altra sulla mano. “Disegna bene il ragazzo, ha una mano felice, farà l’artista!” dicevano gli insegnanti a mio padre, ma sulla parola ragazzo tentennavano. La “mano felice” adesso accoglie lo sperma dei clienti, tranne le volte in cui non lo smaltiscono dentro di me, io come una discarica.
I miei desideri hanno superato ogni possibilità di riscatto: sento che non c’è posto per me nel mondo, i maschi continuano a spingermi respirando la mia aria ed è così che me ne andrò. Papà è l’unico che mi abbia mai veramente amata, gli ricordavo la mamma. Un tumore fulmineo l’ha seccata in tre mesi, almeno non ha sofferto. Avevo solo sei anni. Non posso dire che mi sia mancata: non me la ricordo.
Però ricordo che poco dopo mio padre ha iniziato a bere, non ha più smesso, mentre io comincio ad andare a scuola coperto di stracci. La mia compagna di banco si tappa il naso e non mi presta le penne, ha paura che gliele rubi. L’unico sollievo che provo è quando torno a casa e accendo la televisione. Le signore delle televendite che parlano alle casalinghe mi tengono compagnia, insieme ai programmi sui tarocchi. La sera poi c’è Amici, con la mente volo in un altro luogo. Faccio finta che la voce calda di Maria De Filippi sia la stessa di mamma e sogno di ballare come le ragazze col culo tondo. Seni inesistenti, cosce glabre, pube piatto. Ho un’erezione. I ragazzi cantano, ballano, recitano, muscoli e spalle in vista, il collo teso, sguardi, le mani. Ho un’altra erezione. Intanto papà perde il lavoro e beve, mi piange addosso con tutto il suo peso, ma quando ha finito so che potrò tornare a vedere i miei programmi. Sono l’unica cosa che gli è rimasta al mondo. In televisione non ci somiglia nessuno.
Sono in seconda media quando stanchezza e incontinenza bloccano papà a letto, eccolo steso, è quasi fatta, mani e piedi gelati. Sembra un uccellino caduto. Una volta ho provato a salvarne uno, non volava, la maestra mi aveva detto che se la mamma li butta fuori troppo presto non c’è alcuno scampo, ma volevo comunque provarci. Sono salito al piano più alto del palazzo abbandonato vicino casa e l’ho lanciato da lì. Io mamma passera, è così che si fa. Si è schiantato. “È la natura, piccolo mio”, aveva detto papà. Lui è come quel passero, non voglio che vada via. Il frigo è vuoto. A scuola mi faccio dare le merende dai compagni, in cambio della mia mano. Non la sposa, la puttana. Scrivono perfino il mio numero nei bagni. Adesso ho un nome: sono Teresa la maiala, la troia. “Lo prende tutto”, dicono. Questo nome me l’ha dato una compagna che mi piace, mi ha detto: “Hai la faccia da Teresa”. Lei si è sverginata da sola, con le dita: “Voglio essere io la prima, per me e dentro di me”. Perché mai compiere un gesto simile?
Panini col salame e Tegolino del Mulino Bianco, questi sono i miei pasti. Per mio padre provo a impegnarmi un po’ di più e vado a chiedere aiuto al prete. Ogni tanto viene a farci visita, ma è disgustato dal mio aspetto, lo capisco da come mi guarda. Sarà perché ormai sono Teresa, poca carne e tutta ossa, gonnella scozzese e scaldamuscoli. Qualche volta lascia un piatto di pasta in bianco, una lattina di piselli o delle polpette al sugo. Papà devo imboccarlo o non mangerebbe, lo costringo. Sempre le mie mani.
Ho quindici anni, lo prendo dappertutto. Comincio a chiedere soldi. Un uomo vicino la scuola mi guarda, pattuiamo per venti euro, ma me ne dà solo dieci. Appena ho finito, per dispetto gli prendo i pantaloni, ma non per rubarli, voglio solo i miei soldi. Mi insegue, urla che vuole uccidermi. La sicurezza urbana in macchina fa finta di non vedermi, ho sbattuto le mani sul loro finestrino e pregato aiuto. Delle macchie nere vanno e vengono dalle braccia.
È il tre dicembre, domani compio 18 anni. Mio padre muore. Accendo la tv su Rai2, c’è un cartone animato che guardo spesso. Ragazzini usano dei mostri per sconfiggere il male in un mondo digitalizzato che non esiste, non è il loro. Sembra così facile. Tempo fa un mio amico mi ha raccontato che quando è rimasto senza genitori era ancora minorenne, allora l’hanno portato in una casa-famiglia. Insomma, nell’altra stanza c’è il cadavere di mio padre, ma invece che chiamare qualcuno preferisco aspettare la mezzanotte. Non si sa mai. Ho scaldato l’acqua sul fornelletto elettrico, poi ho versato dentro gli spaghettini cinesi. Niente candeline o messaggi di auguri. Ho scoperto che un cadavere impiega qualche ora prima di iniziare a puzzare.
Il poliziotto che ho davanti mi spiega cosa succederà di lì a breve: dovrò lasciare la casa perché non appartiene a noi, era occupata da prima che nascessi. Il comune dovrebbe far fronte alle spese del funerale, fortunatamente il prete si è offerto di celebrarlo, a patto che “il figlio si vesta da uomo”. Ho qualche capello bianco e somiglio vagamente a Ligabue, il cantante. Solo che adesso sono Teresa: con la mia voce da Maria De Filippi rispondo soltanto che non so di cosa diavolo parli il prete. Il poliziotto raccoglie la mia deposizione, mi dà ragione, sanno tutti che quell’uomo è un folle. Stanno portando via il corpo di mio padre. Tra un po’ di tempo (ma in fondo già me lo sento) scoprirò che non ci sarà alcuna funzione e che il cadavere non prenderà posto in nessun cimitero. Il poliziotto mi sta toccando il culo.
A scuola mi hanno bocciata tre volte. Non ci tornerò più. Passo due notti in stazione nutrendomi di sigarette chieste ai passanti, finché non svengo. Mi sveglio in un piccolo accampamento della Caritas: “Puoi restare qui, una sola notte”. Sto piangendo, ma non so il motivo. È l’ultima volta.
Mi accorgo di non avere più lo zaino, sono senza documenti. In pratica, adesso sono nessuno. Mentre cammino di fretta senza una meta, mi blocco davanti una vetrina di Gucci per vedere il mio riflesso: sul collo fino all’orecchio ho una nuova macchia, nera e sfumata sui bordi. È la più grande che mi sia spuntata finora.
Uno mi grida: “Stronzo, vieni qui!” Non faccio in tempo a voltarmi che sento la faccia bruciarmi. Mi ha colpita sulla fronte, vicino all’occhio destro. Non ci vedo. Mi rannicchio come una larva, cerco di parare i calci, sento il ferro in bocca. Non so quanti siano, o forse sono solo rumori di passi di altre persone che cambiano strada. Mi tira in piedi, mi molla un cazzotto sul muso e dopo mi afferra per le caviglie. Adesso sono sicura di essere quasi cieca, ho provato ad aprire gli occhi e ci vedo soltanto da quello sinistro, male. Mi butta dentro a un cassonetto, mentre mi dimeno sento qualcuno ringhiargli e urlargli contro, poi dei colpi (una spranga? Una mazza chiodata?).
Come tirata fuori dall’utero, vengo al mondo, ma stavolta dalla spazzatura. Sono ricoperta di cibo guasto e cavi elettrici, totalmente stordita, mi abbandono a quelle braccia forti. Gianni mi ha detto il suo nome alla nascita: Jane. Ma vuole solo essere chiamato Gianni. Suo padre da piccolo gli raccontava come si comportava con le ragazze: lui avrebbe preferito ammazzare qualcuno e finire in carcere piuttosto che essere trattato in quel modo. Noi due ci siamo capiti fin da subito. Scappa di casa e si mette a spacciare, finché non stringe le amicizie giuste: ora si occupa di noi puttane. Mi trova un alloggio, mi porta da mangiare e del pellet per la stufa. È una casa occupata ma poco importa, qui siamo tutte nella stessa situazione. Scopiamo uomini per sopravvivere, ma non appena finisce tutto io sono solo di Gianni.
Una volta mi ha vista disegnare, allora mi ha portato della carta, tele e colori. Mi abbraccia e bacia il mio occhio morto: “Sei la mia stella”. Mischio i colori, agito pennelli, succhio i cazzi ai clienti, disegno tanti occhi. Dame dai vestiti sontuosi e pieni di occhi. Le seghe hanno il colore blu oltremare.
Va tutto bene. Fino al giorno in cui Gianni non viene più. Se papà non fosse morto, non mi avrebbe mai lasciata in quel modo. Rimango diversi giorni sotto le coperte marce e la polvere. Dalle fessure della finestra entra l’umidità e un po’ di luce, è l’unico modo che ho per capire il passare del tempo. Vedo ombre scorrere, ascolto voci, poi di nuovo silenzio. Mi chiedo se è così che si sentono i lombrichi dentro i bozzoli, prima di diventare farfalle.
Gianni non tornerà. Mi fanno male i polmoni, sputo sangue. L’altro giorno un tipo sdentato con la faccia a forma di ferro da stiro si è presentato alla porta, pattuiamo un incontro in un albergo lì vicino per il pomeriggio. Non sarà da solo, accetto solo perché mi servono i soldi per la farmacia. Una nuova macchia si è manifestata sul fianco. Davanti lo specchio mi riempio di cipria, tentando di coprire il grigiore sul viso. Non sono mai stata tanto brutta. Le macchie si stanno espandendo. Se i clienti le notassero potrebbero far storie, chi cazzo vuole della merce guasta? Mi inciprio, profumo, uso anche i colori per dipingermi addosso, pur di mascherarmi. L’apparenza inganna.
Sento puzza di posacenere e cazzo sporco già dietro la porta. Mi apre un uomo dai grandi baffi, non capisco la sua lingua. Non è gentile, mi tira per il polso e mi porta al cospetto del pubblico pagante. Sono uno più spaventoso dell’altro. Mi chiudono dentro un grosso armadio, schiamazzano, bevono, ridono e fumano, a turno mi tirano fuori per disporre di me. Uno dopo l’altro, mi stuprano e mi scaricano dentro bambini mai nati. Potevo fare a meno di truccarmi.
Dopo non so quante ore, vedendo che non tornano, provo ad alzarmi e uscire da lì. L’anta non è chiusa a chiave, la camera è nelle mie stesse condizioni: un disastro. Mentre esco dall’albergo un ragazzo mi ferma, mi chiede di pagare il conto della camera. Smette di parlare all’improvviso, mi sta osservando, è diventato pallido. Non gli rispondo nemmeno e mi dirigo verso casa.
Coperta dalla testa ai piedi, adesso sono piena di macchie nere. Perdo pezzetti di pelle, è scesa la notte. Smetto di grattarmi convinta che cadranno da sole. Sento i polmoni come se si fossero staccati dal resto degli organi. Entra della luce, vedo un prete. Voglio corrergli incontro, ma sono paralizzata, spalmata sul muro. Urlo, non mi sento più le mani, sono una massa informe, il prete non mi vede. Esce dalla porta. Le pareti stanno perdendo acqua, riesco a specchiarmi su una pozzanghera che si è formata nell’angolo: sembro un livido cianotico che impesta la parete. Non ho più macchie, sono io la macchia. Sono muffa.
Una mattina (lo so perché vedo la luce entrare) degli uomini vestiti con degli scafandri vagano dentro la mia piccola casa, portano via le mie tele e i colori, fanno delle prove per pulire i muri. Il prete li segue: “Lavate tutto, le macchie si possono coprire imbiancando”. Si fa il segno della croce. “Ci vorrà prima il prodotto”, risponde uno degli uomini.
Un baccano continuo precede l’ingresso di un tubo collegato a una macchina, trascinata da due uomini. L’aria è sempre più secca.