Un articolo pubblicato qualche giorno fa sul sito di Rolling Stone ha provocato un’ondata di sdegno nel mondo dei ciclisti che successivamente si è trasformata in una vera e propria campagna di odio contro l’autore del testo – che ha addirittura ricevuto minacce di morte – e la nostra testata. L’articolo, a firma Ray Banhoff, era un’opinione di taglio ironico sui pericoli che corrono i ciclisti a causa dello stato poco favorevole della rete stradale urbana e interurbana in Italia. Si utilizzava il paradosso per descrivere una doppia realtà che dovrebbe essere a tutti evidente. Primo: c’è gente che perde la vita andando in bicicletta. Il fatto, oltre a essere ovviamente gravissimo di per sé, è addirittura assurdo se ci si ferma un secondo a riflettere: morire sulla strada inseguendo una propria legittima passione è intollerabile. È un qualcosa di così aberrante e insensato che dovrebbe assurgere a problema di sistema, se ne dovrebbe parlare cercando soluzioni immediate, dovrebbe avere accesso al dibattito pubblico. Secondo: molti ciclisti adottano comportamenti sbagliati in strada i quali, invece di metterli al riparo da eventuali problemi, li espongono a pericoli ancora superiori rispetto a quelli già esistenti derivati, lo ripetiamo, dal fatto che in Italia le strade siano generalmente poco adatte alla bicicletta.
Queste sono le opinioni che l’autore ha espresso nell’articolo. E allora perché parte del mondo della bici si è scagliato con veemenza contro Banhoff? È semplice. Non hanno capito che il tono del pezzo era un tono ironico. Per quanto possa sembrare incredibile, un pezzo che con tutta evidenza utilizzava il paradosso per descrivere una situazione reale, è invece stato interpretato in modo letterale, ignorandone taglio, linguaggio e semantica. L’ironia, il lemma “ironia“ che si ritrova sul vocabolario Treccani è il seguente: “Dissimulazione del proprio pensiero con parole che significano il contrario di ciò che si vuole dire, con tono tuttavia che lascia intendere il vero sentimento. […] Può avere lo scopo di deridere scherzosamente o anche in modo offensivo, di rimproverare bonariamente, di correggere, e può essere anche una constatazione dolorosa dei fatti o di una situazione”. In questa definizione c’è dentro tutto il pezzo che abbiamo pubblicato e anzi, la verità è che non si arriva nemmeno lontanamente a soddisfarla, il raggio d’azione compreso nella definizione è infinitamente più abbondante di quello che l’articolo di Banhoff raggiunge.
Eppure alcuni non l’hanno capito. Certo, vedendo su quale giornale veniva pubblicato il pezzo avrebbero potuto farsi venire almeno un dubbio. Rolling Stone è, tra le altre cose, notoriamente una testata di campo progressista ed ecologista. Rolling Stone, notoriamente, utilizza diversi toni e livelli di linguaggio, tra i quali certamente trovano spazio le provocazioni intellettuali, le iperboli, e anche una certa dose di irriverenza e sfrontatezza. È nel nostro DNA, fa parte di noi e della nostra “Weltanschauung”, è un patrimonio al limite del libertarismo che rivendichiamo con forza. E certo, in secondo luogo avrebbero anche potuto cliccare sul nome dell’autore per leggere qualche altro titolo della sua produzione articolistica. Peccato, perché per esempio si sarebbero imbattuti in titoli come: “Livorno: d’estate San Diego, d’inverno Chernobyl”. Oppure: “Essere amici dei colleghi? Impossibile”. O ancora: “Al raduno Ape di Pontedera ho capito che per la provincia italiana non c’è speranza”. Tutte sentenze inappellabili e disturbanti, certo, se lette con gli occhiali del letteralismo. In quei pezzi si stava sostenendo che DAVVERO Livorno d’inverno è equiparabile a un posto famoso per essere stato teatro del più grave incidente mai verificatosi in una centrale nucleare? Stavamo sostenendo DAVVERO che i livornesi da dicembre in avanti circolano per strada come bizzarri mutanti a tre zampe? No, non lo si sosteneva. E no, non pensiamo nemmeno che DAVVERO sia impossibile l’amicizia tra colleghi di lavoro. E nemmeno crediamo DAVVERO che la provincia italiana sia da considerare priva di speranza. E se colti da improvviso obnubilamento mentale arrivassimo DAVVERO a pensarlo, di certo non ci saremmo arrivati assistendo a un raduno di motocarri a tre ruote in quel di Pontedera. Quindi, come spero sia ormai evidente, no, non crediamo nemmeno che DAVVERO i ciclisti cadano come mosche o che non sappiano stare in fila indiana o che dovrebbero spostarsi tutti in Antartide per pedalare più serenamente.
Il testo non è stato capito da tutti, ma ormai sono anni che chi fa il nostro lavoro è sceso a patti con questa tanto amara quanto apparentemente ineludibile realtà. Qui però è accaduto qualcosa di diverso. Qualcosa di così grave che, pur non considerando generalmente opportuno spiegare il senso degli articoli o entrare in polemica con chi non è d’accordo o fraintende il significato di un testo, ho deciso di fare un’eccezione, perché il mondo del ciclismo – una parte, ovviamente molti hanno perfettamente compreso – non si è limitato a dissentire. L’autore del pezzo è stato minacciato di morte – di morte! – per quello che ha scritto. Gli sono state mandate fotografie di tirapugni con la dicitura “speriamo di incontrarci presto”. Infine, l’interpretazione fallace dell’articolo è giunta fino al vertice del movimento ciclistico italiano, e cioè addirittura al commissario tecnico della nazionale Davide Cassani, il quale, facendosi interprete del sentimento popolare di indignazione ci ha rivolto una lettera aperta – lettera indirizzata a un fantomatico “Signor Rolling Stone” – con la quale ci accusa nientemeno di essere degli “odiatori” di ciclisti, gente che in pratica vorrebbe vedere più incidenti, e forse a questo punto anche più morti, lungo le strade del nostro Paese. Io non voglio mettere in dubbio la buona fede di Cassani, peraltro so che si è privatamente chiarito con l’autore dell’articolo, ma non posso accettare che un problema di comprensione del testo sfoci in accuse tanto ignobili. Da ct della nazionale, da figura pubblica, e soprattutto da commentatore televisivo, quindi da persona che dovrebbe conoscere le regole della comunicazione giornalistica, ci si sarebbe aspettato quantomeno una richiesta di chiarimento precedente allo sfogo su Facebook. È troppo semplice, ma soprattutto è estremamente irresponsabile, attaccare qualcuno senza nemmeno farsi sfiorare dal dubbio di non aver perfettamente compreso il contesto o sentire l’esigenza di un confronto con chi quel pezzo l’ha pubblicato. Ma è vero che viviamo in tempi strani, tempi in cui la sicumera opinionistica regna sovrana, ben oltre le normali regole di convivenza civile e di confronto tra le parti, dove l’unica cosa che conta è il commento, immediato, sfrontato e definitivo, a patto che sia solo il proprio. Da “testa bassa e pedalare” a “testa bassa e commentare” evidentemente il passo è stato breve, e noi siamo sentimentalmente più affezionati al ciclismo di una volta.
Testa bassa e commentare
Il mondo del ciclismo, con il commissario tecnico della nazionale Davide Cassani in testa, ha attaccato violentemente 'Rolling Stone' per un articolo ironico sui pericoli che gli amanti della bicicletta corrono lungo le strade italiane. La risposta del direttore