Gli uomini, ha scritto una volta Eduard Limonov in uno dei suoi libri, muoiono ininterrottamente. Ragion per cui, dal punto di vista della trama, neppure lui probabilmente darebbe troppo peso alla notizia della sua di morte, avvenuta ieri a Mosca in ospedale dopo una lunga malattia: sono cose che succedono, direbbe adesso se potesse, voltandosi di lato. A 77 anni, con una ventina di romanzi alle spalle, tre guerre vissute come giornalista e come mercenario fra Caucaso, Balcani e Moldavia e qualche mese in cella nel carcere-fortezza di Lefertovo, ha passato gli ultimi tempi nella consapevolezza decisamente confortevole di essere il più grande fra gli scrittori russi, quantomeno fra i viventi. Con gli altri, con i morti, aveva poco da spartire. Il tempo non ne aveva fatto un santo come Dostoeveskij, e neppure un martire come Solzhenitsin: Limonov stava invecchiando come t’immagini che invecchino i punk, con le tempie rasate, gli occhi spalancati e gli occhiali calcati appena sopra al naso. Somigliava vagamente a Leon Trockij, del quale apprezzava il pensiero. Portava un anello alla mano sinistra con il volto di Mussolini, per il quale nutriva un ambiguo rispetto. Diceva che tutto sommato non aveva più alcun senso parlare di rivoluzione, soprattutto in Russia al giorno d’oggi.
A Mosca Limonov viveva in un appartamento che aveva preso in affitto al quinto o sesto piano di una palazzina in centro, dalle parti della stazione Belorussky. Il citofono era spessa rotto, quindi mandava in cortile ad aspettarti un ragazzo sui trenta di nome Sergei con la camicia aperta e una grossa croce d’oro che rimbalzava a ogni scalino sul torace depilato. Sergei gli faceva da assistente, da guardia del corpo e chissà cos’altro. Prima ti guardava da vicino per evitare di perquisirti e poi ti salutava. Bel tipo cinematografico, Sergei. A casa sua, Limonov dava l’impressione di tenersi a debita distanza dal passato. Aveva uno scaffale per i libri, due ritratti alle pareti e un paio di foto della Bosnia appese sopra al computer. Era come se la mercanzia messa insieme in cinquant’anni di bravate a Gudauty, sul Mar Nero, a Parigi, Gare du Nord, e Tompinks Square a New York dovesse arrivare da un momento all’altro a destinazione. Ma la mercanzia semplicemente non c’era, o l’avevano perduta quelli delle spedizioni in qualche naufragio lungo la rotta. Con i figli non aveva rapporti. A seconda delle versioni, ho sentito che ne avesse quattro, cinque o addirittura sei. La prima moglie, Elena, che vive a Roma, aveva rifiutato d’incontrarla a dicembre, durante il suo ultimo viaggio in Italia.
Era tornato per pochi giorni e soltanto per presentare un libro che era appena stato tradotto, ma anche Roma, in effetti, Limonov se la sarebbe evitata volentieri. Forse è per averci fatto la fame, a metà degli anni Settanta, quando tirava avanti a Trastevere con i soldi del Fondo Tolstoij per giovani scrittori aspettando di partire per gli Stati Uniti: 122.000 lire al mese, sessanta succhiate da una certa Francesca per una stanza fredda, con il lucchetto al telefono e la doccia una volta a settimana. Oppure per i giovanotti vanitosi che nonostante tutto, nonostante quella povertà schifosa, nei giorni di festa, verso sera, uscivano da caseggiati indecenti con le giacche strette, le camicie di seta e i pantaloni stretti al sedere. Leggendo Fomenko e Nosovskij e le loro tesi parastoriche si era convinto che Roma fosse un imbroglio e per di più maleodorante, che nessun impero era mai esistito lungo le rive del Tevere e che in fin dei conti la città fosse un campionario di edifici in rovina e di rovine isolate, di colonne, pareti e pavimenti che per giunta cominciavano a crollare: Roma si fa pagare da chi vuole guardare le sue pietre apparentemente antiche, questo e niente altro, se non un vago senso di putrefazione.
Con la morte, come detto, e con i morti e con i segni premonitori Limonov aveva maturato una certa fratellanza. “Nessuno dovrebbe opporsi al destino”, è la cosa migliore che gli abbia sentito dire: credo che sia un modo molto russo di guardare alle cose. Non credeva di essere uno in grado di prevedere il futuro, ma di sentirlo arrivare, beh, quello senza dubbio alcuno. A persone morte, poco importa se le avesse conosciute o meno, aveva dedicato decine di racconti che si trovano in un paio di volumi pubblicati in Russia. “Sì, Morte!” era il motto del Partito Nazional-Bolscevico, il movimento estremista che aveva fondato il Primo di maggio del ’93, quando la Russia somigliava tanto a un grosso rave a cielo aperto con oligarchi, mafia armena e droghe sintetiche. Quelle imprese gli hanno portato una certa popolarità in Europa, non fosse altro per avere fatto la sua parte contro Putin, una popolarità che è cresciuta con la biografia dello scrittore francese Emmanuel Carrère, che Limonov riteneva comunque nient’altro che un “borghese”, e nei confronti del quale nutriva parecchia diffidenza. Pochi giorni prima di entrare in ospedale Limonov ha fatto sapere sul suo blog di avere chiuso un nuovo libro. Il libro dovrebbe chiamarsi Il vecchio viaggia: neppure una parola sulla malattia. In fondo, tutti muoiono. Senza eccezione.