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Viola Di Grado: «Vivo in terza persona, anche quando faccio sesso scrivo»

Enfant prodige della letteratura, tradotta in tutto il mondo, a soli 33 anni parla giapponese, cinese e islandese, colleziona bambole rotte e si sente un'extraterrestre. Abbiamo parlato con Viola Di Grado

Tutte le foto di Corrado Lorenzo Vasquez

Immaginate di essere costretti a vivere in terza persona e che ogni vostra azione o decisione non possa prescindere dalla parola scritta. Sono in tanti a dichiararlo, molto più difficile (o veritiero) metterlo in pratica. Ma c’è chi, invece, non ne può fare a meno e nell’applicare questa “tendenza”, o se vogliamo avventurarci in definizioni più spirituali potremmo chiamarla “vocazione”, è capace di farsi condurre dalla letteratura su strade impervie fino alle estreme conseguenze. Parliamo della scrittrice Viola Di Grado, enfant prodige della narrativa – il primo racconto a 5 anni e a 23 la più giovane vincitrice del Premio Campiello – e ora una delle autrici italiane più tradotte al mondo, che abbiamo raggiunto nelle campagne del Kent, a sud-est di Londra, dove vive a fasi alterne. 

Nata a Catania, 33 anni, figlia della giornalista e scrittrice Elvira Seminara e del critico letterario Antonio Di Grado, esordì con Settanta acrilico trenta lana. “Una prosa scintillante”, “una lingua incredibilmente inventiva”, “ricca di stupefacenti formulazioni liriche” commentarono il New York Times, Le Figaro e Der Spiegel. A seguire altri romanzi uno più potente dell’altro: Cuore cavo, Bambini di ferro e Fuoco al cielo, accolti da sperticati elogi che arrivarono a sfiorare il misticismo: “Ha fatto il miracolo” sentenziò Panorama. 

Quel che è sicuro, non si offenderà, è che Viola non è mai stata normale. Lei stessa si è qualificata come un “extraterrestre”. Non era una bambina normale, e verso questa diversità i compagni di classe “erano cattivissimi, solo che allora non avevamo le parole adatte per descrivere il bullismo”; non era una adolescente normale, lo hanno capito i fidanzati visto che “mi capitava di fare sesso e a un certo punto dover smettere per annotarmi una frase”; non è una donna normale, perché dopo essersi laureata in lingue orientali – giapponese e cinese contemporaneamente, forse l’unica in Italia – ne ha aggiunta un’altra in letteratura inglese e, non contenta, come terza lingua ha imparato l’islandese. Vi sembra normale? Eppure, meno male che ha coltivato la sua anormalità.

Anche nel mondo dell’editoria non è per niente comune, dal momento che i suoi libri vendono a prescindere da una ricerca letteraria estrema. Non crediate, però, che sia una intellettuale con la testa fra le nuvole. Perché se in politica non si sente rappresentata, e come potrebbe di fronte a tanta mediocrità, sul fronte dei diritti civili si batte con vigoria. Forse, per inquadrarla meglio, è necessario attingere dal suo amato oriente e in particolare dalla figura del samurai, costantemente alla ricerca della perfezione, nonostante il mondo intorno appaia sempre più in declino. 

C’è un momento che pensi abbia segnato la tua infanzia? 
Il momento in cui ho deciso che avrei scritto ogni giorno della mia vita. In quel momento la mia frustrazione rispetto all’interazione con i coetanei era disastrosa. Mi sentivo molto diversa e loro mi percepivano come tale. C’era una differenza atavica di identità. Come fossimo animali diversi, con pensieri e linguaggi incompatibili. Da bambini è troppo presto per sentirsi orgogliosi delle proprie peculiarità, si vorrebbe solo comunicare con gli altri e i miei compagni mi facevano notare costantemente, tra una cattiveria e un colossale fraintendimento, che eravamo di specie diverse. Così, un giorno, a circa 8 anni, ho deciso di redigere un patto, firmato e controfirmato da me in una sorta di sdoppiamento (che probabilmente è quello scrittrice-persona), in cui affermavo che fino ai 17 anni, che per me era forse l’inizio dell’età adulta, non avrei più parlato con nessuno ma soltanto scritto. Per fortuna non ho mai seguito il patto, ma ne ricordo la profonda e religiosa serietà. L’ho anche mostrato a mia madre che naturalmente non ne fu affatto contenta. 

La scrittura come unica via di salvezza? 
Sì, ero triste, mi sentivo isolata dagli altri bambini. Scoprire la scrittura è stato fondamentale, come trovare la geografia del mio mondo perfetto e irraggiungibile, era solo troppo presto ovviamente per pensare che sarebbe diventata una professione: lo sentivo piuttosto come un aspetto intrinseco di me, come quello di essere una donna o un mammifero. Da quel momento ho sempre portato con me un quaderno, come una persona asmatica si porta l’inalatore. Era il mio salvataggio dalla vita. 

Hai parlato di isolamento da parte dei tuoi coetanei, oggi si potrebbe definire bullismo?
Erano molto violenti. Non fisicamente, ma psicologicamente sì. Un’incredibile e pervasiva cattiveria diretta solo a me. Oggi non sarebbe così, per fortuna, perché nel 2020 il bullismo è un problema riconosciuto e dovutamente affrontato. Allora non c’erano le parole adatte e dunque, dove non arriva il linguaggio, non è possibile nemmeno osservare il problema.

In che modo si dimostrava questa “cattiveria”? 
Per esempio, quando gli insegnanti, peggiorando le cose, ogni tanto mi davano compiti diversificati e più creativi. Anziché commentare i libri, a me assegnavano la realizzazione di un fumetto su un capitolo. La maestra, contenta, lo faceva poi girare tra i banchi, ma i miei compagni di classe lo pasticciavano, lo strappavano e lo distruggevano. 

Hai dichiarato di sentirti prima una scrittrice e poi una persona, cioè di ragionare “in terza persona”. Se in letteratura porta degli indubbi vantaggi, nella vita di tutti i giorni credo possa portare anche dei problemi, o sbaglio?
È la verità, anche se alcuni non ci credono. Un po’ questa tendenza si è smorzata con gli anni, ma all’inizio era fortissima. Tutto ciò che vivo e faccio me lo racconto contemporaneamente nella mia testa, immagazzinando dati per trasformarli in scrittura. La mia esistenza è solo uno strumento narrativo e questo rischia di impoverirne il valore. Ma è un processo a cui sono affezionata, perché fin da piccola mi ha protetta dalla brutalità degli altri e delle mie stesse emozioni. Crea una distanza molto forte dalla realtà, una distanza che coltivo fin da bambina. È una specie di scafandro che ti allontana dagli altri e ti preserva. Le conseguenze più estreme mi sono accadute con alcuni fidanzati che non capivano questa propensione. Mi capitava di fare sesso e a un certo punto di dover smettere perché dovevo annotare una frase sul quaderno.

I tuoi genitori sono la giornalista e scrittrice Elvira Seminara e il critico letterario Antonio Di Grado. È mai stato un fardello avere dei genitori così inseriti nell’ambiente culturale? 
In realtà per niente. Mia madre ha fatto la giornalista per tutta la vita e ha esordito come scrittrice due anni prima di me. Quindi abbiamo quasi esordito insieme. Mio padre viene da un altro mondo, perché scrive saggi e non romanzi, ed è un professore universitario. La scrittura non l’ho percepita come qualcosa che seguisse le loro orme ma come qualcosa di completamente mio. 

C’è da dire che non hai mai seguito la via più semplice, a partire dagli studi. Sei laureata in Lingue orientali, cinese e giapponese. Come mai una scelta così particolare?
È stata casuale. L’unico pregresso è che mio padre, per un periodo critico cinematografico, mi faceva vedere i classici, fra i quali tutti quelli di Akira Kurosawa. Avevo circa 3-4 anni e mi sono rimasti, come ricordo lontanissimo, quei colori evanescenti, le geishe, immagini astratte che mi si erano installate dentro. Solo che fino a pochi giorni dalle iscrizioni universitarie non avevo pensato a cosa studiare, perché come al solito ero immersa in qualcosa che stavo scrivendo, quindi non me ne fregava nulla. All’ultimo momento, dovendo decidere e avendo come unica certezza, a parte che un giorno dovrò morire, che sono ossessionata dal linguaggio, mi sono detta: studierò le due più lontane dalla mia, cinese e giapponese. Tra l’altro era quasi ovunque impossibile studiarle insieme. 

E come hai fatto? 
Erano considerate troppo difficili, solo a Torino era permesso studiarle insieme in modo approfondito. Nel frattempo, siccome non riuscivo ad abbandonare i miei scrittori inglesi preferiti, ho fatto anche tutti gli esami della laurea in letteratura inglese. 

Piuttosto strabiliante.
Anche se prima non sapevo niente di quelle lingue me ne sono innamorata perdutamente. Dell’universo degli ideogrammi, del modo più intimo in cui descrivono la realtà. Come terza lingua ho poi aggiunto l’islandese perché suona come grandine ed è una lingua purissima, che si è evoluta poco nel tempo. 

Hai definito il Giappone un luogo “ricco di solitudini”, dove “la linea di confine fra umano e non umano è molto sottile”. Cosa ci può insegnare e cosa invece dobbiamo temere di quella cultura? 
In estrema sintesi, possiamo imparare la visione animistica. Perché la sensibilità shintoista nipponica attribuisce un’anima a ogni cosa. Non solo agli animali, anche alle piante e agli oggetti. Hanno un’enorme e affettuosa considerazione per il mondo intero, a differenza della cultura antropocentrica dell’Occidente. Da temere, invece, c’è un aspetto inquietante e che li porta in pericolo, e cioè che mettono l’individuo al secondo posto rispetto al gruppo. Ha un sacco di conseguenze devastanti, come l’altissimo numero di suicidi, perché appena una persona pensa di non essere più utile alla società si uccide. Poi ci sono gli hikikomori, i ragazzi che si chiudono nella propria stanza perché si sentono inutili alla collettività  e non vogliono più uscirne. 

Ho letto che hai un rapporto complicato anche con Londra, dove vivi. 
È una specie di amore-odio. La amo moltissimo come si amano le parti di sé più turbolente. Così negli anni mi sono trasferita varie volte. Londra è ostile, aggressiva, furiosa, violenta e nello stesso tempo piena di tutta la vita possibile. Già Samuel Johnson diceva: “Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita”.

Poco tempo fa ti sei trasferita per un dottorato con borsa di studio, ma ho sentito a un incontro pubblico che lo hai lasciato. C’è un motivo particolare?
Sì, mi sono resa conto, per quanto ami moltissimo la materia su cui stavo lavorando e cioè il buddhismo giapponese premoderno, che non mi piace la ricerca in sè. Cioè, per me la ricerca deve avere una funzione creativa, diventare materiale dei miei romanzi. 

Immagino l’avrai già sostituita con qualche altra attività. 
Sto lavorando a tre romanzi contemporaneamente, che è una vera follia. E poi ho una raccolta di poesie che si rifiuta di uscire dal mio computer. È stata pubblicata solo in tedesco su una rivista austriaca, per cui non ha senso che non esca in italiano, mi devo solo convincere. 

Hai scritto sui social che, insieme alla borsa di studio, hai lasciato anche un fidanzato. Quando cambi attività sei radicale anche nei rapporti umani?
La vita è fatta di cerchi autoconclusivi. Se taglio un filo, li taglio tutti. Dalla geografia al sentimento. Lui era texano e convivevamo a Londra, era un mio collega e studiava zoorastrismo. Smettendo di amare lui ho smesso per un po’ di amare Londra. 

Hai scritto su Facebook: “Mi chiedo come sia organicamente possibile socializzare e respirare e ridere su quei mini-trampoli da tortura cinese” Ti riferivi ai tacchi a spillo.  
Raccontavo un’esperienza faticosa. Avevo preso un aereo di notte a Reykjavík, ero stanchissima, e arrivata a Torino ho pensato di mettermi dei tacchi a spillo mai provati prima. Durante quella cena sono stata malissimo. Non capisco come facciano le altre a portarli. Dipenderà dalla sopportazione a cui sono state educate le donne per secoli. Da allora mi rifiuto e preferisco portare i miei soliti anfibi. 

Quando una scrittrice si veste di nero e ha un certo successo viene subito definita una dark lady. Tu ti ispiri a qualcuno, oppure è tutto frutto della tua ispirazione? 
Non mi sono mai ispirata a nessuno, perché per me la creatività deve essere distruzione e poi ricostruzione da zero. Una roba da fenici (che risorgono ma prima si buttano nel fuoco). Per questo non ho mai avuto un modello. 

Neppure dal punto di vista letterario? Quando è uscito il tuo primo libro ti hanno associata ad Angela Carter, Jack Kerouac, Virginia Woolf.
Modelli no, ma naturalmente amo molto vari scrittori. Sono lusingata dai paragoni e Virginia Woolf è il mio mito assoluto. Amo molto anche Rilke, Amelia Rosselli e la narrativa giapponese classica. Angela Carter non l’avevo mai letta e quando ho recuperato mi sono riconosciuta nel suo modo di stravolgere la realtà, lei è davvero strepitosa. 

A 33 anni sei una scrittrice affermata, come hai raccontato non ti mancano gli impegni, però da qualche tempo ti sei messa a disposizione degli esordienti come “writing coach” in incontri che hai chiamato “capanna zen”. Da cosa nasce questa nuova esperienza? 
Mi sono resa conto attraverso i corsi che ho realizzato, di filosofia cinese e giapponese applicati alla stesura del romanzo, della funzione terapeutica della scrittura. È straordinaria. Rispetto ad altre forme d’arte manuali che ti fanno uscire da te stesso, come la pittura, con la scrittura devi sostare in te e dunque fai ordine nella tua testa. È come andare in psicoterapia. Ho notato che gli studenti ne traevano dei benefici non solo nella scrittura, ma anche nella vita. E così mi è venuta questa idea e poi mi sono accorta di aver inventato una figura che non c’era. Il “writing coach” esiste, come l’editor, invece io ho inventato una figura che definisco “scriboterapeuta”. Lavoriamo sulla scrittura, ma prima che sul testo lo facciamo sul gesto. Il gesto della scrittura, che sbroglia i nodi della mente. Le persone che partecipano, infatti, vogliono trovare il modo di affidarsi alla scrittura prima di tutto per stare meglio. Una di loro mi ha definito “psicologa della scrittura”. 

Sempre sui social, hai scritto che “a volte la gentilezza è un modo di porgere agli altri un vassoio su cui decapitarti”. Ti riferivi a chi ti chiede di leggere i suoi scritti o una recensione. 
Ci penso spesso perché mi è capitato tante volte. Mi contattano, non solo per avere recensioni, e se rispondo con gentilezza mi attaccano. Sembra illogico, però è accaduto spesso. Mi ha fatto pensare che la gentilezza è un bene prezioso che non va dilapidato: può tramutarsi in una arma affilata contro di te. Devo preservarmi, cosa che non sempre mi riesce bene, nonostante lo scafandro di cui sopra. 

A partire da Settanta acrilico e trenta lana e poi in tutti i tuoi romanzi successivi i temi dominanti sono stati “incomunicabilità” e “alienazione”. Nascono dalle esperienze personali che hai descritto nella tua infanzia? 
In parte sì, sicuramente. Ho vissuto come se fossi una extraterrestre caduta da un pianeta ignoto, sempre in cerca di un modo di respirare quest’aria che non era per me. Però, allo stesso tempo, parafrasando Carver, anche se i miei romanzi sono me, io non sono i miei romanzi.

Una aliena che, come accade magicamente in letteratura, sembra avere capacità profetiche. Bambini di ferro racconta di un mondo “dove il gesto d’affetto non è più scontato, quindi deve essere ricreato artificialmente”, mentre Fuoco al cielo è ambientato in una città segreta sovietica contaminata dalle radiazioni e lì, nonostante tutto, è possibile l’amore verso un essere indefinito. Sembra quasi tu abbia scritto della pandemia attuale.
Un po’ tutta la letteratura ha qualità profetiche. Non scriviamo solo di quello che è già successo ma anche di quello che succederà. Basti pensare a Philip Dick, a come ha raccontato la nostra era mentre lui viveva la sua. Per i cinesi esiste un’unica linea del tempo: non esistono il passato, il presente e il futuro ma un unico fiore di cui non possiamo vedere le radici. 

Ma la pandemia che ci ha investito, credi possa aver rubato un po’ di fantasia agli scrittori? 
Forse ha rubato la fantasia agli scrittori, ma cosa ancora più grave è che noi abbiamo rubato tantissimo alla natura e agli animali. Non siamo certo pari. Non è possibile espiare tutto il male che facciamo agli animali, massacrandoli e divorandoli.

Sei una delle autrici italiane con maggiori fortune editoriali e più tradotta all’estero, nonostante temi non edificanti e una ricerca letteraria estrema. Prendendo spunto dalla tradizione giapponese, ti senti un po’ un samurai? Cioè come quei guerrieri, resisti nella tua ricerca della perfezione nonostante il mondo intorno appaia in costante declino?
Assolutamente sì. Mi sento una samurai, o una guerriera. Mi sono sempre battuta per scrivere come volevo e per difendere la letteratura. Sono stata anche fortunata incontrando persone che non mi hanno mai chiesto di scrivere qualcosa di diverso, ma a prescindere da chi incontrerò non cambierò minimamente la mia rotta. Sì, la letteratura perde sempre più il suo ruolo sociale e salvifico e oggi è legata a un discorso monetario, e noi scrittori siamo costretti ad accettare che sia periferica rispetto al passato, ma io continuerò a seguire me stessa e ciò che voglio esprimere. 

In politica ti senti rappresentata? 
Per niente. È un linguaggio in cui non mi sono mai sentita rappresentata. 

Non vai a votare? 
Alcune volte sì, altre no. Adesso non so più dove sia la tessera elettorale. Il problema è stato più geografico che ideologico, perché raramente mi sono trovata in un posto in cui potevo votare. Se non ero in una fattoria sperduta in Islanda ero a Shangai o in un villaggio giapponese o lappone. La convergenza di me nel posto giusto per votare è accaduta raramente e da un lato mi dispiace. 

Se ti proponessero un ruolo politico, accetteresti? 
Non ci ho mai pensato, ma sarebbe come prendere un alieno e metterlo sulla Terra a parlare il suo linguaggio a dei terrestri. Magari fra qualche anno darei una risposta diversa, perché mi sembra di cambiare costantemente e anche perché ci sono questioni che sento moltissimo, come quella dei diritti civili, e se possono fare qualcosa mi impegno volentieri. 

Da Lilli Gruber a Otto e Mezzo, all’organizzatore del Family Day Massimo Gandolfini, rispetto alla sua visione di “naturale” sui diritti civili hai risposto: “Anche il cancro è un fenomeno di natura, quindi dovremmo accettarlo senza curarci?”. 
Questa difesa del “naturale” a tutti i costi è puerile e ascientifica. Primo: non tutto ciò che è naturale è positivo (come appunto le malattie). Secondo: come si fa a stabilire cosa è naturale e cosa non lo è? E’ un dualismo non solo banalizzante e retrogrado ma anche errato, perché in natura l’omosessualità è comunissima. La lacuna dei diritti civili delle coppie omosessuali (e dei loro figli) in Italia rispetto al resto dei paesi civilizzati è un’ingiustizia gravissima di cui, da italiana, mi vergogno profondamente. 

Tu vivi sola, a questa condizione aggiungi una naturale solitudine dello scrittore, solo che adesso sono arrivati anche il lockdown e il distanziamento sociale. È Forse troppo anche per una persona solitaria come te?
Storicamente la troppa solitudine negli scrittori ha generato grandi ispirazioni. Emily Dickinson non aveva bisogno d’altro che della sua stanza e Philip Roth ha affermato che sfogliare un libro non è meno vitale di un viaggio. Murasaki Shikibu, autrice del primo romanzo psicologico del mondo nell’anno 1000, non usciva mai. Io in realtà viaggio (o viaggiavo, prima del covid) in modo intenso ed esagerato, tra una residenza per scrittori e l’altra. Amo molto la mia solitudine e l’ho sempre protetta, è una forza poetica e pervasiva che mi accompagna da quando sono nata e mi seguirà fino a quando morirò. 

C’è una follia che hai fatto nella vita? 
Ne ho fatte tante, infatti di solito gli amici dicono di me che sono molto imprudente. Per esempio, quando sono stata in Egitto, invitata a un festival, volevo assolutamente andare nelle “città dei morti”. Si tratta di cimiteri islamici dove vivono persone molto povere. Mi avevano affidato una guida e così le ho chiesto di accompagnarmi e lei mi ha assolutamente sconsigliato, perché all’interno non vale la legge ed è consentito di tutto. Mi sono impuntata, solo che neanche il Taxi ha voluto portami. Ma ero così decisa che sono riuscita a convincere la guida ad accompagnarmi comunque a piedi. Quando sono arrivata, ho notato una bambina seduta tra le tombe coloratissime che stava tagliando delle enormi foglie verdi. Una visione molto bella, così siccome ho la passione della fotografia ho estratto la reflex. Quando ho iniziato a scattare, però, suo padre da lontano mi ha visto e, prima ha urlato qualcosa, poi ha iniziato a inseguirmi con un coltellaccio enorme. Mi voleva ammazzare! Quel giorno ho rischiato la vita. Adesso sono un po’ più prudente. 

C’è invece qualche soddisfazione che ti sei tolta con i soldi che hai guadagnato? 
Io ho una vera fissazione per le bambole rotte. Nei mercatini non le compra nessuno, persino i collezionisti non le vogliono perché costa molto ripararle. Sono quelle antiche e a pezzi, con gli occhi spiaccicati e gli elastici che escono. Ho una vera passione per loro e quando le vedo provo un sentimento fortissimo che mi spinge a salvarle dalla trascuratezza e dall’abbandono. Ho una quantità enorme di bambole rotte che prendo in giro per il mondo, le pulisco, le rimetto in sesto e loro riempiono le case dove vivo. Le costruisco, anche. Il lockdown precedente l’ho passato tutto a fare bambole. 

Ti manca essere madre? 
Ti rispondo che mi sento madre della gatta che ho attualmente e di quelle che ho avuto prima di lei. 

Cuore cavo è stato definito “una mappa geografica della morte”. Hai paura della fine? 
Non ho paura della morte. A volte mi fa paura l’idea di essere già morta, perché dopotutto non sappiamo quali saranno le nostre percezioni dopo la morte. Mi spaventa di più la mia testa: i pensieri apocalittici che è in grado di produrre. 

In un disegno della tua infanzia che hai condiviso su Instagram eravate raffigurate tu e tua madre e la didascalia recitava: “C’era una volta due bambine Elvis e Viola che potevano volare”. Quel superpotere era una metafora della scrittura?  
Era l’immaginazione! Mia madre mi ha insegnato a trasformare le cose attraverso la creatività, anche la mia stessa vita. 

Non resta che salutarci, se vuoi puoi farlo in islandese. 
Við sjáumst!

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