C’è una consapevolezza improvvisa che hai, guardando Django, la nuova serie Sky Original prodotta da Sky e Canal+, dal 17 febbraio in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW, fino alla quarta puntata, in cui compare Franco Nero. Compare nella parte di un reverendo che al protagonista, suo erede ed emulo (non è la prima volta che gli capita di stare nella stessa scena con un altro Django, ricordate tutti il suo cameo in guanti bianchi accanto a Jamie Foxx in Django Unchained di Tarantino), dice che l’odio non è la via. Quasi questa serie fosse un sequel in cui il Django originale ha cambiato vita e prova a salvare quell’uomo, così simile a lui, dagli errori che lui ha fatto decenni prima.
Quella consapevolezza, che ti colpisce forte come qualcosa che hai sempre avuto sotto gli occhi e però non hai mai capito, è che Francesca Comencini, direttrice artistica della serie e regista dei primi quattro episodi (gli altri se li dividono David Evans ed Enrico Maria Artale), è sempre stata una regista western. Provate a rivedere il suo Gomorra, inteso come serie: è un western metropolitano dall’inizio alla fine. E quando girava i suoi documentari, quando raccontava una fabbrica o l’Italia corrotta e persino Lo spazio bianco: cos’era quel film dolente, rarefatto e doloroso, se non un duello leonian-morriconiano con se stessi e i propri fantasmi? «Me lo avessi detto anni fa, non ci avrei creduto. Devo ringraziare Stefano Sollima (tra i registi della prima stagione di Gomorra – La serie, nda), lui se n’è accorto, lo ha capito molto prima che io potessi solo immaginarlo. Mi ha offerto una svolta nella carriera di cui gli sarò sempre grata: non so cos’ha visto in me, credo la voglia di imparare, lo stile dei miei documentari e il gusto per una certa ruvidezza di racconto e di caratterizzazione dei personaggi. Stefano è un genio e un uomo dalla mente aperta, uno che banalmente capì che Donna Imma aveva bisogno di uno sguardo femminile in tempi non sospetti, e che ha intuito che adoravo il genere».
Mentre parli scopri che Francesca Comencini ha quasi un’idolatria per Sam Peckinpah. «Sì, per me è un riferimento, rappresenta ciò che amo di quel tipo di racconto. Comunque hai ragione, nasce tutto da Gomorra: arrivai per girare due puntate su Donna Imma, anche timidamente, e poi ho finito per fare un’intera puntata western e per metterci qualcosa di questo genere in tutti gli episodi che ho girato. E mentre mettevano in produzione Django, vedendo Gomorra, mi hanno detto: “Ma vuoi esserci? Sembra fatto apposta per te”. E non a caso in sceneggiatura trovi Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, presenti anche nella serie precedente».
Triangolando Tarantino, Corbucci e Comencini, capisci che la spettacolarizzazione della violenza – quasi giocosa e sopra le righe nel primo, feroce e arrogante nel secondo (pensate alla scena iconica di Django-Franco Nero che esce dalla bara con il mitra) – è un segno comune, un filo rosso, ma che in lei ha una profondità in più. Te ne rendi conto nella prima scena d’azione – ce ne sono molte, anche complesse, e tra le migliori del genere – in cui Django (qui interpretato da Matthias Schoenaerts) si presenta come forte fisicamente ma fragilissimo dentro. Una scazzottata che inizia come feroce e che finisce con dei pugni dati al vento da parte di chi non vuole uccidere, se non per la giusta vendetta, ma ha un odio che lo divora e lo macera. «Rappresento, rappresentiamo la violenza, realisticamente, ma anche in tutto il suo essere ridicola ed enfatica», spiega Comencini. «Non ho mai smesso di tentare di mettere in scena le contraddizioni del protagonista, del genere, di una storia che doveva avere la profondità di un mondo che è passato dall’osanna propagandistica degli albori al massacro di quello stesso mito dei cineasti outcast, da Leone a Peckinpah, passando per lo stesso Corbucci: lo spirito politico non volevamo metterlo in facile metafore ma dentro questa lacerazione, tra il West come conquista di una generazione che potresti paragonare agli hippy e il peccato originale di un Paese che sulla violenza ha costruito la sua presunta libertà. E poi c’è una destruttutrazione dell’eroe maschile, in favore di una fragilità animalesca imprevedibile e tenerissima che Matthias Schoenaerts ha saputo restituire perfettamente. È una delle cose che più amo del mio Django, aver costruito con questo grande attore un personaggio che sa essere uragano e colomba».
Alla violenza come simbolo di dolore e contraddizione e alla destrutturazione del machismo col cappello i due registi uomini che hanno reso Django un’icona ci erano arrivati solo in parte probabilmente solo per caso; anche se Corbucci e Comencini condividono la stessa fortuna, quella che Leone, vedendo Franco Nero, confessò al primo: “Hai fatto 13 al Totocalcio”. «Sì, è vero, Tarantino ci arriva nella parte più autoironica, nel primo Django c’è più sottotraccia», concorda la regista del Django “made in Sky”. Fa un certo effetto vedere queste dieci puntate, ricche per produzione e scene madri, per momenti action e ricostruzioni da kolossal. Franco Nero, qui appunto in un cameo, racconta che con Sergio Corbucci la situazione era tutt’altra: «È stato un miracolo, lo abbiamo fatto senza una lira quel film, completamente all’arrembaggio». E chissà se per voglia o necessità tutto sembrava fuori posto, sgarrupato, lontano dai cowboy da pubblicità delle sigarette che avevano sovrappopolato i western di Hollywood. «Una sensazione, un’ambientazione che non volevo neanche io», prosegue Comencini. «Della cifra estetica di quell’opera ho voluto tenere il fango – era ovunque, si attaccava addosso anche allo spettatore – quel grigio bagnato che cozza con le opere più epiche del genere, questa città grandiosa, New Babylon, ma storta e fatiscente, fuori dalla classicità del western, un’ambientazione che sentivo perfetta allora come adesso». E che Francesca Comencini e la produzione non hanno esitato a ricostruire per intero alle pendici del vulcano inattivo di Racos a Nord di Barasov, in Romania.
«Era obbligatorio ricostruire tutto – la cittadina della villain Noomi Rapace ha sfruttato teatri di posa di Bucarest che già avevano ospitato cinema di questo tipo – non potevi trovare un’atmosfera così in qualche set già usato o in qualche città abbandonata, figuriamoci se era possibile farlo con la CGI. Noi volevamo l’imperfezione, ne avevamo bisogno, serviva la profondità dello sguardo dello spettatore e del mondo che popolavamo. Pensando a Manuel Agnelli, che qui è Oscar ed è stato una delle tante belle sorprese di questo lavoro, io volevo il rock. E come quando sento un grande gruppo che suona questo genere, voglio sentire gli strumenti, la forza e l’emozione con cui vengono suonati, non solo la tecnica fine a se stessa». Agnelli è una delle tante scelte di cast di altissimo livello. E pure Noomi Rapace è qui a livelli incredibili: «Lei è pazzesca», confessa Comencini, «la mia preferita, ha una capacità quasi sovrumana di rendere la cattiveria e la fragilità del suo personaggio come nessun’altra potrebbe».
Bravissimi Thomas Trabacchi e Vinicio Marchioni, Nicholas Pinnock maestoso. E Francesca Comencini se ne intesta giustamente il merito. «Non ricordo se stavo vedendo X Factor», dice parlando di Manuel Agnelli, «ma mi capitò davanti in tv e capii che doveva esserci. Amo la sua musica, i suoi live, sono un’ammiratrice. Ma sul set ho scoperto un attore pieno d’abnegazione, che mi diceva continuamente, dopo essere entrato nella scena della sparatoria della casa, la più difficile – alla fine di quel giorno ero stremata – “Non ti accontentare, rifacciamola, non ti accontentare”. Ha studiato tantissimo e secondo me può fare molto al cinema». E in fondo, se Sam Peckinpah ha avuto il suo Signor Nessuno che simboleggiava l’ideale del West, è giusto concedere a Francesca Comencini un’icona come Manuel Agnelli a simboleggiare il suo.
Tornando a quella New Babylon ricostruita pezzo per pezzo, Francesca Comencini confessa che «a differenza del cast e della troupe io dormivo lì, avevo bisogno di sentire quel set, di vederlo con tutte le luci, con ogni mio sguardo, sentirne il freddo, la pioggia. Qualche volta è rimasto anche Matthias». E qui c’è un altro punto di contatto. Tra l’abnegazione di Franco Nero, uno che per fare il cinema che voleva, come ha raccontato a Rolling Stone, ha persino convinto Jack Warner a strappare un contratto che altri sognano per una carriera intera, e Matthias Schoenaerts, che non ha mai cercato la fama ma solo ruoli sempre più complessi. E se il Django di Nero “è un figlio di una mignotta”, come lo definiva Corbucci, la Comencini il suo lo considera «un vincente che, come tutti gli antieroi davvero western, arriva alla fine sconfitto, devastato».
Una storia potente e che, con un ritmo suo, sa tenerti incatenato alla poltrona. Anche grazie a un cast perfetto che sul set è diventato una squadra. «Il cast è stato meraviglioso, anche per la generosità e la grandezza degli attori più esperti e conosciuti che hanno trattato i ragazzi come dei pari, responsabilizzandoli tantissimo, e questo in loro ha portato una devozione totale. Pur essendo esordienti o quasi, discutevano sempre dei loro personaggi, rimanevano anche nei giorni in cui non erano in scena o quando potevano essere sostituiti da stunt. Imparavano ad andare a cavallo anche per una sola posa». E di sicuro ne è il simbolo il protagonista, che si carica la serie sulle spalle, soprattutto la parte più dolente e complessa.
«Matthias è incredibile, sempre a cercare la sorpresa, sempre in controtempo, sempre curioso della scena e del personaggio, è uno che si obbliga a non scegliere ma la strada più facile», lo descrive Francesca Comencini. »E per avere nuove idee, nuove angolazioni di visuale, un modo diverso di interpretare il ruolo, ascolta tutti, anche chi è alla sua prima esperienza». Compresa la figlia della regista, Camille Dugay, che nella serie interpreta Margaret, la donna amata da Django la perdita della quale è il motore di tutto. «Cosa credi, ha fatto tantissimi provini, in una produzione internazionale come questa i passaggi per decidere qualcosa sono tantissimi e complessi, figuriamoci per un ruolo chiave nella narrazione come questo: dovevi credere alla gioia del loro amore per capire la profondità del desiderio di vendetta del protagonista, ma anche della sua esigenza di riconciliazione con chi è rimasto. Però è stato bellissimo, lei ha da poco finito la scuola di Pierfrancesco Favino e credo sia davvero una brava attrice, ma soprattutto era perfetta per la parte, ne eravamo convinti tutti. E per me quel lato materno, dolce, tranquillizzante con cui caratterizza Margaret rappresenta come madre molto di quello che lei mi ha dato e mi dà come figlia, e per me è stato magnifico restituirlo sullo schermo. Anche se sul set neanche ci parlavamo, per fare in modo che il rapporto fosse il più professionale possibile. Conta che Matthias si è reso conto che eravamo madre e figlia alla Festa di Roma!».
Tipico comportamento da cowgirl che non devono chiedere mai. E alla fine rimane la curiosità se Francesca Comencini si senta più tarantiniana o corbucciana. Non glielo chiediamo, ma ripercorrendo la chiacchierata c’è una sua frase che sembra uscita da quel set del 1966: «Il western è ruvido, arrugginito, metallico. L’attrezzista è quasi l’uomo più importante del set, il western non può essere patinato». Ci puoi scommettere la tua colt, Francesca.