Per descrivere Elodie si possono usare un sacco di aggettivi che ad Amadeus in conferenza stampa non verrebbero in mente. Il carattere brillante, empatico, espansivo e a sua detta «un po’ coatto» riesce a demistificare in pochi secondi la sua indubbia bonaggine: «io sono felice che adesso le persone, quando sono in giro, vengano a salutarmi, ad abbracciarmi… Mi piace proprio fare amicizia», mi racconta mentre la vestono – o la svestono, a seconda dei punti di vista – per questa cover story.
Ci incontriamo a pochi giorni dall’uscita del suo terzo album, che per una furba mossa commerciale precederà la sua partecipazione a Sanremo. È il terzo, ma è quasi come se Elodie lo sentisse come il primo di una nuova vita, nata da una deviazione dai percorsi canonici che dopo la fine di Amici e il suo primo Festival di Sanremo sembrava destinata a prendere. Avevo conosciuto per la prima volta Elodie proprio quando sul palco dell’Ariston portava Tutta colpa mia – un pezzo emmamarronesco, carico di sentimento e dramma, che ai tempi, ricordo, nella mia testa cozzava con l’impressione che mi aveva dato invece parlare con la Elodie “in borghese”.
A quanto pare anche lei ci si sentiva stretta, in quell’immaginario. Pare che dopo quel Sanremo abbia deciso di rivoluzionare la propria vita. Da lì una ricerca durata un paio d’anni che si è concentrata sul tentativo di far aderire queste due persone, quella sul palco e quella di tutti i giorni, e si è riversata nelle 16 tracce di This Is Elodie, un titolo che, come dice lei stessa in una delle note audio che punteggiano l’album, sta a rappresentare questa riconciliazione con il suo vero io. Nel frattempo è successo anche un featuring musicale con quello che ora è il suo featuring relazionale, Marracash, con il quale si è trovata in un momento in cui entrambi, paradossalmente, trovavano se stessi e imboccavano ognuno una nuova strada discografica, molto più personale e autentica.
Dal mondo del rap Elodie ha mutuato anche un’architettura collaborativa, in contrasto con la competizione propria dei talent, e, dalle comparsata nei video di M¥SS KETA ai featuring di cui questo disco è carico, ha costruito un universo più intimo e allo stesso tempo più collettivo, divertente e fresco. Mal di testa (singolo che precede Andromeda, il pezzo di Sanremo scritto dal vincitore uscente Mahmood) nasce dalla mente di Neffa, che per lei è ritornato il “Chico Beat” dei tempi d’oro, ed è uscito accompagnato da un video emblematico della linea editoriale della nuova Elodie, molto più relatable di quella che si muoveva in punta di piedi all’Ariston tre anni fa. Questa è lei, e questo è quello che ci siamo dette un pomeriggio di fine gennaio.
Come stai oggi? A che punto sei della tua vita?
Sto bene, vita bella impegnativa. Sto cercando di incastrare bene tutto tipo Tetris, è un periodo intenso, ho un sacco di cosette da fare.
Posso immaginare, mi fai un riassunto dei tuoi ultimi mesi?
Te lo faccio degli ultimi due mesi, vai. Allora, sono riuscita a farmi un viaggio anche con Fabio, siamo andati in Oman a Natale, abbiamo fatto una vacanza-tour, una cosa itinerante.
Non suona particolarmente rilassante.
No infatti, però gli ultimi tre giorni eravamo nel Sud, ma era tutto nuvolo, quindi lì abbiamo dormito. Poi, da quando sono tornata, ho avuto al massimo due, tre giorni di riposo. Sono andata a Parigi per un lavoro molto bello che uscirà quasi l’anno prossimo, poi a Barcellona, e ora sto facendo una serie di prove per Sanremo, soprattutto perché il mio pezzo non è mica tanto semplice: devo essere chirurgica, super attenta, è un brano in cui prendo poco fiato… Poi ho l’album e la vita di tutti i giorni, sto cercando di far quadrare tutto.
Parliamo delle note audio nel tuo album. Partiamo da quella indirizzata alla tua mamma?
Guarda, in realtà non sono mai stata mammona, conta che sono andata a vivere da sola molto presto. Con mia madre ho sempre avuto un rapporto conflittuale, da un anno e mezzo l’abbiamo ricucito.
Questo Sanremo lo stai prendendo con più leggerezza del precedente?
Ci sto provando. In quello prima ero quasi un soldato, non avvertivo neanche lo stress perché venivo dal mondo molto complesso del talent, ero quasi anestetizzata… Adesso forse ho anche più da perdere rispetto a prima, no?
In che senso?
Perché adesso ho qualcosa che è tutto mio, è come se la mia partecipazione di quest’anno me la fossi conquistata, sento di aver costruito cose più solide, quindi ho anche paura di perderle.
C’è stato un momento in particolare in cui hai detto “ok, adesso prendo in mano io il mio destino”?
Appena dopo il Festival del 2017. Avevo proprio la sensazione di aver già terminato un percorso. Ho finito Sanremo e ho detto “io più di così in questo genere non posso dare”. Avevo la sensazione che fosse già tutto esaurito, invece forse era un po’ troppo presto perché lo fosse, no? Ho detto “devo cambiare qualcosa. Tutto.” Di solito faccio così: c’è un momento in cui so che devo rivoluzionare tutto nella mia vita.
Tu sei passata dall’ambiente dei talent, che immagino sia molto competitivo, a una situazione in cui nel tuo disco (ma anche prima, se pensi a Le ragazze di Porta Venezia) è centrale la collaborazione.
Io sono una grande osservatrice, mi nutro di persone, non sono quasi mai da sola, e studio molto il lavoro degli altri, cerco di capire cosa mi piace e cosa posso cercare di tradurre in quello che faccio. Mi hanno detto che faccio feat perché non ce la faccio da sola, mi hanno chiesto se non mi piaccia avere tutto lo spazio per me… In realtà collaborare ti dà la possibilità di ampliare il tuo raggio d’azione e aggiunge qualcosa che tu da sola non potresti raggiungere. Si possono, anzi, si dovrebbero condividere i momenti importanti, i successi. Per me tutto quello che è inclusivo è positivo e se posso comunicare questo anche nel mio lavoro ho vinto tutto.
E con la M¥SS com’è andata?
Intanto adesso siamo proprio amiche… Bacetti, abbraccioni ogni volta che ci vediamo. Poi a me ricorda tantissimo il periodo in cui lavoravo in Salento come vocalist, un momento bellissimo della mia vita. Quando ho sentito le sue prime cose ho pensato che riuscisse a rappresentare alla perfezione il mondo della notte. Non è scontato farlo così.
Poi anche quello è un progetto collettivo, ha quella impostazione.
Ah, guarda. Quando sono andata a vederla live – credo fosse ai Magazzini Generali un paio di anni fa – ho ballato tutto il tempo come una pazza. E poi c’erano lei e le Ragazze sul palco, e vedere tutte loro insieme mi ha conquistato. Ho avvertito il loro modo di lavorare, mi piaceva tantissimo e appunto mi ricordava molto me quando lavoravo in discoteca, quel modo di intrattenere il pubblico. Poi ho fatto la comparsa nel video di Monica. Da lì basta. Non abbiamo mai smesso di essere sulla stessa lunghezza d’onda, e soprattutto di supportarci a vicenda. Siamo un bel gruppo. La competizione io non l’ho mai avvertita nella mia vita.
Neanche quando facevi talent?
Sai, alla fine quella era una competizione sana, che ti portava ad avere voglia di migliorarti. Però in genere quando vedo che c’è qualcuno più bravo di me cerco sempre di capire cosa posso imparare. Non è che puoi essere il migliore di tutti, ti immagini che palle? Anzi è così bello avere persone stimolanti intorno.
Molti degli artisti che hai coinvolto nel tuo disco fanno parte di una nuova ondata del pop italiano, che attinge parecchio dal mondo del rap. In che modo questo ambiente ha influito sulla tua evoluzione?
Allora, inizialmente io sentivo una vicinanza di origine. Essendo io cresciuta in un quartiere popolare di Roma (il Quartaccio), comprendo benissimo quel linguaggio, molto più di altri. Avevo bisogno di confrontarmi, anche se non faccio proprio rap, con quel modo più colloquiale e meno ricamato di esprimersi. Volevo togliere un po’ di sovrastrutture al mio pop. I rapper alla fine ti sembrano molto più esseri umani dei cantanti canonici. Sono più sporchi, più crudi. Non so se poi ci sono riuscita, si capirà dalle reazioni a questo disco, ma volevo riuscire a mettere il mio quotidiano, compresi i miei limiti, nella mia musica. Lo scorso Sanremo io avevo paura di mostrarmi per come ero, dovevo sempre sembrare composta, una perbene – non che io non lo sia! Però mi ero un po’ snaturata, mi sentivo legata. Quella sensazione non mi piace.
Poi non so nemmeno quanto paghi…
Ma anche se fosse, non ne vale la pena. Perché ci stavo proprio male, mi sentivo incastrata.
Ma male male?
No, ma mi ero rotta i coglioni! Non puoi uscire, non puoi andare a ballare, non puoi bere… E se ti vedono là è un problema… Ma che cazzo me ne frega! Se mi vedono che fa?! Non posso più far niente?!
A me aveva anche colpito la canzone sul senso di colpa. Era pesante come concetto, no? Il senso di colpa è una roba brutta…
Ah diciamo che io non provo molto senso di colpa, non avendo avuto un’educazione cattolica. Non lo trovo utile alla comprensione reciproca, al perdono, al capire la diversità, all’inclusione… Se già mi devo sentire in colpa solo perché sono nata, aiuto! Al di là di questo, quel pezzo in realtà ai tempi lo interpretavo più come a dire “mi prendo la responsabilità perché tu non sei in grado”, come un modo per sminuire l’altro.
Senti, ho una domanda che riguarda le polemiche di Sanremo, ma ti prometto che non voglio entrare nel merito. Vorrei soltanto capire come intendi tu il sessismo.
Mah allora. Può succedere che uno abbia uno scivolone, che gli esca fuori male qualcosa, bisogna poi vedere come si comporta nella vita. Adesso questo è un argomento talmente delicato che le persone non sono più spontanee nell’esprimersi a riguardo, quindi è diventato più difficile leggerle. Forse preferivo quando c’era più spontaneità, perché era tutto più evidente, ci si poteva difendere più facilmente. Senza incazzarsi, che è difficile, soprattutto per me che farei a botte dalla mattina alla sera. Ci sto lavorando eh, però diciamo che sono aggressiva da quando sono nata, mi infuoco facilmente. Questo non vuol dire che sia violenta nella vita o che faccia veramente a botte.
Mai successo?
Come no! Ti ho detto che vengo dalle case popolari, da ragazzina ero un casino. Sono una coatta, era un modo per comunicare, un po’ animale, ma da ragazzini ci sta. Comunque, questo era per dire che io mi sono sempre fatta rispettare e ho sempre messo in difficoltà chi tentava di mettermici. Prima ero molto più rigida, col tempo sono migliorata, ora cerco sempre di capire chi ho di fronte, cosa pensa, in che modo vorrebbe incasellarmi. Noi veniamo comunque da un retaggio culturale che metteva le donne su un piano diverso. E non stiamo parlando di molto tempo fa. In cinquant’anni è difficile cambiare completamente il modo in cui alcune persone ragionano, bisogna avere molta pazienza, cercare l’incontro, il dialogo… Certe volte io ho delle discussioni, con uomini, che mi feriscono. Però cercare di comprenderli è l’unico modo per poi capire come affrontare le cose.
Se metti un muro invece…
L’altra persona non parla, la penserà sempre così e tu non potrai mai fare niente per farle capire come la pensi, metterle magari dentro la testa un pensiero che possa cambiarle. Quando mi incazzo, e capita almeno due o tre volte al giorno, è perché sento che non ho il controllo della situazione. In questi casi cerco di essere ferma, di mettere un rifiuto tra me e il mio interlocutore, ma sempre in maniera molto ferma, composta. Lo lascio lì e me ne vado, così ha il tempo di rifletterci su. Come col risotto, lo devi mantecare. Bisogna essere pazienti.
Che zen, cavoli. Come sei arrivata dalle risse nel barrio a questa ragionevolezza?
Eh… ci ho messo un po’. Io poi penso che abbiamo veramente tante cose da insegnare, e abbiamo adesso la possibilità di farlo, prima non venivamo nemmeno prese in considerazione. Solo che se utilizziamo lo stesso atteggiamento aggressivo con cui certi uomini si rapportano a noi non ne usciremo mai. Dobbiamo fare il contrario. Questi alla fine sono i nostri figli, quindi evidentemente c’è qualcosa che è sempre andato storto nella comunicazione con loro.
Mi sono rimaste un paio di curiosità sui messaggi vocali.
In realtà abbiamo cercato di dare un ordine “da playlist” al disco, e i vocali servono per legare due mondi separati, sonorità molto varie tra loro, anche come BPM.
Diverse fasi di una giornata, tipo.
Esatto! Sono io che mi alzo, esco, vado a ballare… Poi torno a casa e metto qualche ballad.
Che romanticona!
Eh certo! Sai, dopo tanto tempo ho fatto un disco in cui ho davvero avuto la possibilità di raccontarmi, quindi riflette anche il modo in cui ascolto la musica.
Mi racconti la storia dietro a Vocale1?
Quel vocale… Allora, io avevo già registrato Margarita, poi vado in Universal, parlo con Jacopo (Pesce, Director di Island Records) e Max (Brigante, il suo attuale manager) e ci diciamo che sarebbe bello se ci fosse un feat su questo pezzo. Ne discutiamo un po’, viene fuori il nome di Marracash, io dico “eh vabbè, sarebbe l’ideale, ma quello non mi dirà mai di sì, sta fermo da un po’…”.
Era in fase di scrittura del disco forse.
Ancora no! Poi quando ci siamo messi insieme ci ha messo tre mesi a fare il disco.
In un certo senso l’hai stappato quindi.
Ma no, dai, non lo so… Non lo sapremo mai. L’importante è che sia andato tutto bene.
Sì, è un disco della madonna.
Sono proprio orgogliosa infatti. Iper contenta.
Dai, raccontami come è andata.
Alla fine accetta il feat. Io felicissima. Conta che non ci eravamo mai incontrati di persona. Fatto sta che mi chiama una mia amica e mi invita a una cena, mi fa “vieni, c’è pure Marracash”. A me inizialmente lui piaceva molto artisticamente parlando, ma non è che nutrissi grande simpatia nei suoi confronti, quindi non volevo andare a questa cena, soprattutto perché gli avevo appena chiesto il feat e non mi pareva carino. Alla fine la mia amica insiste e vado. Scopro che in realtà ci stiamo molto simpatici. E quindi esco da questa cena, mando un vocale a Jacopo Pesce dicendogli “guarda, l’ho incontrato, non gli ho detto niente del feat, però è stato molto carino…”. E in effetti è vero, perché lui è proprio una persona piacevole, ti mette a tuo agio, ci eravamo davvero presi.
E questa è la storia del vostro featuring, che continua ancora oggi.
Eh sì.
A questo punto devi parlarmi di quelle canzoni romantiche che chiudono l’album.
La cosa bella è stata che io in questo disco ho avuto la possibilità di avere a che fare con persone apparentemente molto lontane da me, che ho conosciuto lavorandoci. In fondo non c’è è un pezzo che ha scritto Levante e io avevo nel cassetto da un paio d’anni. Avevamo provato a ricamarci produzioni più costruite, invece poi abbiamo pensato fosse bello chiudere il disco con due tracce così semplici, una voce e piano (Niente canzoni d’amore, cover di un brano di Marracash, ndr), l’altra voce e chitarra. E Generic Animal, che ha prodotto il pezzo, è uno che riesce a rendere ricca anche una cosa semplice.
Cosa ti sei ascoltata mentre nasceva la nuova Elodie?
Sono andata a ripescare anche un sacco di cose vecchie che ascoltavo, anche apparentemente lontane da me: da Raf a Etta James, i miei ascolti classici insomma. E poi sto in fissa con Kaytranada.
Chi è il tuo preferito in assoluto?
Mi sa Battisti.
E come mai hai scelto di cantare Adesso tu di Ramazzotti alla serata cover di Sanremo?
Per il testo, perché lui canta “nato ai bordi di periferia,” che è proprio la mia storia, è un lato di me che sta emergendo con questo disco. E Aeham Ahmad, il pianista siriano che mi accompagnerà, è nato alla periferia del mondo, in un campo profughi alle porte di Damasco.
Infatti, lasciando perdere la conduzione, a livello di cast Sanremo si sta rinnovando parecchio ultimamente, va a pescare anche tra i generi più periferici, meno ‘leggeri’ in un certo senso.
Che alla fine sono quelli che stanno rinnovando la musica Italiana. Io penso che in questo momento ci sia un grande bisogno di realtà, di quegli artisti che sono in grado di rimetterti coi piedi per terra, di farti rendere conto anche dell’esistenza degli altri, di incuriosirti. Siamo un po’ troppo disillusi.
Hai una tua definizione di amore? Non soltanto nel senso più comune del termine, più come empatia.
Ci ho sempre pensato tanto, è il collante, il motore. Nasci, sei innamorato della tetta di tua madre, ti ci attacchi… È la vita, no? Sono arrivata alla conclusione che sia la comprensione, la voglia di comprendere l’altro, di vederlo crescere, maturare, di rendere forte chi ti sta intorno.
Cosa ti auguri per questo disco?
Lo sai che non ci penso? Per me è già una grande soddisfazione aver fatto una cosa che mi ha divertita, che mi ha dato la possibilità di collaborare con persone che credono in me, sono molto orgogliosa perché penso di essere stata brava a scegliere chi mi sta intorno. La cosa che mi fa felice è che mi sto trovando, comincio a diventare una donna, ho un lavoro che mi mette sempre in difficoltà e mi piace proprio perché non mi fa accomodare. Ho ritrovato la mia famiglia, mia madre, mia sorella. Sono innamorata, ho degli amici incredibili. E che cazzo me ne frega del resto.
Sei sulla strada giusta.
Penso di sì, lo sai? Mi sa che sto crescendo bene.
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Crediti
Produzione: Dreamers&Makers
Fotografo: Luis Monteiro
Assistente fotografo: Jacopo Contarini
Stylist: Ramona Tabita
Assistente stylist: Erica Benocci
Make Up: Fausto Cavaleri
Hair Stylist: Toni Pellegrino
Video: Eduardo Festa