Qui a Rolling lo sosteniamo da sempre: Linda Caridi è la più brava di tutte, Linda Caridi può fare tutto. Da qui il giochino everything, everywhere, non all at once perché lei ha fatto tutto coi suoi tempi, indovinando tutti i progetti: Antonia., Ricordi?, il purtroppo invisibile Mamma + mamma, Il cacciatore sulla Rai, il teatro che è il primo amore mai lasciato, ora un nuovo film a cui arrivo presto, e dopo ancora Supersex, la serie su Rocco Siffredi, vale a dire Alessandro Borghi, prossimamente su Netflix. Ha fatto tutto lasciandosi appunto il tempo per scegliere, per ragionare su quello che il cinema chiedeva e quello che lei voleva dare, aspettando le cose giuste per lei. Non ho incontrato nessuno, nella cosiddetta industry, che quando viene fuori il nome di Linda Caridi non dica “be’, ma lei è la più brava di tutte”. Lei può fare tutto per davvero, allora. Ecco spiegate pure queste foto. Linda ha giocato con noi per essere everything, everywhere, moltiplicarsi per diventare ora una Barbarella del futuro passato, ora una maschiaccia di strada, e poi una diva a pois un po’ Audrey e un po’ Mina, e una guerriera da sexploitation. Quindi, Linda: mi, ci confermi che puoi fare tutto? «Oddio, potenzialmente sì», ride mentre è al trucco per questo shooting. «Se mi guardo dentro e penso al gioco, allora è come quando eri bambino e non ti ponevi nessun problema. Non ti chiedevi: ma questo personaggio lo posso fare? Lo facevi e basta. Poi, se ci rifletto in maniera più realistica, riconosco i miei limiti. Ma penso che, in un universo creativo libero, chiunque possa tentare di diventare chiunque».
E dunque, ecco le galassie. Linda nata, appunto, nel cinema d’autore e poi approdata alla serialità generalista, in mezzo sempre il teatro indipendente, addirittura militante (dal 7 al 12 marzo sarà al Franco Parenti di Milano con il monologo Il bambolo di Irene Petra Zani, ormai un cavallo di battaglia). Linda che, a conti fatti, è già un multiverso. «Non mi ero mai vista in questi termini», sorride, «ma probabilmente è il frutto di un percorso iniziato molto tempo fa. Ora finalmente sento che tutta questa pluralità ha un’unicità, ed è una cosa che riguarda più in generale il discorso sul femminile. Per tanto tempo le donne hanno dovuto scegliere che identità interpretare, bisognava trovarne una sola e poi non contraddirsi, perché se no ti dicevano “ma non eri l’acqua cheta?”, “non eri la brava ragazza?”, “non eri la donna con le palle?”. Invece ora ho, abbiamo iniziato a pensare che possiamo essere anche noi ciò che è sempre stato l’universo maschile. Che la stessa identità può essere organica, e armoniosamente integrata, in tutte le sue sfaccettature, e questa è una grandissima conquista. Diciamo che ora mi sento in quel punto lì del multiverso. E l’idea mi fa sorridere».
Nell’epoca dell’identitarismo überdeterminato, Linda è l’attrice che vivaddio, a differenza di molte colleghe, non ha mai voluto confinare sé stessa dentro un tipo preciso, che di identità ne ha avute (ne ha) moltissime. Ma pure questa è stata una conquista. «È stato difficile, molto. Perché inevitabilmente è con la nostra fisicità e le nostre caratteristiche predominanti che ci presentiamo agli altri, e quindi molto spesso da fuori intercettano di noi un solo aspetto. Nel mio caso, qualcosa contro cui dentro di me combattevo e che invece adesso ho accettato, perché capisco che è un colore che mi è innato: la dolcezza, la tenerezza. Spesso sono stata la brava ragazza, la persona centrata, equilibrata… Però l’occasione per cui ci incontriamo ora non c’entra niente con tutto questo».
L’occasione è L’ultima notte di Amore, il film – presentato il 24 febbraio alla Berlinale nella sezione Special Gala e poi nelle sale dal 9 marzo, scritto e diretto da Andrea Di Stefano, attore di lungo corso poi finito “dietro”, prima con film come Escobar starring Benicio del Toro e poi con serie come Bang Bang Baby – che racconta l’ultima notte, appunto, del poliziotto Franco Amore, cioè Pierfrancesco Favino. Linda è la sua seconda moglie, personaggio cruciale in questo notturno milanese che intreccia mafia di Chinatown, sterzate da cop movie USA, un po’ di (Lady) Macbeth, ma anche un certo gusto per il nostro poliziottesco “calibro 9” anni ’70. «Il ruolo di Viviana non me l’aspettavo nemmeno io. È un personaggio tridimensionale, con una sfera densa, che sta dentro un film di genere con uno sviluppo chiaramente drammatico ma che tocca anche le corde della commedia raffinata. Non me l’aspettavo perché ero giovane rispetto a com’era inizialmente scritto: doveva essere la moglie di Favino e basta, poi è diventata la seconda moglie. Ho fatto il provino solo per divertirmi, perché il ruolo era parlato in calabrese e giocavo in casa. Lo parlo da quando ero piccolina, ho due nonne siciliane e due nonni calabresi, che si sono presi le nonne e se le sono portate a Gallico, in provincia di Reggio. Il calabrese che parlo io è più dolce, più simile al messinese, quello di Viviana più consonantico, ho spinto di più, con lei (indica l’hairstylist accanto a noi, nda), che è calabrese ed era con me anche sul set, ci siamo fatte delle gran chiacchierate al trucco e parrucco, eravamo tutt’ un’ consonant’…».
Ribadisco: allora è vero, che puoi fare tutto. «C’è voluta però la lungimiranza di sguardo di Andrea, la fiducia nel fatto che il lavoro insieme potesse tirar fuori quello di cui tutti e due avevamo bisogno. Ma anche la fiducia nel trucco, nei capelli, nei vestiti: finché non ero tutta composta, non mi sentivo completamente a fuoco, avevo il fuocherello del personaggio acceso, quello sì, perché il dialetto mi accendeva tutto un mondo di intransigenza, di senso del sacrificio tosto, duro, e allo stesso tempo di amore spassionato, che poi è tutto il mio retroterra famigliare. Però, per vedermi anche fisicamente accanto a Favino, avevo bisogno di togliermi quella patina di dolcezza che mi infantilizza. E allora la messa in piega, quelle mechettine bionde, le unghie lunghe, il tubino rosso che valorizzava le mie forme… Piano piano, tutto si è allineato». Everything, everywhere, un altro pezzetto di universo.
Del fatto che al nostro cinema manchi la lungimiranza – di scommettere sui talenti, di assumersi dei rischi, di fare quello che altrove chiamano casting against type – con Linda abbiamo già discusso in passato. «È molto più diffusa la tendenza a immaginarti nei ruoli che ti sono vicini. Poi magari l’occhio registico si arrischierebbe anche e c’è un freno produttivo, i passaggi e le teste che ti portano a un ruolo sono tantissimi. Però fin qui mi è successo poche volte. Con Lacci di Daniele Luchetti, che mi tirava fuori una sensualità dirompente. E con Mamma + mamma, che hanno visto in pochi ma per il quale mi è stata data proprio la parte opposta: la regista (Karole Di Tommaso, nda) mi aveva provinata per il ruolo di quella più dolce tra le due fidanzate, poi conoscendomi mi ha dato la parte della più dura. Che è un po’ la cosa che mi ha detto Andrea: “Non mi interessa che voce hai, com’è il tuo corpo. Io voglio lavorare col tuo talento, e il tuo talento può raccontare un’umanità. È questo che mi interessa”».
La lungimiranza, lo spingere il talento oltre, va data anche a sé stessi? «Se fosse per me, mi lancerei oltre la montagna. Poi spesso ho un approccio timoroso perché metto a fuoco le mie insicurezze, i miei limiti. Mi ricordo che qualche anno fa a Venezia mi hai detto: “Alla prossima intervista forse riuscirai a dirmi…”». Finisco io la frase: che sei bravissima. Dunque adesso devi dirlo, faccio io. «Sono bravissima, ragazzi!». Ride. «Piano piano ci sto riuscendo, ed è anche grazie alla fiducia che mi è stata data. Mi ricordo che Giampiero Judica, il regista del Bambolo, tanti anni fa – lavoravamo su Blu, il mio primo monologo – mi disse: “Non vedo l’ora che tu disattenda le mie indicazioni. Sorprendimi! Sorprenditi!”. Mi incitava alla libertà. E io ci ho provato, ma è un percorso che è difficile compiere in totale solitudine, stando esclusivamente dentro sé stressi. Però sì, ora riconosco che dare una pacca sulla spalla alle proprie insicurezze dà un senso di libertà. Ti fa dire: bùttati. Ti porta a sfruttare di più le tue potenzialità, e non averlo fatto, almeno certe volte, è la cosa che mi rimprovero ancora. Non l’ho fatto prima perché questa libertà me la sono conquistata millimetro per millimetro, perché a volte tendo ancora a correre per occupare il mio spazio quel tanto che serve e dare meno fastidio possibile. Poi c’è il teatro che mi aiuta a riequilibrare tutto, riprendere un monologo dopo mesi ti permette di ripensarlo, se hai la tendenza a correre imparerai a rallentare, e viceversa. A teatro le cose si prendono il loro spazio da sole, e tu devi lasciarglielo. E io col tempo ho imparato ad essere un punto di riferimento per me stessa, a legittimare la mia voce, a dare credito alle indicazioni che posso darmi anche da sola, senza per forza bisogno di un occhio esterno, di un maestro o una maestra. Ho capito che nessuno ti conosce meglio di te stesso».
Il rimprovero che Linda Caridi si fa, però, non è mai sui no che ha deciso di dire in passato. «No, quello non lo rimpiango mai. Io sento che al mio percorso manca la popolarità, e in alcuni casi questo mi ha portata a perdere dei progetti. A volte, certo, non sono stata presa perché non ero adatta o all’altezza del ruolo, ma altre è capitato di essere fortemente voluta da un regista ma che la produzione dicesse che non ero la persona giusta perché non avevo abbastanza numeri. Per certi versi il mio percorso si è rallentato, però in questo percorso mi ci riconosco, non rimpiango nessuna scelta mia o altrui. E devo dire che adesso pensarlo è molto pacificante». Certi no sono dovuti alla scelta, tra le altre, di restare a Milano, lontana dai giri romani. «E anche questo ancora un po’ lo pago. Quando sei a Roma inciampi costantemente nel lavoro, vai al bar e incontri qualcuno, vai a fare la spesa e incontri qualcuno. È più facile entrare in relazione, e la relazione è la base di questo lavoro. In passato, anche per via dell’educazione eticamente intransigente che ho ricevuto, questa cosa l’avevo un po’ demonizzata. Mi dicevo: non devi lavorare perché sei “amica di”. Invece col tempo ho capito che c’è un aspetto sano della relazione: se penso al progetto della mia compagnia teatrale, anche quello è nato allo stesso modo, ci siamo costituiti come gruppo perché eravamo amici».
Ora però Amore l’ha inseguita fino a Milano. Questo mischiare i luoghi, insieme al fatto che sempre più produzioni si stanno de-romanizzando, ha sparigliato le carte. «Questo film non l’ho girato a Milano, l’ho girato proprio sotto casa: avevo dei pick-up di trenta secondi, perché l’appartamento dove vivono Franco e Viviana era esattamente nella via in cui abito io». Accanto però aveva il nuovo mattatore nazionale Pierfrancesco Favino, che «è un gigante della rappresentazione umana, ha uno spettro dell’emotività ampissimo, e la capacità di raccontare quelle emozioni attraverso un uso incredibile dello strumento vocale, fonetico: se sposta la voce, sposta l’emozione. È un pesce nel suo mare, ha una conoscenza anche tecnica del mestiere, la profonda coscienza di quelle che sono le necessità artistiche e attoriali e il polso per difenderle nel momento in cui, per stanchezza o disattenzione, viene messa in secondo piano. Ha la quiete interna di chi è nel suo posto, ed è bello vedere un professionista arrivare a un tale livello di padronanza del suo mezzo». Il posto di Linda qual è? «Mi sento ancora un po’ sfuocata, un po’ libellula. C’è uno sfarfallio costante che ancora mi fa gravitare attorno a più postazioni, però nel momento in cui parte l’azione o si spengono le luci in sala, allora sento che le tante ali si mettono una sull’altra e trovano il loro fuoco».
Linda la dolce, la tenera, la bambina. Però le sue donne, fino a Viviana, sono portatrici di una femminilità affatto fragile, sono risolute, spesso cazzute. Anche il racconto della femminilità sta davvero mutando? «Ci sono più autrici, questo è vero, ma il punto di vista maschile è ancora predominante perché lo è da sempre, ci vuole tempo e cultura perché lo sguardo cambi davvero. Però sui set sì, vedo che c’è un’attenzione diversa. Su quello di Supersex, dove per ovvie ragioni c’era un’esposizione dei corpi importante, mi sono sentita rispettata, a mio agio, ma è anche vero che dietro quel progetto c’è una penna femminile, anzi femminista (la creatrice e sceneggiatrice è Francesca Manieri: tra i suoi ultimi lavori, le serie Anna di Niccolò Ammaniti e We Are Who We Are di Luca Guadagnino, nda) e che il mio episodio è stato diretto da una donna (Francesca Mazzoleni, autrice di Succede e Punta Sacra, nda)». Di più non si può dire, i cecchini di Netflix son pronti a freddarci ovunque siamo.
L’altro discorso che mi (ci) sta a cuore è se davvero questo moltiplicarsi di possibilità – la “nuova” tv, le piattaforme, il cinema che prova a reinventarsi – abbia reso più facile la vita ad attori che amano i multiversi oppure no. «I riferimenti all’algoritmo, che siano fatti con ironia oppure no, su certi set li sento, e in linea teorica pensare che i numeri possano governare le scelte artistiche è abbastanza straniante. Però sto vivendo questo passaggio più serenamente di un tempo. Quando ho iniziato era tutto molto più netto, se cominciavi col cinema poi fare la fiction, come si diceva allora, ti sporcava: “Gli autori di cinema non ti vogliono più”, mi dicevano, e questa cosa metteva paura, oltre ad essere molto limitante. Che ora le carte si siano scompaginate ha un aspetto indubbiamente positivo, è più facile scegliere in maniera più libera, in base a quello che senti, non sei più condizionato da regole che ti vengono imposte».
Voglio sapere quali sono le storie che le piacciono oggi. «Sai che ti dico veramente Everything Everywhere All at Once? Perché è un prodotto di intrattenimento sofisticatissimo, ma che sotto a tutto quel mashup di generi divertentissimo, chiassoso, persino trash, ha la potenza verticale di quel dramma famigliare, del rapporto tra una madre e una figlia. Mi ha lavorato dentro per giorni». Siamo tornati al punto di partenza, al multiverso: qual è il pezzo da conquistare adesso? «Mi piacerebbe concepirmi in maniera più autoriale. Sento che ho ancora un approccio da interprete, quando leggo qualcosa il mio primo istinto è mettermi al servizio di quell’idea e capire come renderla al meglio. Vorrei piano piano coltivare un atteggiamento più attivo, scrivere non solo per me. Mi piacerebbe saper raccontare una storia, e per farlo forse dovrei mettermi a studiare, ma ecco: quello sarebbe un universo in cui vorrei imparare a camminare».
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Foto: Clara Novelli
Art Director: Alex Calcatelli per LeftLoft
Fashion Editor: Francesca Piovano
Make-Up Artist: Chiara Corsaletti
Hair Styling: Elisabetta Flotta
RS Producer: Maria Rosaria Cautilli
Photographer Assistant: Andrea Biagioni
Stylist Assistant: Micaela Tana
Special Thanks to SUPERSTUDIO 13 for the location and technical equipment