Un disco di Marracash è una festa collettiva, un po’ come i mondiali di calcio, sono cose che si vedono più o meno ogni quattro anni, non ordinarie. E non ordinario questo Persona lo è fin da subito, dalla cover: diciamo che Spotify non è zeppo di album rap che citano titolo e iconografia di un enigmatico film di Ingmar Bergman del 1966. Diciamolo subito rimandando tutti quanti all’ascolto: il disco è una bomba. Che Marra sapesse scrivere non era in discussione, ma insomma questo incedere a singhiozzo fatto di annunci e ritardi qualche dubbio poteva anche farlo sorgere e invece no, Persona è il kolossal di qualcuno che si trova nell’invidiabile posizione di essere in controllo della propria arte. Non è poco; infatti in realtà è quasi tutto.
Il concept dell’album, mutuato appunto da uno dei film più sperimentali di Bergman, è l’incontro tra Marra e Fabio, l’indagine psicologica novecentesca intrecciata con uno dei temi più antichi e battuti in arte e letteratura: il doppio. Il film si apre con una pellicola che scorre in un proiettore, per un attimo appare un pene – citato molti anni dopo in Fight Club, non a caso altro lavoro centrato sul doppio – poi disegni animati, un ragno, un agnello sacrificale, dei chiodi piantati nelle mani del Cristo: il regista svedese ci sta dicendo che siamo davanti a un’opera di finzione. Il disco, nel pezzo che lo apre, cita il monologo più forte del film: il tema è l’ineluttabile distanza tra ciò che si è per gli altri e ciò che si è per se stessi, un abisso che comporta il timore di essere messi a nudo e quindi, alla fine, scoperti. Marracash tornerà su questo concetto più volte, per esempio in una traccia successiva quando dice “Momenti che era brutta in cui avrei pregato qualsiasi Dio / Da dove vengo tutto è truffa e se fossi una truffa anche io?”.
L’album segue un inusuale fil rouge rappresentato dagli organi di Fabio/Marra che sembrano gli organi aumentati delle nostre società di questi anni ’20 che stanno per arrivare. Il filo conduttore del disco è il riflesso di quello che abbiamo intorno: il prevalere dei social (“Credevo nella cultura, mo’ son tutti finti / Pregano per i vestiti, credono nei filtri”), le ansie (“Sono strano, ma col cazzo che mi sparo, Cobain”), i soldi (“Non vedi mi ballano i soldi in tasca ho un rave nei jeans / Si ferma a dormire una notte e basta airbnbitch”), la salute mentale (“Cerco un equilibrio che mi tiene insieme / Tu mi chiedi perché non mi voglio bene”), i rapporti sbagliati (“Non so se è amore o manipolazione / Desiderio o ossessione”), le sboronate (“Hanno preso il mio stile a noleggio / Fra’, se mi ammazzi è un pareggio”), il sesso (“Fossi un super eroe sarei l’uomo di fango / Le conosco tutte, è come fossi bitch advisor”), la politica (“L’ignoranza sventolata come bandiera / Il sonno della ragione vota Lega”), e molto altro. C’è veramente tutto dentro questo disco, perché c’è tutto nella testa di chi l’ha scritto, e il privilegio è limitarsi ad ascoltare i pensieri di Fabio, mentre la fortuna è che Marra riesca ancora a incarnarli in un lavoro finito.
Partiamo dal concept dell’album.
Avevo quest’idea degli organi, che rifletteva il desiderio di fare un disco più personale rispetto a Status, che è un disco ipertrofico, pieno di rime, di metriche, quasi uno sfoggio di muscoli. Riascoltandolo oggi mi risulta un po’ freddo proprio perché c’era una volontà di dare una dimostrazione di forza. Quindi ho deciso di fare un album più caldo, più personale proprio in termini di forma più che di contenuti perché comunque i mei testi sono sempre stati personali. Poi lavorandoci ho capito che qualsiasi cosa avessi fatto non sarei mai stato veramente io, che tutto è un simulacro di te stesso. Alla fine è l’arte no? L’imitazione della vita eccetera. Quindi ero attratto da questa cosa di creare un mio avatar – che poi era la prima idea di titolo del disco perché l’avatar, prima di diventare l’ometto blu nei film, è l’incarnazione di Dio in terra. Alla fine ho abbandonato il nome perché il film di Cameron è troppo famoso, e parlando con Venerus è venuto fuori Persona di Bergman – che non avevo ancora visto. Mi è piaciuto il titolo, peraltro “persona” per gli anglosassoni vuol dire esattamente personaggio, “my persona” è “il mio personaggio”, quindi giocava sulla dicotomia artista / persona e sul fatto che la persona è una rappresentazione di te stesso, è una maschera.
Anche per l’etimo latino “persona” è la maschera dell’attore, il personaggio. Ma oltre al titolo e all’artwork la prima traccia del disco contiene una lunga citazione dal film.
Sì, perché vedendolo mi sono accorto che c’era esattamente quello che avevo in mente io. Il dualismo, che è il tema principale, riflette quella che forse è la mia cifra stilistica, e cioè il tentativo di azzerare la distanza tra Fabio e Marracash. Ho sempre cercato di essere quanto più possibile Fabio nei testi, però per quanto uno si sforzi di essere se stesso, non si riesce mai a esserlo a pieno. Poi mi sono partiti mille viaggi, c’è un po’ Frankenstein, questa cosa di creare la vita, quindi ho pensato che storicamente – penso agli ebrei col Golem, penso a Pinocchio, appunto Frankenstein – c’è sempre l’uomo che crea a sua immagine e somiglianza un essere a cui cerca di dare vita, e di fatto non funziona mai. Quindi ero dentro a quella roba lì, l’alchimia, l’homunculus, mi sono intrippato con questa cosa della creazione e ho visto il disco proprio come un tentativo di creare qualcosa in questo senso.
Come hai scelto i featuring?
Li ho scelti in funzione del pezzo, secondo me sono riuscito a usare bene i vari nomi, a dare loro uno spot in grado di arricchire la canzone, per esempio penso a Madame che interpreta la mia anima ed è stata veramente brava. Non ci sono pezzi liberi, non ho lasciato carta bianca, ho deciso di dirigere tutti, ho fatto un po’ da direttore artistico e quindi amo pensare che avrei potuto chiamare solo loro, per esempio per il suo pezzo c’era solo Gué Pequeno, mi serviva un rapper liricista che sapesse scrivere bene di dolore e di vizio, non potevo pensare a nessun altro.
Nel disco ci sono parti suonate e a un certo punto ti metti anche a cantare…
Hai visto? Ci sono dei bassi veri, il sassofono, delle robe un po’ alla Kendrick Lamar. Il disco è concepito come un kolossal, non escono singoli prima, te lo devi ascoltare tutto insieme dalla prima all’ultima traccia. In un mondo in cui si sa tutto di tutti ho pensato che se fossi un ragazzo che aspetta un disco così tanto da così tanto tempo penserei che è una figata poterlo ascoltare tutto senza saperne niente.
È passato parecchio tempo dall’ultimo album, intorno a te c’è questa mitologia di perfezionista spasmodico, come se ogni volta dovessi fare il disco rap del decennio.
Ti dico subito che a fare il disco non ci ho messo tre anni, ma tre mesi. Avevo scritto delle cose prima ma le ho praticamente buttate tutte via. Ho cominciato il 1° luglio, mi sono chiuso in casa, tre mesi di domiciliari nel vero senso della parola perché non sono mai uscito, dalla mattina alla sera.
Ma perché queste pause infinite?
La pausa viene da un momento di vita particolare: soffro un po’ da sempre di depressione, fa parte di me, quindi questi periodi di stasi fanno parte di me, anche col disco precedente era passato parecchio tempo, non è uno stato di eccezione. Questa volta uscivo da Santeria che è stato un gran successo ed è stata l’occasione per rivedere la mia vita e capire che avevo ottenuto un sacco di risultati a livello professionale e quasi niente a livello umano e quindi sono entrato in crisi. A questo è seguita una relazione sentimentale con una donna, la più brutta della mia vita perché questa ragazza aveva dei problemi psicologici che ho scoperto soltanto alla fine e quindi è stata una storia di quelle che leggi sui giornali, una storia tossica, che mi ha tolto la vita, mi ha annientato, sia durante sia dopo, perché una volta dischiuso il vaso di pandora e scoperto con chi ero stato davvero, sono entrato in una specie di shock. Che però mi ha fatto capire che il materiale che avevo non era più personale, sia a livello di scrittura sia di sound. Il problema era però che questa vicenda mi aveva svuotato, avevo perso stimoli e voglia di fare.
Questo quando è successo?
Fino a dicembre 2018. Ho reagito facendo dei viaggi. Sono andato in Libano e poi in Giappone e verso maggio per una serie di coincidenze ho sentito Marz che poi ha fatto 10 produzioni su 15, ed è stato abbastanza magico perché avevamo fatto qualcosa insieme in passato, diciamo che ci eravamo annusati, però a sto giro è stato un incastro totale perché io gli dicevo “ho quest’idea” e lui il giorno dopo mi mandava la base e ci prendeva sempre
In effetti oltre al fil rouge degli organi anche i testi, che sono fortissimi, tengono insieme tutto il disco. Come funziona il tuo processo creativo?
Si sviluppa nel tempo, nel senso che io maturo roba, è una cosa che faccio a livello introspettivo, lo faccio senza scrivere. Prendo solo appunti (a questo punto apre l’app Note sul telefono e mi mostra un profluvio di parole senza soluzione di continuità, il classico flusso, nda) – e poi a un certo punto butto fuori, e quando ho cominciato a scrivere i pezzi sgorgavano come sangue da una ferita. Quindi ho scritto in fretta e rispetto a Status il processo è stato molto più istintivo, ho scritto senza la paranoia di dover dimostrare che sapevo rappare bene, che sapevo fare le cose complesse. Quindi sì, il risultato è una scrittura più istintiva.
Dai tuoi testi sembra che viva in uno stato costante di autorevisione, che ogni cosa che ti succede nella vita è come se venisse messa costantemente sotto scrutinio. È così?
Sì, è vero, anche le persone che hanno a che fare con me sono scrutinate (ride, nda). Esercito una costante autocoscienza che mi porta a vivere le emozioni molto intensamente. Il dolore per esempio mi paralizza, quando mi succede qualcosa o qualcosa interferisce nella mia vita non sono uno di quelli che si butta nel lavoro e cerca di non pensarci più. Ecco, io ho bisogno di vivermela fino in fondo al costo di piombare in una stasi fatta proprio di immobilità, anche fisica. Ormai mi conosco quindi non ci vado più neanche tanto in para, c’è da dire che però ogni volta tendo a tirare la corda un po’ fino al suo estremo ed è forse anche un modo per sentirmi vivo, una ricerca di adrenalina, perché comunque rischiare di perdere le cose mi ha permesso alla fine distaccarmi a sufficienza per poi ritrovarle più forti di prima, per non essere influenzato, per poter scrivere quello che volevo scrivere come lo volevo scrivere.
Ma non hai mai paura di perderle davvero, di ritrovarti a dire: “Ma io sono ancora in grado di fare questa roba”?
Sì, sempre. A colloquio con lo psicologo quando mi ha chiesto “ma lei lo farà questo disco?” ho risposto di getto “sì certo”, ma subito dentro di me – ecco l’autorevisione costante che dicevamo – mi sono detto “ma io lo farò davvero questo disco?”.
E poi?
E poi ho scritto i primi tre pezzi, ho visto che uscivano e che ero ispirato, che non stavo facendo il compitino, perché dopo un po’ di carriera lo sai quando stai facendo canzoni per mestiere. Quando invece ho visto che usavo delle modalità nuove di espressione, delle cose che non avevo mai fatto prima, cantavo… i pezzi erano personali dal punto di vista della forma, ho avuto la sensazione di scrivere il mio primo album e mi ha commosso davvero. Uscivo ogni tanto di notte perché avevo bisogno di sfogare lo studio e una volta che sono tornato a casa e ho ascoltato i primi tre pezzi a tutto volume mi sono detto: “Grazie, c’è ancora. Ce l’ho”
Quindi descrivimi il tuo stato mentale di ora.
Eh, ora mi sento bene.
Ho letto uno studio di un’università britannica secondo il quale il 70 per cento dei lavoratori della musica ha sofferto o soffre di depressione. Perché secondo te?
Perché alla base secondo me una persona che si approccia a questo mestiere tanto registrato non è, perché comunque devi essere un pazzo per esibirti davanti a 10-15mila persone, e soprattutto per pensare che le tue cose possano interessare agli altri. Detto questo, è un mestiere duro. Se ne parla sempre poco del lato B della popolarità, guarda io spesso mi consolo pensando che se Bruce Springsteen soffre di depressione così tanto allora io non sono così anormale, però se ne parla molto poco: tutti agognano questa popolarità non sapendo che il prezzo che paghi è veramente alto.
Quanto alto, spiegami.
La fama ti porta via la vita, si prende letteralmente la tua vita. Poi dipende se sei uno che ci sguazza allora ok, ma in generale dopo il primo periodo in cui è figo andare in giro e tutti ti riconoscono, entri gratis nei locali eccetera, dopo un po’ diventa uno svantaggio, hai sempre la sensazione di essere sotto esame e quindi non sei te stesso, in più mettici che nel mio lavoro è fondamentale captare le idee che ci sono in giro, stare a contatto con le persone, io devo essere un’antenna e se questa cosa ti è preclusa non è facile da affrontare. Le pressioni e quant’altro non aiutano, sei sempre dentro la giostra, in questo il rap game non aiuta, ma in generale il game della musica e dei numeri non aiutano. Il brutto è che questa cosa può solo peggiorare, perché i social network hanno esteso questo scrutinio perenne, quest’ansia di numeri, che prima magari erano solo appannaggio degli artisti e che ne so degli sportivi, all’uomo comune: adesso tutti si sono auto-inseriti nella centrifuga
Kanye West ha dichiarato di vivere considerando il suicidio un pensiero costante, come un qualcosa che fa parte della vita, un’opzione parallela sempre aperta.
Guarda, secondo me questo è un buon momento per parlare di salute mentale, per tutti. Come dici tu la statistica è alta ma io me ne accorgo parlando con i colleghi. Uno dei vantaggi che ho da queste pause e da questo vivere il dolore intensamente è che io ci vado davvero a fondo quindi alla fine lo supero in qualche modo, ne traggo qualcosa, lo spremo e ne tiro fuori anche qualcosa di proficuo. Non tutti fanno questo lavoro su se stessi e mi rendo conto, anche parlando con i più giovani, per esempio ne parlavo con Massimo Pericolo e Charlie Charles, che in realtà sono belli incasinati a livello mentale, e loro non vedono l’ora di parlare con me perché sanno che io gli faccio un po’ da fratello maggiore e non ho problemi a parlare di queste cose, però mi rendo conto che non è facile, cioè per me la questione è sdoganata ma non lo è per tutti.
West è anche uno che ha reagito ai suoi problemi trasformandosi in una specie di agit-prop. Interviene su tutto: schiavitù, Trump, moda, Dio, musica. Non c’è nulla che non commenti e le sue interviste finiscono in prima pagina sul New York Times. Ora, dato che è parecchio tempo che il rap è mainstream anche qui in Italia, come mai non succede la stessa cosa?
Perché il rapper come maître à penser non è ancora in auge. Un po’ per un fatto anagrafico, l’età media del giro del rap italiano rispetto all’estero è inferiore, non so bene spiegarti perché, io mi sono dato una spiegazione e cioè che in Italia non esiste un’industria discografica per ragazzi, quindi i ragazzi hanno assunto il rap anche per colmare quel deficit proprio di Hannah Montana, ecco. In effetti, se penso a un ragazzo anche molto giovane mi chiedo che cosa cazzo deve ascoltare e quindi il rap è andato a colmare quella fetta di mercato lì, abbassando l’età media. Secondo, è anche un genere giovane, e per quanto sia mainstream da anni, ed è vero, non ha la longevità che ha negli Stati Uniti. Terzo, a differenza di Usa e Francia, dove gli organi di comunicazione, i management, le radio, le tv, le riviste sono in mano a gente della scena, qui non è ancora così. Un po’ sta succedendo adesso, per esempio noi abbiamo TRX (la web radio di solo rap ideata da Paola Zukar, nda), esiste Esse Magazine che fa approfondimenti interessanti però in generale c’è veramente poco spazio. Infine, mi pare che in Italia il dibattito culturale sia ridotto ai minimi termini.
È una disamina che condivido, anche se trovo un po’ strano che non abbia considerato un minimo di pavidità degli artisti dell’industria musicale italiana, rap compreso…
È interessante questa cosa perché ai tempi di Santeria c’era stato un po’ un dibattito sull’intervento/non intervento, era un po’ l’inizio di Salvini, e c’erano stati vari post sui social, un minimo di discussione si era generata ma poi in effetti si è un po’ tutto fermato. Io penso però che in realtà l’impegno sociale sia nel fare la bella musica perché è troppo facile fare musica di merda per poi fare dichiarazioni impegnate. L’impegno lo metti anche in scrittura, nella metrica, nella forma, insomma in quello che fai.
L’ambientalismo però in un pezzo rap non me lo ricordavo e invece in Persona c’è una traccia intitolata nientemeno che Greta Thunberg.
Il pezzo sta su una linea sottile tra l’impegno e il non impegno. Io sono abbastanza pessimista di mio, tendo a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto e faccio fatica a pensare che l’impegno per il pianeta passi attraverso le persone comuni. Da una parte certo, la raccolta differenziata è utile però dall’altra nascono un milione di cinesi al minuto insomma, non lo so (ride, nda). Come dico nel pezzo è come frenare l’invecchiamento con la centrifugata di avocado e zenzero, mi pare sia un po’ quello. Mi piace Greta Thunberg, è un po’ come madre Teresa di Calcutta, non la puoi odiare: il messaggio è positivo, quel che dice è condivisibile. Non mi trova completamente d’accordo però questo suo j’accuse totale che fa alle generazioni precedenti, perché la gente come dico nel pezzo deve anche pensare un po’ a campare. Mi sembra incredibile che a una persona che lavora tutto il giorno al ritorno a casa gli si chieda anche di salvare il mondo.