Rovazzi ai confini della realtà
Per la prima volta una celebrity diventa un personaggio di ‘Call of Duty’. Si chiama Morte, grida “andiamo a comandare” e ha il volto di Fabio Rovazzi, che dal suo appartamento di Milano ci ha raccontato come si passa dai tormentoni a uno dei videogame più giocati di sempre
Fabio Rovazzi in 'Call of Duty: Modern Warfare'
«C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità; è la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi “Ai confini della realtà”».
«Sai, io e J-Ax siamo apprezzati dagli incel perché pensano che siamo degli incel che ce l’hanno fatta» mi dice ridendo. Sono in casa di Rovazzi, più precisamente nell’appartamento in cui si è appena trasferito – non vive più in un monolocale. Gli elettrodomestici futuristici, il casco di Tony Stark autografato da Stan Lee, ma soprattutto il suo studio pieno di monitor, macchinari, led e computer possono contribuire a darti l’impressione di trovarci in una navicella spaziale. «Quando andavo alle elementari tutti avevano il Game Boy, mia madre non me lo ha mai comprato. Allora mi sono inventato questo giro di spaccio di carte di Pokémon per farmi i soldi e alla fine sono riuscito a comprarmelo. Fatto sta che mi becca subito e il Game Boy sparisce dopo appena un giorno di gloria. Poi succede che un amico di mia mamma mi regala un computer, ma di quelli tipo Celeron su cui non girava nulla – era veramente troppo scarso a livello di prestazioni – e quindi decido di instaurare un rapporto di amicizia con il proprietario del negozio di computer sotto casa mia. Ed è così che ho iniziato ad appassionarmi al mondo della costruzione dei computer. Pezzo dopo pezzo mi sono assemblato il mio e ho lavorato un po’ di anni in questo ambito. Tutti i server dell’Istituto dei Ciechi li ho fatti io, per esempio».
Ho conosciuto Rovazzi cinque anni fa, quando ancora non era chiarissimo che strada avrebbe preso, e qualche mese più tardi è successo qualcosa che nemmeno lui si sarebbe aspettato. «Ai tempi facevo il videomaker, il mio lavoro era girare video musicali per un po’ di artisti. A un certo punto Merk & Kremont vengono da me a chiedere un video, anzi due, e mi dicono “però guarda Fabio c’è un problema, non abbiamo budget…”. E io non so per quale motivo, completamente a caso, ho chiesto loro di darmi due basi. Una specie di baratto. E la prima base che fecero in cambio dei due video era Andiamo a comandare. Ma io ti giuro che non mi spiego ancora oggi come mai mi è venuto da chiedere quella base, non avevo mai cantato in vita mia».
Rovazzi mi ha sempre dato l’impressione di trovarsi lì un po’ per caso, e di saper magicamente sfruttare l’occasione per tirare fuori qualcosa di assurdo. Un fuori-luogo nel posto giusto. In mitologia esiste il tòpos letterario del trickster, definito come “quel personaggio che disobbedisce al comportamento tradizionale, cerca nuove idee ed esperienze, distrugge le convenzioni e l’autocompiacimento”. Guardando al suo percorso, fatto di trovate assurde e ribaltamenti autoironici, penso a una sorta di antieroe: «io mi guardo allo specchio e sono consapevole di non essere bello», mi dice, «ma non me ne frega un cazzo perché so di avere un sacco di skill».
All’inizio nessuno lo prendeva sul serio. Alcune delle più brillanti personalità del nostro panorama culturale avevano addirittura individuato l’ascesa al successo della mente diabolica dietro Andiamo a comandare come il punto di non ritorno della musica italiana — certo, prima di lui tutti Beethoven. Contro ogni aspettativa ha avuto ragione lui, e, inesorabilmente, è riuscito a trasformare il nostro panorama nazional-popolare in uno dei suoi esperimenti meta-narrativi. Ogni personaggio che compare nei video di Rovazzi accetta di assecondare il proprio potenziale memetico, esattamente come fa lui. È come se la sua abilità di stare in equilibrio su un piano di realtà surreale gli permettesse di affrontare le missioni più improbabili, dal confezionamento di un tormentone in grado di fondere i nostri cervelli per sempre («io ti giuro che se me lo mettono quando sono al ristorante posso vomitare» mi confessa scherzando, ma forse neanche troppo) fino all’ultimo assurdo sviluppo della sua esistenza, che è poi il motivo per cui ci siamo incontrati: a ventisei anni nemmeno compiuti, Rovazzi inaugura la sua carriera come operatore di Call Of Duty: Warzone, uno dei videogame più giocati della storia – durante il lockdown Activision ha annunciato che sono stati raggiunti i 75 milioni di utenti attivi. Un numero impressionante, se si pensa che il picco di telespettatori di Sanremo si assesta su poco più di 15 milioni e gli Oscar 2019 stanno sui 29 milioni. Sembra assurdo a tutti, in primis a lui, anche perché l’unico real-life-character inserito in Warzone era un veterano statunitense di origini vietnamite, che nel gioco si chiama Ronin. Guardando i commenti ai primi video di presentazione di Morte, l’operatore che ha le sembianze e la voce di Rovazzi, noto che la community italiana appare quantomeno spiazzata: cosa c’entra uno come lui con un mercenario? Cosa c’entra con la guerra e le armi? «Ma sì, li capisco», mi dice. «Non ti nascondo che anch’io se vedessi un personaggio all’interno del mio videogioco preferito mi incazzerei perché vorrei esserci io, un po’ di rosicamento dentro il mio cervello ci sarebbe».
Anche questo nuovo capitolo della vita di Rovazzi sembra essersi aperto per caso, anche se forse più che di caso si tratta di sapersi trovare al posto giusto al momento giusto. «L’anno scorso vado al Lucca Comics perché sono testimonial di Call of Duty e invitano come ospite Bernardo Antoniazzi che è uno degli sviluppatori di COD. Bernie è un italiano che ormai vive a L.A. – è lui che ha inventato il modo di fare tracking facciale: un genio del male. Facciamo un po’ di interviste insieme, inizio a conoscerlo meglio e mi racconta che lui per cazzeggio totale quando lavora a un videogioco si inserisce nel background: in alcune missioni trovi duemila Bernie vestiti in modo diverso. E a un certo punto mi butta lì questa proposta. Mi fa: “senti, quando passi a L.A. ti scannerizzo e se vuoi ti inserisco nel gioco, ti faccio fare la comparsa”. Quando effettivamente sono andato a Los Angeles Bernie mi ha portato negli studios di Infinity Ward – un posto fantascientifico in cui hanno questi macchinari che sembrano arrivati dal futuro. Mi scannerizza tipo dodici espressioni facciali, poi mi riempie di sangue, mi fa altre foto e poi il giorno dopo mi invita in un altro studio per fare il bodyscan. Dopodiché me ne torno a Milano e qualche mese più tardi mi scrive dicendomi “guarda, ho parlato col direttore creativo e gli è piaciuta un sacco la tua faccia. Vuole inserirti nel gioco come operatore”. Io rispondo “In che senso operatore?!?”. Mi spiega che questo Joel ha deciso di fare un tributo a Sergio Leone “e quindi sei una specie di cowboy”».
«Il mio personaggio si chiama Sergio Sulla, detto Morte. È uno che ha sempre combattuto per i suoi ideali, finché ha capito di non poter combattere all’interno delle regole di questo mondo, quindi ha ucciso i suoi ideali ed è diventato un mercenario. Per questo si chiama Morte. Negli Stati Uniti sono fissati con gli Spaghetti Western. Agli studios ho conosciuto il tipo che ha creato i caschi di Darth Vader e Iron Man e lui è un fan sfegatato di Terence Hill, per dirti. Infatti quando è uscito il leak del mio operatore gli americani sono impazziti. Ma la cosa che fa più ridere è il doppiaggio. Durante il lockdown mi hanno mandato un kit con un microfono assurdo e un copione con 1800 frasi in inglese e 1800 in italiano e tre diversi modi di portarle. Lì mi hanno dato un sacco di libertà, anche perché loro volevano che il personaggio in momenti di crisi si lasciasse scappare parolacce in italiano… Se ti faccio leggere il copione originale muori dal ridere perché si sono inventati espressioni che non esistono – robe tipo “porco cazzo”. E quindi nel doppiaggio sono andato a ruota libera, ho inserito anche qualche easter egg: ovviamente ho dovuto dire “andiamo a comandare”. A differenza di altri personaggi, il mio è un po’ più assurdo nelle espressioni, cioè commento effettivamente come se fossi io nel gioco, sono solo un po’ più cattivo. Oltretutto a me di solito non piace la mia voce, invece sono molto contento di come è venuta, soprattutto le parti urlate. Nelle ultime session di doppiaggio bevevo soltanto camomilla e miele perché non ce la facevo più. Non ho mai urlato così in vita mia. Era un bel modo per rilassarsi. Poi erano tutte robe tipo “MUORI STRONZO!”».
«Tu come l’hai presa che ti chiami Morte?», gli chiedo. «A me sembra figo!», mi risponde ridendo. «Cioè, poteva andare molto peggio… Da me ti aspetteresti una cosa più coccolosa, più funny, invece è stata l’occasione di entrare nel mondo dei videogiochi letteralmente nella maniera giusta, cioè non sono arrivato lì con uno stratagemma, sono proprio stato catapultato dentro quella realtà. Mi sono lasciato totalmente trasportare».
Paradossalmente, più va avanti la nostra chiacchierata, più mi rendo conto di avere a che fare con una persona che è estremamente consapevole dei confini del suo personaggio e della necessità di prenderne le distanze, consapevolezza che, mi dice, è maturata esponenzialmente durante il lockdown. «È come se il personaggio che mi sono costruito fosse vincolato da una serie di limiti, che in parte devo assecondare, anche se mi rendo conto che a volte vorrei esprimere cose che è un po’ difficile mettere in qualche tormentone estivo. Ad esempio io Senza pensieri non volevo farlo, e infatti non è nemmeno uno dei miei video migliori, però a un certo punto quell’estate – non me ne dimenticherò mai – ero allo stadio e un bambino bellissimo mi ha guardato con questi occhioni e mi ha detto “io voglio il tuo pezzo quest’estate”, ma te lo giuro me l’ha chiesto come se fosse questione di vita o di morte. E allora sono tornato a casa e mi sono messo a scrivere quel pezzo. Praticamente l’ho fatto per lui, chissà chi era… Forse era un angelo, una visione. Quest’anno però era impossibile per me entrare in quel mood, è un periodo piuttosto cupo, sono introspettivo, sono io con me stesso in questo momento».
Il 2020 è un anno di crisi collettiva e individuale, e Rovazzi ha scelto di non ignorare questa crisi, ma condividerla con la sua community, ritornando per un periodo alle sue origini da gamer. «Se non ci fosse stato Twitch non so come sarei uscito da questo periodo. Mi ha letteralmente tenuto in piedi. Però questo momento di stop mi sta facendo bene… Negli ultimi quattro anni sono stato effettivamente un po’ distaccato dalla realtà, come se fossi sempre ubriaco. A un certo punto ho perso la bussola, non capivo più chi fossi né cosa volessi fare. Non riuscivo più a esaltarmi delle cose. Me ne sono reso conto quando ho girato il video con Will Smith. Sì, ero gasato, ma il me di tre anni fa se avesse incontrato Will Smith sarebbe impazzito. Ho realizzato di essere entrato in un loop in cui le cose incredibili erano quasi diventate la normalità, ma non voglio che sia così, perché poi entusiasmarsi per le cose le fa funzionare meglio».
Guardando al quadro generale, è ancora impossibile definire Rovazzi ed è inutile cercare di categorizzare quello che fa. «In questi anni sono saltato di situazione in situazione, anche se ti assicuro che, per quanto possa sembrare casuale, non lascio niente al caso. Però non sono mai riuscito a definire esattamente la mia identità, cioè mi piace fare tutto, io farei tutto. È come se avessi una perenne insoddisfazione. Quando faccio una cosa godo per 10 minuti, poi voglio fare altro, ma non è per il successo. Il successo è sempre una conseguenza che io non ho mai voluto nella sua interezza, non l’ho mai cercato. Poi se lo cerchi non lo trovi. Quelli che mirano al successo non capiscono che Instagram, i social, tutte ‘ste stronzate qua devono un essere la conseguenza di qualcosa, non devono essere la centralità di quello che fai, sennò non c’è niente, è tutto vuoto. Però a un certo punto questo successo mi è scoppiato tra le mani. Quindi durante la quarantena mi sono fermato, ho sgombrato la mente e ho cercato di capire cosa mi fa stare bene davvero. Ad esempio tra poco lancerò la mia agenzia pubblicitaria, di cui per ora non posso dirti molto, però ecco, questo è un progetto che mi gasa. Prima di Andiamo a comandare facevo l’autore per un po’ di personaggi, mi piaceva essere un addetto ai lavori, è rilassante quando quello che crei non ricade per forza su te stesso. Adesso voglio ripercorrere chi sono realmente e costruire quello che faccio a partire da lì. Voglio ritrovare la mia felicità, quello che piace a me, sperando che piaccia anche a qualcun altro. Fare letteralmente quello che voglio».