Timothée Chalamet
Il ragazzo elettrico
Giura di non essersi mai sentito schiacciato («È il tipo di sfida che cerco»), ma Timothée Chalamet racconta anche di essere andato «oltre il limite» per impersonare Bob Dylan in ‘A Complete Unknown’: «Ho avuto tre mesi della mia vita per vestire i suoi panni, dopo cinque anni di preparazione. Interpretarlo era il mio unico scopo». L’attore e i suoi co-protagonisti (da Elle Fanning a Monica Barbaro) ci accompagnano dietro le quinte del più atteso biopic dell’anno
Foto: Aidan Zamiri per Rolling Stone
Oggi è in viaggio nella parte Nord del Paese, a 130 chilometri dal confine col Canada, dove si dice che il vento picchi duro. Con un pick-up Toyota preso a noleggio arriva a un incrocio alberato di periferia, spegne il motore e si immerge nell’aria di fine gennaio. Ha addosso un piumino e una felpa grigia, col cappuccio tirato su, sui capelli castani scompigliati. Si dirige verso una casetta squadrata color crema, all’angolo, percorrendo un vialetto delimitato da due cespugli. Alla sua sinistra c’è un cartello stradale quasi nuovo: recita “Bob Dylan Drive”.
Ha passato l’ultima ora e 20 minuti sulla Highway 53 ghiacciata, slittando tanto – tra Duluth e Hibbing, in Minnesota – da costringere gli assicuratori di almeno due importanti franchise di Hollywood a procurarsi velocemente dello Xanax. Ma Timothée Chalamet ha una missione e questo pellegrinaggio è una delle ultime imprese che deve compiere.
Inizialmente avrebbe dovuto avere quattro mesi per prepararsi a interpretare Bob Dylan da giovane sul grande schermo. Invece, grazie anche a una pandemia e agli scioperi di Hollywood, ha avuto cinque anni di tempo: le cose sono andate un po’ per le lunghe. In principio non sapeva quasi nulla di Dylan, ma alla fine si è autoproclamato «fedele discepolo della Chiesa di Bob», arrivando a citare outtake (Percy’s Song del 1963 è una sua ossessione) e canali YouTube dove si trovano bootleg di Dylan. «Dovevo superare il limite, durante la preparazione», mi dirà, «al punto da sentire che mi ero spinto oltre».
Ha lavorato con un vocal coach, un insegnante di chitarra, un dialect coach, un movement coach e persino un armonicista. A un certo punto, ha trascritto i testi di Dylan su dei fogli di carta e li ha attaccati alle pareti. Chalamet si portava la chitarra acustica a lezione di canto, dove a volte, senza preavviso, si presentava parlando con la voce di Dylan. Nel film A Complete Unknown sentiamo Chalamet cantare e suonare per davvero canzoni intere dal vivo, sul set. «Quella roba non si può ricreare in studio», sosterrà poi. «Quando cantavo con una base di chitarra pre-registrata, nella mia voce sentivo la mancanza di un movimento del braccio».
Chalamet è cresciuto col culto di Kid Cudi, e con «aspirazioni fallimentari di rappare» a sua volta. È ancora un grande fan dell’hip hop, ma ora ha ritarato il suo cervello così profondamente che sta iniziando ad appassionarsi ai Grateful Dead. Anche quando ha girato altri film, Chalamet non ha mai abbandonato il pianeta Dylan. Nel telefono ha un video in cui, sul set di Dune, canta Don’t Think Twice, It’s All Right con addosso la tutina intergalattica di Paul Atreides e una foto dove suona la chitarra vestito da Willy Wonka.
A salutare Chalamet esce dalla casa un uomo di 82 anni che si chiama Bill Pagel. È un farmacista in pensione e, forse, il più grande collezionista di Bob Dylan al mondo: ha comprato la casa nel 2019. Dylan ha vissuto qui, con la sua famiglia, tra i 6 e i 18 anni e Pagel sta lentamente trasformando l’edificio in un vero e proprio museo in onore dell’ex inquilino, restaurandolo e riempiendolo con gli oggetti della sua collezione. Chalamet trascorre lì dentro un’ora, seduto nella stessa camera da letto in cui un giovane Robert Zimmerman guardava il suolo innevato e rifletteva sul suo futuro. Scorre una serie di 45 giri che sono davvero appartenuti a Dylan: Little Richard, Johnny Cash, Gene Vincent, Buddy Holly.
Chalamet poi se ne va per partecipare a una visita guidata al liceo locale, dove vede gli studenti di recitazione che provano proprio sul palco su cui Dylan si esibiva con la sua rock’n’roll band di teenager. C’è ancora il pianoforte Steinway su cui suonava. Quando i ragazzi del club del teatro si rendono conto di chi sta osservando le loro prove si agitano, e Chalamet passa un po’ di tempo a rispondere alle loro domande.
Prima di lasciare la città, si dirige ancora una volta verso la casa, questa volta inseguito da tre giovani donne che saltano fuori dalla loro auto a caccia di un autografo o di un selfie. Pagel lo fa entrare e Chalamet può finalmente vedere un manufatto importantissimo custodito nel seminterrato: un disegno che Dylan ha fatto intorno al 1960, sul retro della sua copia di un album del leggendario cantante di protesta Woody Guthrie, quello di This Land Is Your Land. Il giovane Dylan, nel processo di riplasmarsi a immagine di Guthrie, si è ritratto su una strada che conduce a New York, con un cartello che dice: “Destinato alla gloria”. Alla fine della strada ha disegnato Guthrie.
Dylan aveva previsto il suo futuro nella scena folk del Greenwich Village, ma anche la trama di un biopic hollywoodiano che avrebbe conquistato un idolo generazionale più di sessant’anni dopo. Nel gennaio del 1961, in un momento rievocato accuratamente in A Complete Unknown, anche se con qualche piccola licenza, Dylan ha fatto visita a Guthrie in un ospedale del New Jersey dove era ricoverato per la malattia di Huntington. Lui, esordiente, ha tirato fuori la chitarra e ha cantato per il suo eroe.
Così è iniziato il viaggio incredibile di quattro anni, raccontato nel film, in cui Dylan è diventato l’erede artistico di Guthrie, infiammando una generazione con le profezie dure dei suoi testi fantasiosi e il ringhio provinciale della sua voce, prima di imbracciare una Fender Stratocaster e trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. Durante il suo percorso, viene affiancato dall’amico e collega cantante folk Pete Seeger (nel film interpretato da un Edward Norton incredibilmente irriconoscibile), si innamora della giovane artista e attivista politica Suze Rotolo (qui ribattezzata Sylvie Russo e interpretata da Elle Fanning) e ha una relazione musicale e sentimentale con la cantante Joan Baez (Monica Barbaro), la cui fama inizialmente adombra la sua.
A differenza di tanti altri grandissimi degli anni Sessanta, Dylan è andato avanti ostinatamente, attraversando varie fasi col passare dei decenni, e non ha ancora finito la sua corsa. Ma questa tenacia rischia di offuscare la percezione di quanto lui abbia cambiato il mondo agli esordi e anche quando Dylan-goes-electric, evento che, in realtà, è stato frutto di una trasformazione graduale di stile e tematiche nel corso degli anni, per cui è passato dalle canzoni acustiche di protesta al rock più rombante e astratto.
Molte idee sui vari generi di musica popular che diamo per scontate (che le superstar possono avere voci inusuali, che il pop può essere un veicolo di espressione personale e politica profonda, che i testi possono essere poesia, che gli artisti possono trasformarsi radicalmente da un periodo all’altro) hanno radici nel lavoro di Dylan dal 1961 al 1965. Il suo impatto si è spinto ben oltre i confini del rock: artisti come Stevie Wonder e Nina Simone hanno coverizzato le sue canzoni e, come mi ha ricordato di recente George Clinton, persino il suono e i testi della Motown sono cambiati dopo Like a Rolling Stone.
Qualcuno sostiene che Dylan sia troppo misterioso, troppo strambo per il tipo di narrazione lineare che si tenta in A Complete Unknown, e può essere ritratto solo in un film come Io non sono qui del 2007, che assegna caleidoscopicamente la sua parte a più attori. Il regista e co-sceneggiatore di A Complete Unknown, James Mangold, aveva già dato la migliore patina hollywoodiana alla storia della vita di Johnny Cash nel suo ultimo film musicale, il biopic premio Oscar del 2005 Walk the Line – Quando l’amore brucia l’anima, e l’anno scorso è stato scelto come successore di Steven Spielberg per dirigere Indiana Jones e il quadrante del destino. Mangold si rifiuta di credere che il genio rivoluzionario di Dylan non permetta di mostrarlo come un essere umano. E sfotte questa convinzione imitando la voce di un critico sprovveduto: «Come si fa a scrivere di Bob Dylan? Scriverne non è abbastanza eclettico! Bisognerebbe versare sangue per Bob Dylan!».
Detto questo, il filmmaker e i suoi collaboratori hanno dovuto affrontare una sfida enorme. «Le persone sono terribilmente protettive nei confronti di Bob Dylan e della sua legacy musicale», spiega Chalamet, «perché in un certo senso è qualcosa di puro e non vogliono vedere un biopic che la travisa». Per non parlare del fatto che stava interpretando, come dice lui stesso, «un uomo che non era una persona diretta», un artista che ha sempre provato un certo piacere nel nascondere la sua vera natura. In più, gran parte di questa performance è stata di carattere musicale. «Non ha mai voluto prendere scorciatoie», spiega l’insegnante di chitarra di Chalamet, Larry Saltzman, un musicista di alto profilo che ha suonato per anni con Simon & Garfunkel. «Se gli dicevo qualcosa del tipo: “Ok, si fa così, ma esiste un trucchetto”, la sua risposta era sempre: “Niente scorciatoie”».
Alla fine Chalamet manda a Mangold una foto del disegno di Dylan. La sincerità di quella venerazione per il suo eroe conferma il punto di vista del regista: forse Bob non è poi così sfuggente. «È davvero un gesto che trasmette ammirazione e amore», dice Mangold, riflettendo sul viaggio di Dylan. «Arriva questo ragazzo. È ispirato. Insomma, non potrebbe essere più semplice di così».
In quel disegno, e durante tutto il tempo trascorso in Minnesota, Chalamet inizia anche a vedere in Dylan qualcosa che riconosce, un sentimento che non ha paura di ammettere di aver provato anche lui: «Sei legato a un destino. Ma è un legame fragile».
Timothée Chalamet non assomiglia per niente a Bob Dylan, adesso. Qui a New York, negli ultimi giorni di agosto, sembra a malapena sé stesso. Le riprese di A Complete Unknown sono finite dieci settimane fa e, dall’altra parte del Paese, Mangold sta facendo uno sprint finale in post-produzione in modo da fare uscire il film il giorno di Natale negli Stati Uniti (in Italia arriva domani, 23 gennaio, ndt). Chalamet si sta già preparando a girare il suo prossimo film: Marty Supreme di Josh Safdie, in cui interpreta un campione di ping pong degli anni Cinquanta. Quindi ha tagliato i suoi capelli vaporosi, che pare costituissero almeno il 25% dell’essenza della sua Timmosità. I baffi e il pizzetto che si è fatto crescere gli tolgono un altro 10%. Quando, un paio di mesi dopo, si imbuca nella bolgia di un concorso per sosia di Timothée Chalamet, a Washington Square Park, con i capelli ancora corti ma senza pizzetto e con i baffi più folti, sembra somigliare a sé stesso meno del tizio che vince.
Ci incontriamo nella hall del Chelsea Hotel, dove un tempo viveva Dylan; nel film, c’è un’inquadratura degna di finire su un poster che ritrae Chalamet, in una serata nebbiosa, di fronte all’insegna verticale al neon del Chelsea, in perfetta tenuta alla Dylan del 1965. Il tutto colpisce molto meno vedendolo in pieno giorno, con Chalamet vestito come un ragazzo che frequenta il college, in pantaloncini cargo e maglietta bianca a maniche lunghe, catenina d’oro al collo, berretto marrone degli Yankees ben calcato in testa. L’unico indizio del livello di celebrità assurdo di cui gode sono le sue Nike Field General ’82, una riedizione che lui stesso ha reso popolare lo scorso anno, quando si è presentato a una partita dell’NBA con un paio di quelle scarpe realizzate in anteprima.
Ci dirigiamo verso Ovest sulla 23esima Strada, attraversando l’Eighth Avenue, con Chalamet che schiva con disinvoltura le biciclette come un perfetto abitante di Manhattan. È un pomeriggio di un giorno feriale nuvoloso e le strade sono affollate, ma nessuno lo guarda. «Qui mi sento a casa», dice. «Sto bene». Più tardi ha un meeting con Safdie (che si è detto sollevato quando ha saputo che l’intervista di oggi era su Bob Dylan e non riguardava il suo progetto top secret sul ping pong) e presto dovrà volare in Francia per la nascita del primo figlio della sorella maggiore. Però Chalamet è palesemente rilassato, mentre cammina con le mani in tasca. Mettere la parola fine al film dopo tutto questo tempo deve essere stato d’aiuto, ma lui giura di non essersi mai sentito schiacciato da tutto questo. «È il tipo di pressione che desidero avere nella mia vita», dice. «È il tipo di sfida che cerco».
Verso l’inizio del film, Dylan incontra Guthrie nella sua squallida stanza d’ospedale: lì (ed è una delle divergenze del film dalla realtà), casualmente, c’è già in visita il Seeger interpretato da Norton. Bob si presenta usando il nome “Dylan” per quella che potrebbe essere la prima volta nella sua vita, con un sottile mix di sfida ed esitazione. Poi suona per intero Song to Woody, una delle prime grandi canzoni di Dylan. È una sequenza rischiosa sotto molti punti di vista, ed è stata una delle prime scene importanti girate da Chalamet. Mentre Guthrie (Scoot McNairy) e Seeger giudicano la performance di Dylan, il pubblico fa lo stesso con Chalamet. Nella versione definitiva del film funziona ogni dettaglio, fino al plettro della chitarra, il sudore sulla fronte pallida di Chalamet e la minuscola protesi sul suo naso. «La sua interpretazione», dice Norton, «è eccezionale».
«Quella sera sono tornato a casa e ho pianto», racconta Chalamet. «Non solo perché Song to Woody è una canzone che conosco da sempre e mi è sembrato che la facessimo vivere, ma anche perché sentivo di potermi mettere da parte. Nell’orgoglio che provavo non c’era nessuna ostentazione. Pensavo solo: “Wow, questo è come il teatro old school o qualcosa di simile”. Stavamo dando vita a qualcosa che è accaduto, affrontando con umiltà e coraggio quel viaggio per raccontare la storia a un pubblico che altrimenti non la conoscerebbe. Mi è sembrato un compito nobile».
Si è imbattuto per la prima volta in A Complete Unknown (che originariamente era intitolato Going Electric e si basava su Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica, il libro del 2015 di Elijah Wald) trovandolo in un elenco di potenziali progetti che gli era arrivato via mail ancora prima che Mangold venisse ingaggiato. A quel punto, Chalamet aveva un’idea abbastanza vaga di Dylan, lo identificava con una figura distante che gli appassionati di musica erano obbligati a venerare e un artista molto apprezzato dal padre di un suo amico d’infanzia. In prima battuta, a Chalamet è piaciuto semplicemente l’aspetto di Dylan. «Ho fatto una ricerca veloce su Google e c’era qualcosa in quegli occhi, sai?».
Ben presto ha scoperto che Dylan inizialmente si vedeva come un artista rock, ma è diventato una superstar della musica folk prima di conquistarsi la celebrità nel mondo del rock. Chalamet ha ricostruito rapidamente la vicenda basandosi sulla propria esperienza. Per come la vede lui, Dylan, nonostante la venerazione per figure come Guthrie, Lead Belly e Odetta, ha usato la scena folk come una sorta di entrata di servizio. «Visto che non poteva diventare subito un Elvis o un Buddy Holly», spiega Chalamet, «si è orientato verso Woody Guthrie e altre cose che erano un po’ più fattibili, e si dava il caso che fosse proprio bravo. Questo mi ha subito colpito».
Chalamet è diventato una star del cinema grazie a ruoli in film indipendenti molto apprezzati, interpretando un adolescente che si scopre omosessuale in Chiamami col tuo nome, un idiota che si prende la verginità della protagonista in Lady Bird, un giovane tossicodipendente tormentato in Beautiful Boy, un corteggiatore innamorato in Piccole donne. Ma da bambino guardava compulsivamente Il cavaliere oscuro e i drammi più intimi non sono mai stati il suo sogno. Ha fatto provini per franchise d’azione e film come Maze Runner – Il labirinto e Divergent, fallendo ogni volta. «Mi davano sempre lo stesso feedback», dice parecchio dispiaciuto: «“Non hai il fisico giusto”. Una volta un agente mi ha chiamato e mi ha detto: “Sono stufo di ricevere gli stessi commenti. Smetteremo di proporti per questi progetti più grandi, perché non stai mettendo su peso”. Stavo cercando di ingrassare e non ce la facevo! Il mio metabolismo, o quello che è, non ci riusciva».
Era un attore giovane e brillante con una straordinaria capacità di scegliere parti ricercate in film indie, ma è anche vero che si accontentava di prendere quello che poteva. «Stavo bussando a una porta che non si apriva», racconta. «Così mi sono presentato a quella che pensavo fosse una porta più modesta, ma che, in realtà, alla fine è stata determinante, per me». Così Chalamet è arrivato a fare i film di Dune e paragona, senza mezzi termini, la sua interpretazione di un messia spaziale che cavalca vermi giganti nell’anno 10191 al proprio going-electric. I primi ruoli che ha interpretato, dice, erano «così profondi e vulnerabili. C’è un’intimità, in quelle parti, che sento nella musica del primo Dylan, nelle sue prime canzoni folk». Fa una pausa e trova la metafora. «E poi alla fine ti viene voglia di usare degli strumenti diversi».
Ha anche sposato l’idea che la storia di Dylan e la sua arte non abbiano radici in alcun trauma particolare. A differenza di Cash o, per esempio, di Dewey Cox, lui non è tormentato dal passato e non si guarda indietro. Dylan non ha mai dovuto pensare a tutta la sua vita prima di suonare e nemmeno Chalamet. «Ho accettato l’idea che il mio talento potesse essere semplicemente un talento», dice. «Potrei descrivere il quadretto di un’educazione inconsueta perché sono cresciuto in una casa popolare per artisti, il Manhattan Plaza: è una cosa strana. Potrei cercare di dare a tutto questo una connotazione negativa. O potrei provare a dargliene una positiva, ma è entrambe le cose. Ci sono molte sfumature». Ma per lui il punto è che non importa. «Non ho bisogno di individuare qualcosa che risale alla mia giovinezza. Il talento è talento. Quello che hai da dire è quello hai da dire. Non c’è bisogno di un Big Bang».
Elle Fanning recita da quando aveva tre anni, ma non era mai stata così elettrizzata alla vigilia di una prova. Durante la pre-produzione di A Complete Unknown, un assistente le ha inviato un programma settimanale accennando di sfuggita che ci sarebbe stata una prova con Mangold… e Bob Dylan. «Ho pensato: “Oh, mio Dio!”», racconta via Zoom, con gli occhi azzurri che brillano. È una domenica pomeriggio di ottobre e lei si sta rilassando nella sua camera d’albergo, in Norvegia, durante un giorno di pausa dalle riprese di un film per la regia di Joachim Trier. «Ho pensato a tutte le cose da dire e da chiedere. Ho scelto con cura come vestirmi: “Oggi incontrerò Bob Dylan!”».
Gli autori di A Complete Unknown sperano che il film faccia germogliare tutta una nuova generazione di aficionados di Dylan e, che ci crediate o no, alle pendici dei social media c’è già una fanbase del tipo “Bob è così carino” fra i giovani della Generazione Z. Ma Fanning, 26 anni, era molto più avanti di loro. È una sua fan dall’età di 13 anni, quando lo scrittore e regista Cameron Crowe le ha fatto conoscere la musica di Dylan sul set di La mia vita è uno zoo. «Alle medie mi scrivevo “Bob Dylan” sulla mano tutti i giorni», racconta l’attrice. Interpretare il primo amore di Dylan, quindi, era perfetto per lei: «È come se avessi desiderato quella parte tanto da riuscire a interpretarla».
Il giorno in cui avrebbe dovuto incontrare il suo idolo, Fanning ha aperto una porta e si è trovata davanti Mangold, barbuto e con l’aria autorevole. Accanto a lui c’era Timothée Chalamet. E nessun altro. La spiegazione era semplice: per favorire l’immedesimazione, Chalamet era stato indicato come “Bob Dylan” sui fogli di convocazione della produzione e da lì è nato l’equivoco. «Probabilmente sono la prima persona al mondo», dice Fanning, «a essere rimasta delusa perché aveva una prova con Timothée Chalamet, vero? La prima ragazza nella storia».
Il vero Dylan, anche se non è mai stato presente sul set, è stato coinvolto nella realizzazione di A Complete Unknown e ne è anche produttore esecutivo. Durante la pandemia, ha partecipato a diversi meeting con Mangold a Los Angeles e, alla fine, ha esaminato la sceneggiatura riga per riga. «Jim ha una sceneggiatura con gli appunti di Bob, da qualche parte», dice Chalamet. «Lo supplicherò per averla. Ma non me la darà mai». «Mi sembrava che Bob volesse solo sapere cosa stavo combinando», dice Mangold. «Come se si chiedesse: “Chi è questo tizio? È una testa di cazzo? Ha capito tutto?”. Penso che siano le domande normali che chiunque si fa, quando si mette in gioco con qualcuno».
Mangold non lo ammette direttamente, ma Fanning dice che è stato Dylan stesso a volere che nel film non venisse usato il vero nome della sua prima fidanzata newyorkese, Suze Rotolo, morta nel 2011. Lei era un’artista e un’attivista che l’ha avvicinato alla politica di sinistra, gli ha ispirato Don’t Think Twice, It’s All Right, tra le varie canzoni, e appare a braccetto con lui sulla copertina del suo secondo album, The Freewheelin’ Bob Dylan. Agli occhi di Dylan, Rotolo è «una persona molto riservata che non ha chiesto di fare questa vita», dice Fanning. «Ovviamente per lui è molto cara, molto speciale». A quasi sessant’anni dalla loro rottura, Dylan è ancora protettivo nei confronti della donna che una volta ha definito «la potenziale donna ideale della mia vita».
Anche se il personaggio è stato ribattezzato Sylvie Russo, il suo arco narrativo è uno dei meno romanzati di tutto il film: una scena in cui attacca Dylan a proposito del cambio di nome e del suo riserbo estremo coincide con quanto raccontato da Rotolo nella sua autobiografia del 2008, A Freewheelin’ Time. Dylan ha aggiunto personalmente al copione una battuta che dice il suo personaggio durante uno dei litigi. «Era qualcosa tipo: “Non disturbarti nemmeno a tornare”», dice Fanning. «Sappiamo che le liti sono avvenute realmente, quindi forse stava ricordando qualcosa o magari rimpiangeva qualcosa che le ha detto» (nel film, Russo è preoccupata all’idea di tornare dall’Europa per trovarsi a «vivere con un menestrello misterioso», e Dylan, che ha fatto fiasco col suo primo album, ribatte: “I menestrelli misteriosi vendono più di mille dischi. Forse potresti non tornare del tutto”).
L’interpretazione profondamente sincera di Fanning rende il rapporto Dylan-Russo il nocciolo emotivo del film, con tanto di splendida scena d’addio, attraverso una rete metallica, che sembra destinata a finire, in futuro, in uno showreel dedicato alla magia del cinema. Quella sequenza, in cui Dylan si accende due sigarette tra le labbra e ne porge una a Russo, è un omaggio a una famosa sequenza del classico del 1942 Perdutamente tua con Bette Davis. Fanning e Chalamet l’hanno guardato la sera prima di girare la scena. «Timmy ha pianto guardando il film», racconta Fanning. «E io gli ho detto: “Piangi? Sei proprio un tenerone!”».
Ma anche Fanning ha pianto, la prima volta che ha sentito Chalamet cantare sul set. «Eravamo in un auditorium e io ero seduta in mezzo a un sacco di comparse», ricorda l’attrice. «Jim ha fatto uscire Timmy, che ha tenuto un concerto intero per il pubblico. Lui cantava Masters of War e A Hard Rain’s A-Gonna Fall, e io pensavo: “Gesù”. Tremavamo tutti, perché era davvero surreale sentire qualcuno fare una cosa del genere. Era tutto perfetto, non era una caricatura. Lui era sempre Timmy, ma era anche Bob, in una specie di fusione meravigliosa. Mi ha fatto venire i brividi». Dopo ha sentito delle comparse che si chiedevano se Chalamet fosse in playback. «Ho dato loro un colpetto sulla spalla e ho detto: “Sta cantando. Lo so per certo!”».
Prima che partissero le riprese, Fanning era stata avvertita che Chalamet avrebbe “evitato tutti” sul set, tranne lei. Loro due si conoscevano già bene, visto che avevano interpretato una coppia in Un giorno di pioggia a New York del 2019, e rimanere vicini si addiceva anche al legame fra i loro personaggi. Joan Baez ha un rapporto più burrascoso e conflittuale con Dylan (“Sei un po’ uno stronzo, Bob”, gli dice in una scena post coito) ed è interpretata da Monica Barbaro, che ha conosciuto Chalamet solo una settimana prima dell’inizio delle riprese. Quando l’ha incontrato, lui era già vestito con gli abiti di Dylan. «Avevo un sacco di amici», racconta Barbaro, «che mi chiedevano: “L’hai già visto? L’hai conosciuto?”. Ma mi è sembrata la cosa giusta aspettare e incontrarlo quando eravamo entrati nei nostri personaggi… così come lei ha visto Bob».
Barbaro, che ha interpretato l’unica donna pilota di caccia d’élite in Top Gun: Maverick, precisa che Chalamet non era così fedele al Metodo da doverlo chiamare “Bob” (anche se Mangold dice che a volte Timmy lo preferiva). «Non era totalmente immerso nel personaggio», dice lei ridendo. «Nessuno ha detto “non guardarlo negli occhi” o roba del genere. Ci siamo salutati, ci siamo abbracciati. Io ho detto: “Ho appena visto Dune!”».
Ma sul set Chalamet è rimasto «nel suo mondo», dice Barbaro, «proprio come penso facesse spesso anche Bob. E questa cosa ha favorito la dinamica del rapporto tra Bob e Joan». Una volta i due attori hanno iniziato a chiacchierare tra una ripresa e l’altra, e Mangold ha notato che la voce alla Dylan di Chalamet stava sparendo. «A quel punto», aggiunge Barbaro, «credo che entrambi abbiamo pensato: “No, basta parlare!”».
Chalamet ha fatto molte cose nel tentativo di mantenere sgombra la mente. «Era inflessibile», dice Norton. «Niente visite, niente amici, niente giornalisti: niente di niente. Tipo: “Nessuno si avvicini a noi mentre lavoriamo”. Stavamo cercando di fare del nostro meglio affrontando un argomento che è mitico e sacrosanto per molte persone. Io ero assolutamente d’accordo: non potevamo avere gente intorno in quella situazione. Dovevamo crederci il più possibile. Aveva ragione lui a essere così protettivo».
Chalamet dice di aver imparato dai suoi ex colleghi a darsi una disciplina sul set. Spiega: «I grandi attori con cui ho lavorato, come Christian Bale in Hostiles» – Bale, da giovane, era noto perché si infuriava se qualcosa lo distraeva – «oppure Oscar Isaac in Dune sapevano come fare e come controllare il loro lavoro, in particolare nei casi in cui si camminava davvero sul filo del rasoio». Chalamet in parte ha dovuto sforzarsi di dimenticare quello che comporta la celebrità per tornare a sentirsi come «quando le persone non sono interessate a te e al tuo lavoro perché non sanno ancora chi sei. È esattamente il tipo di esperienza che ho vissuto ai tempi di Chiamami col tuo nome».
Nel tentativo di spiegare tutto questo, l’attore pare quasi triste. «Sembrerà pretenzioso, ma mi impanicava», aggiunge, «l’idea di perdermi un’occasione di scoprire di più sul conto del personaggio perché magari ero al telefono o ero distratto. Ho avuto tre mesi della mia vita per recitare nei panni di Bob Dylan, dopo cinque anni di preparazione. Interpretarlo era il mio unico scopo. Se lo meritava, ma anche di più… non doveva assolutamente succedere che io sbagliassi anche solo un passo perché ero Timmy. Avevo tutto il resto della mia vita per essere Timmy!».
Nelle sequenze girate in esterni non c’è stato modo di fermare la piaga dei paparazzi improvvisati e di quelli professionisti, cosa che sta succedendo anche con le riprese di Marty Supreme, a New York. Questo di sicuro ha messo in crisi gli altri membri del cast. «A volte è stato difficile da gestire», racconta Barbaro, «il fatto di avere un sacco di persone che guardano, con gli iPhone in mano, e pensare: “È il 1961. Sto camminando per strada con una valigia e senza telefono”».
Ma Chalamet non se ne lamenta. «Non ci si può fare proprio niente», dice. E gli piace pensare che sia una cosa positiva, perché significa che alla gente «in qualche modo interessa quello a cui stai lavorando».
Naturalmente alla gente interessa anche lui. Almeno dall’esterno, Chalamet sembra gestire la fama con un’eleganza inconsueta. Esce con Kylie Jenner, ma principalmente lo fa in maniera riservata. È più famoso di qualunque influencer, ma ultimamente sui social posta meno dello stesso Dylan. Nel film, però, il suo Dylan è schiacciato e traumatizzato dalla celebrità e la rappresentazione di Chalamet della paranoia, della paura e dell’isolamento che ne derivano sembra particolarmente vera. Quando accenno all’argomento, lui resta in silenzio per 20 secondi, dice che potrebbe dare una risposta di 45 minuti e poi schiva il colpo. «Non voglio usare le parole “isolamento”, “paura” e “paranoia”», dice, con un tono che pare leggermente paranoico. «Che siano veritiere o meno, penso che questo non sia il modo giusto per descrivere la fortuna e la benedizione che è fare questo lavoro, così come non lo è concentrare l’attenzione su quello stato d’animo. Anche se è tutto vero, non è quello che voglio fare».
I suoi primi anni di vita sono accuratamente documentati, essendo cresciuto sotto gli occhi di un panopticon online che non risparmia nessuno. Abbiamo foto di lui che amoreggia con la fidanzata del liceo, Lourdes Leon (la figlia di Madonna, ndt); il video di una sua esibizione del 2012, nel corso di un talent-show, in cui rappa come Lil’ Timmy Tim davanti a un pubblico di compagne di classe comicamente in visibilio, ha più di cinque milioni di visualizzazioni su YouTube. Ma una parte di lui sembra fargli desiderare di essere più enigmatico, più simile a Dylan. Probabilmente sa anche che non è possibile, ed è forse per questo che ha fatto la mossa, davvero molto poco dylaniana, di presentarsi di persona a quel concorso per sosia. Durante le nostre interviste, oscilla tra confessioni torrenziali e cautela estrema, con poche vie di mezzo.
«Ci capiamo perché facciamo queste cose da tanto tempo», dice Fanning, riflettendo su Chalamet e sulla descrizione che nel film viene fatta del peso della fama. «È come se le persone ti vedessero come una loro proprietà. Come fai a liberarti da questa sensazione o a trovare la tua strada? Si può dire che l’ascesa alla fama di Timothée è stata uguale a quella di Bob? Forse. È tutto piuttosto simile, no? Sei giovane, poi qualcosa va a segno ed è come se ci fosse un’esplosione». Ride. «Ma sappiamo anche che il vero nome di Timothée è Timothée Chalamet, credo che sappiamo dove sia cresciuto e abbiamo visto le foto di sua madre. E ha una sorella. E non ha frequentato il LaGuardia [la famosa scuola superiore di recitazione a New York] o qualcosa di simile? Lo sappiamo! Tim, non sei un mistero!».
Chalamet non ha ancora incontrato né parlato con Dylan, anche se gli piacerebbe molto. Barbaro invece ha avuto modo di parlare con la vera Baez. «Continuavo a sognare di conoscerla», dice Barbaro, seduta sul divano di uno studio nello stesso edificio dei 20th Century Studios dove Mangold sta montando il film. Ha avuto bisogno di protesi per simulare i denti della Baez, ma ha gli stessi zigomi ed emana ancora un po’ della semplicità da brunetta del suo personaggio, con indosso una giacca di jeans oversize, gonna e sandali di pelle aperti. «Non sono una persona che dice: “Ho fatto un sogno. Devo seguirlo”», spiega. «Ero totalmente immersa nella preparazione, eppure mi sembrava che mi mancasse qualcosa, non riuscivo ad avvicinarmi a lei. Mi sembrava che ci fosse bisogno di creare un ponte». Quando è riuscita a raggiungere Baez al telefono, la cantante e attivista le ha detto che sperava che Barbaro la contattasse.
Barbaro si è quasi sentita in colpa per essere stata complice in un’operazione che ha relegato un’artista leggendaria al semplice ruolo di interesse amoroso, per quanto il suo ritratto sia reso a regola d’arte. «Quello che ha fatto è molto più importante del ruolo che ha avuto nella vita di Bob», dice Barbaro. «Meriterebbe un biopic tutto per lei, una serie, qualcosa». La stessa Baez ha aiutato Barbaro a scendere a patti con la situazione. «A un certo punto mi ha detto: “Sono nel mio giardino a guardare gli uccelli”, e io: “Già, e non ti tocca quello che il film dice di te”». La Baez di Barbaro, fedele al personaggio reale, si comporta come una pari di Dylan, con cui si confronta sul palco e fuori. La dinamica del loro rapporto è così veritiera che una scena in cui queste due icone battibeccano in mutande sembra quasi una trasgressione, come se fosse qualcosa che non avremmo dovuto vedere.
Nella vita reale, inizialmente Dylan era molto più interessato alla sorella minore di Baez, Mimi, un personaggio che inevitabilmente ha dovuto essere eliminato dalla storia. «Non potevo proprio inserirla», dice Mangold. «Se ci metti tutta questa gente, finisci per ritrovarti con una parata di persone. Diciamo che il 40% del film è musica, giusto? Quindi ti rimangono solo 75 minuti, compresi i titoli di coda, per raccontare la storia. È incredibile la velocità con cui devi scegliere cosa approfondire».
Barbaro ha contestato anche alcune piccole alterazioni dei fatti, come il fatto che non ci sono prove che i due abbiano mai cantato insieme Girl from the North Country, oppure l’inclusione di più scene in cui Baez e Dylan hanno ognuno una chitarra, nei duetti, mentre in realtà Baez lasciava che fosse Dylan a suonare. «Jim ha detto: “Mi piace tantissimo quell’immagine”». O, come mi ha detto Mangold più avanti: «Non puoi trasformare il film in una voce di Wikipedia».
La sfida più grande, per l’attrice, è stata cercare di imitare la voce di Baez, di una bellezza più classica rispetto a quella di Dylan. Barbaro non aveva mai cantato in pubblico prima d’ora: figuriamoci in un film. Quindi era terrorizzata. Come Chalamet, ha lavorato con il vocal coach Eric Vetro, che ha allenato Austin Butler a interpretare Elvis Presley. E si è dimostrata molto meno ritrosa nei confronti delle sovraincisioni: io avevo già visto una versione del film e lei si stava preparando per fare alcune rifiniture alle sue performance, nel tentativo di ottenere un vibrato profondo come quello di Baez. Comunque non si aspetta certo di entusiasmare Baez: «Probabilmente sentirà questa roba e dirà: “No!”».
Durante le riprese, Barbaro stava girando anche la serie Netflix FUBAR con Arnold Schwarzenegger, in cui interpreta sua figlia. È venuto fuori che Schwarzenegger è un fan di Baez e il primo concerto a cui è andato è stato uno dei suoi show di fine anni Sessanta. «Suona per me», le ha detto, e così Barbaro si è trovata a cantare Don’t Think Twice per Terminator.
Edward Norton è arrivato all’ultimo minuto per interpretare Pete Seeger, dopo che l’attore scelto inizialmente, Benedict Cumberbatch, è stato costretto a rinunciare. Così ha avuto solo due mesi per prepararsi a un ruolo che richiedeva una completa trasformazione fisica e delle performance al banjo, uno strumento che non aveva mai suonato. Sorseggiando un caffè in un bar di Malibu, California, non lontano da casa sua, Norton dice di non avere molta voglia di parlare della sua trasformazione. «Se sono seduto davanti a una cazzo di telecamera», spiega, «e qualcuno mi chiede: “Allora, parlami di come hai imparato a suonare il banjo, o di come ti sei incasinato i denti, o di come ti sei rasato la testa” o altra roba, mi sta domandando di svelare il trucco prima di averlo messo in scena… pensa a Dylan nel 1962. Il ragazzo aveva 21 anni. Però, in qualche modo, lo sapeva già: non si deve lasciare che la gente veda cosa c’è dietro il cazzo di sipario».
È bene sapere che Norton si è davvero rovinato i denti, chiedendo a un dentista di fare cose poco piacevoli alla sua bocca per imitare il sorriso sghembo di Seeger. Si è rasato a zero l’attaccatura dei capelli e in soli due mesi ha adattato meglio che poteva al banjo la sua conoscenza della chitarra, anche se inevitabilmente c’è qualche trucco nelle parti più difficili. Anche lui, come Chalamet con Dylan, riesce a imitare in modo inquietante la vera voce di Seeger. Da allora si è fatto risistemare i denti e i capelli gli sono ricresciuti. A 55 anni è ancora in una forma stile Fight Club e il modo in cui il suo sguardo azzurro e glaciale si fa più intenso durante una conversazione appassionata ci è familiare da una ventina di film.
Seeger, che era del 1919, era più vecchio di Dylan di quasi una generazione e univa musica e attivismo sin da quando Bob era ancora bambino (Baez ha detto a Norton che Seeger era troppo rigido per sentirsi a proprio agio con gli abbracci dei suoi giovani amici: Norton usa questo dettaglio in modo divertente sullo schermo). È stato messo nella blacklist durante l’era McCarthy, relegato ai margini della cultura. Anche se il Dylan e il Seeger del film hanno un rapporto più stretto di quello che hanno avuto i due personaggi reali, non c’è dubbio che il vero Seeger fosse felicissimo di vedere Dylan arrivare a milioni di ragazzi con le sue prime canzoni di protesta. Norton mi mostra una foto che ha nel telefono di Seeger e Dylan seduti fianco a fianco, durante un viaggio nel Sud degli States, e poi un’altra in cui Seeger guarda Dylan esibirsi davanti a una grande folla, con il volto illuminato da una gioia paterna.
Ma, alla fine, Dylan era fedele soprattutto alla sua arte, più che a una particolare comunità o idea politica, cosa che ha spezzato il cuore sia a Seeger che a Baez. «Emerge il fatto che Dylan in realtà è un musicista, non una figura politica», dice Norton. «L’integrità di Pete Seeger è completamente diversa da quella di Dylan e, quando hanno diviso le loro strade, fondamentalmente nessuno dei due ha intralciato l’altro». Chiaramente Norton, nella sua interpretazione, ha inserito tocchi alla Bruce Springsteen, suo amico da trent’anni e discepolo di Seeger, in particolare negli sprazzi di lucidità che mostra dietro la maschera affabile che fa vedere in pubblico.
La rottura definitiva tra i due del 25 luglio 1965, mentre Dylan era sul palco del Newport Folk Festival con una rock band al completo, è uno dei momenti più mitizzati e, di fatto, confusi della storia della musica degli anni Sessanta: da sempre è considerato l’istante in cui Dylan “has gone electric”, anche se lui aveva avuto una rock band in studio già in Mixed-Up Confusion del 1962, ma anche per metà di Bringing It All Back Home, pubblicato quattro mesi prima di Newport. Senza contare che Like a Rolling Stone era già in classifica quando c’è stato il festival. Ma il pubblico, o almeno una parte, l’ha fischiato. Nella versione più classica della storia (a cui il film aderisce decisamente) Seeger si è sentito profondamente offeso dalla scelta di Dylan di sommergere i propri testi e di violare l’atmosfera raccolta e cantautorale del festival con quel rumore sguaiato.
«Tutte le persone con cui ho parlato e che erano lì in quel momento hanno detto che Pete ha dato in escandescenze come raramente si era visto», racconta Norton. Il film non si azzarda però a riportare la storia chiaramente apocrifa secondo cui Seeger avrebbe preso un’ascia per tranciare letteralmente i cavi della corrente, ma accenna al fatto che c’erano delle asce in giro, perché quel giorno c’era stato un concerto di work songs. Ma A Complete Unknown prova a fare qualcosa di ancora più audace, riportando un episodio tristemente noto, quello del grido dal pubblico che accusava Dylan di tradimento, fatto che è realmente accaduto, ma nel Regno Unito e un anno dopo. «A Jim non interessava fare l’ennesimo documentario», spiega Norton. «Voleva creare una specie di favola».
Comunque, Dylan stesso si è sempre preoccupato poco della verità storica fattuale. La sua autobiografia Chronicles è più un gioco letterario postmoderno che un’autobiografia vera e propria, e lui ha lavorato con Martin Scorsese per arricchire il documentario Rolling Thunder Revue del 2019 con una straordinaria iniezione di fiction. Per Norton, che ha scambiato dei messaggi con Thom Yorke per parlare di quanto siano «punk rock» le performance di Dylan in quel film, tutto questo è esilarante e paragona Dylan alla «figura leggendaria del trickster». «È un gran piantagrane», dice, sottolineando come il cantante provi «palesemente piacere nell’offuscare e distorcere la realtà».
Norton racconta che Mangold gli ha detto che Dylan aveva insistito per inserire almeno un passaggio totalmente sbagliato (ma non vuole rivelare quale) in A Complete Unknown. Quando il regista si è detto preoccupato per la reazione del pubblico, Norton dice che Dylan l’ha fissato e gli ha domandato: «Ma cosa t’importa di quello che pensano gli altri?».
Chalamet e io andiamo verso la riva del fiume Hudson, proprio vicino al complesso sportivo al coperto di Chelsea Piers. Ci sediamo su una panchina fianco a fianco, davanti a un orizzonte vasto e senza sole, avvolto nella nebbia grigia. Lì iniziamo a parlare del destino. Chalamet dice che il periodo trascorso nello Stato natale di Dylan gli ha ricordato le sue visite nell’entroterra francese. «Si può dire che mio padre venga dal Minnesota della Francia», dice, parlando velocemente, di slancio. «Passavo le mie estati in quella regione e mi sentivo esattamente nello stesso modo. Ci si sente rinchiusi in una scatola e con la sensazione di avere qualcosa di più da dire».
Poi continua: «Ho avuto modo di vivere davvero questa situazione, nella mia vita e nella mia carriera». Sentiva di essere destinato a un futuro speciale, ma anche di potersi perdere facilmente. «“Se vuoi che Dio rida dei tuoi progetti, dilli ad alta voce”. All’inizio della mia carriera, capitava che anche i miei amici più stretti mi dicessero qualcosa che mi lasciava scosso per una settimana. Poi però, con determinazione, devi intraprendere un percorso. Io non ho mai cambiato nome, ma ho capito l’esigenza. L’ho capito nel profondo, in qualche modo». Perché Robert Zimmerman ha dovuto diventare Bob Dylan? Chalamet spiega che può capitare di guardarsi allo specchio e rendersi conto che il proprio nome non riflette «la profondità di ciò che sentiamo dentro».
Quando gli faccio notare quante strane similitudini ci sono tra Paul Atreides, Bob Dylan e forse anche lui stesso (tutta la storia del Prescelto, del Lisan al Gaib, del destino messianico), Chalamet si mette a pensarci seriamente. «La differenza sostanziale è che per Paul Atreides il destino è prestabilito, e questo lo porta a rifiutarlo. Sente che quella roba non ha nulla a che fare con lui, in un certo senso, e si innesca una grande tensione esistenziale. Per Bob, invece, entra in gioco la gioia maliziosa di sapere che, sì, il tuo talento, la tua abilità speciale è opera tua, in un certo senso è un dono di Dio. Credo che lui ne sia orgoglioso da sempre». Ma perché Chalamet è così attratto da questi ruoli salvifici? Lui ride. «Amico», dice, «sono loro a trovare me. Non il contrario».
Quando era alle superiori, gli sembrava di dovere schivare «droghe e alcol ovunque». Dice: «Mi pareva di avere questa piccola pepita da proteggere, un potenziale o qualcosa del genere». Poi torna a parlare di un’altra cosa che condivide con Dylan: l’esplosione di fama vertiginosa quando si erano appena lasciati alle spalle l’adolescenza. «A quell’età è una merda», dice. «Per davvero». Ma cambia subito argomento.
Dylan, ovviamente, è crollato poco dopo gli eventi del film, è caduto dalla sua moto e si è ritirato in semi-isolamento a Woodstock, New York. Chalamet ammette che il suo periodo di pausa durante la pandemia, che ha passato nella stessa cittadina a Nord di New York, ha avuto una funzione analoga. È stato un «guardarsi allo specchio obbligato, dopo l’ascesa improvvisa, per arrivare a dire: “Ok, adesso sono arrivato qui”», dice. «Però, allo stesso modo, può succedere di guardare nello specchio troppo a lungo e immaginare qualcosa che a volte non c’è». La fama amplifica questo rischio: «Quando sei al centro dell’attenzione, devi stare molto attento». Respira. «E poi non devi prenderti sul serio, cazzo. Devi solo goderti la vita».
Più di una volta mi ha detto di essere fin troppo consapevole del fatto che non avrebbe mai più interpretato Bob Dylan, che il «ruolo della vita» era andato. Ma gli faccio notare che non è vero: è abbastanza giovane da poter riavere la parte, più avanti, per interpretare un Dylan più maturo.
«Oh, mio Dio», dice. «Sì, non ci avevo mai pensato, ma hai ragione. Se lo merita proprio, visto quanto è cambiato: la Rolling Thunder Revue, il periodo da cristiano born again e Time Out of Mind…». Si illumina. «È un’idea interessante!».
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Crediti
Styling: TAYLOR MCNEILL di THE WALL GROUP. Acconciature: JAMIE TAYLOR per A-FRAME AGENCY. Makeup: ANA TAKAHASHI di ART PARTNER. Produzione: OBJECT & ANIMAL. Produzione esecutiva: EMI STEWART. Producer: REESE LAYTON. Coordinamento di produzione: BOMIN AHN. Direzione della fotografia: PETER HOU. Postproduzione: GINA CROW. Editor: NEAL FARMER. Editing supplementare: WILL TOOKE. Colorist di ETHOS: DANTE PASQUINELLI. Producer: NAT TERESCHENKO. Head of Production: NATASHA SATTLER. Executive producer: JAMES DREW. EP/MD: ELIANA CARRANZA-PITCHER. Sound Studio: CONCRET FORM. Sound Design: RAPHAËL AJUELOS. Sound Editor: INÈS ADAM. Production designer: GRIFFIN STODDARD di STREETERS. Art coordinator: VIVIAN SWIFT. Leadman: JORDAN YASMINEH. Assistenti alla fotografia: ROWAN LIEBRUM e TUCKER VAN DER WYDEN. Tecnico digitale: HOPE CHRISTERSON. OBJECT & ANIMAL Assistenti alla produzione: MARLO RIMALOVSKI e MATTHEW RAMOS. Assistenti allo styling: BRODIE REARDON e KENNEDY SMITH. Assistenti sul set: GIANFRANCO BELLO, LEA DOBROMIROV, e TRINITY DAVISON. Image masking: MICHAEL OCH