Poco tempo fa, il New Yorker ha dedicato un articolo allo chef danese Rasmus Munk (la firma è di Rebecca Mead). Il sottotitolo recitava: «Nel suo ristorante di Copenhagen, i clienti si trovano davanti medusa cruda e cervello di agnello essiccato al freddo, servito in un finto teschio, mentre il soffitto è attraversato da video sul cambiamento climatico. È una “opera gastronomica” o un sovraccarico sensoriale?».
Il ristorante in questione è l’Alchemist, aperto da Munk nel 2015 (e poi ri-aperto nel 2019, dopo due anni di chiusura in veste nuova). Due stelle Michelin, ottavo miglior ristorante al mondo secondo la 50 Best Restaurants 2024, vincitore del Best Chef Award 2024 (l’anno prima era toccato a Dabiz Muñoz di Diverxo. Classe ’91 – giusto per dire, eh – Munk è sempre stato un outsider nel contesto nordeuropeo, circondato dai giganti della New Nordic Cuisine, Rene Redzepi e Magnus Nilsson.
D’altronde, non è nemmeno una definizione alla quale gli capita di accostarsi nel discorso. Al massimo, Munk ha parlato di cucina olistica, teatrale, che si sollevi dal piatto e avvolga interamente la percezione dei commensali. Non per nulla, cenare da lui significa acquistare un “biglietto” per l’esperienza, non prenotare un posto a tavola. Il tutto con a sostegno menu biblici (che poi il menu è inesistente, la mano dello chef è sempre libera) che tengono occupati per cinque, sei ore e costringono i clienti a muoversi negli spazi del ristorante, dal bar a un tavolo, e così via (alla riapertura, le portate erano circa 40).
Magari lo avete visto, sui social: ultimamente Alchemist è famoso per il suo “occhio”, ovvero quella che sul menu è indicata come Impressione n.12. Ispirata a 1984 di George Orwell e al famoso Grande Fratello che tutto sorveglia (da cui il piatto prende anche il nome, “1984”), l’Impressione n.12 è soprattutto il piatto in cui è servita: una cupola di resina modellata sull’occhio di Munk, anatomicamente realistica, di cui solo la pupilla è edibile e la cui composizione può variare a ogni servizio.
Anche questo, il vedo non vedo, il nascondimento, il gioco del fraintendere è uno dei marchi di fabbrica della cucina di Munk: è la sua sfida, e il suo stimolo, verso chi si siede alla sua tavola. Un modo per portare il pensiero a masticare, non solo i denti. Famosamente, un’altra Impressione dell’Alchemist è una farfalla liofilizzata servita su una finta foglia. La domanda è lampante: che cosa siamo disposti a mangiare? E con quale atteggiamento? Che cosa dice la nostra scelta del rapporto con il resto dell’esistente, dell’edibile?
E mentre sulla tavola domanda, nella vita fuori dalle mura dell’Alchemist (dove non entra luce naturale e la colonna sonora è esclusivamente elettronica) Munk cerca, in qualche modo, di dare risposte. Aprendo Spora, centro di ricerca sulle tecnologie alimentari e il cibo, dive si portano avanti studi sulle specie infestanti del Mare del Nord, per esempio, ma anche sulla fermentazione, l’upcycling delle materie prime, e lo sviluppo di proteine alternative a quelle animali che tutti conosciamo (uno degli ultimi post del loro profilo Instagram parlava di fare lo yogurt a partire dalle formiche).
Non solo: durante la pandemia di Covid-19, Munk aveva dato vita al progetto senza scopo di lucro JunkFood, coinvolgendo altri chef danesi e a Copenhagen per convertire la produzione delle loro cucine a favore dei senzatetto. Attività che porta avanti tutt’ora, e anzi, mi dice che «quest’anno speriamo di poter dare da mangiatore a tutti i senza fissa dimora della Danimarca».
Non c’è da meravigliarsi dunque che, ospite della masterclass della quattordicesima edizione di MasterChef Italia, Rasmus Munk abbia messo in difficoltà l’equilibrio dei concorrenti, spiazzandoli con ingredienti sconosciuti ai più. Impartendo, alla fine, anche una lezione di stile (nordico).
L’ultima sua impresa intanto, annunciata l’anno scorso, parla di un ristorante da mettere in orbita nello spazio – anzi no, siamo corretti, nella stratosfera, mica nello “spazio”. Ma di questo, e di tutto il resto, abbiamo parlato direttamente con lui.
*MasterChef Italia è uno show Sky Original prodotto da Endemol Shine Italy. Tutti i giovedì in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW.
Chi era Rasmus, da bambino? Che cosa sognava di diventare?
Nell’ordine volevo diventare: poliziotto, avvocato, e poi anche bancario perché volevo guadagnare tanti soldi. Alla fine l’ultimo sogno era quello di diventare meccanico. Non avevo mai considerato di poter diventare uno chef, il cibo non era una cosa importante a casa nostra.
Qual è stato l’inciampo nel percorso?
Che a un certo punto un mio amico è andato alla scuola di cucina e io l’ho seguito. Ho cominciato a capirci qualcosa, a capire il mondo della gastronomia. C’erano davvero tante cose che non conoscevo, di cui non avevo idea. Mi sono trovato davanti così tanti ingredienti che non avevo mai visto, comprese le foglie di menta fresca, per dire. Era tutto nuovo per me. È stata una grande ispirazione, e mi ha dato l’impulso per studiare di più questo mondo.
Com’è cambiato il tuo rapporto con la natura, dopo queste scoperte?
Dietro la casa in cui sono cresciuto c’era una foresta. Ho visto le coltivazioni, la campagna. Ma era tutto natura appunto, per me, non le avevo mai guardate come si guarda a una camera di incubazione per il cibo. Non mi ero mai posto col problema di come si coltivi quello che finisce nel nostro piatto. Diventare uno chef e studiare la provenienza degli ingredienti mi ha di sicuro avvicinato alla natura.
Quindi il tuo amore per la cucina è stato un colpo di fulmine.
È stato proprio così, a un certo punto ho sentito il bisogno, anche improvviso, di saperne di più. Devi immaginare che da bambino potrò aver conosciuto quattro o cinque piatti, andavano da McDonald’s tutti i venerdì, mia madre non sapeva nulla di gastronomia e non cucinava nemmeno bene. E immagina che a un certo punto arrivi in una scuola in cui mi mettono. disposizione tutto un buffet di ingredienti, e della maggior parte non conoscevo nemmeno il nome… È stato uno shock, credo.
Ero già grandicello, avevo quindici anni. Mi sembrava impossibile non sapere nulla di queste cose. Avevo realizzato di non sapere nulla di cibo. Questo è stato l’inizio di tutto, credo. Di certo non l’ambizione di essere un grande chef, né le stelle Michelin – non sapevo che cosa fossero. Ero attratto da qualcosa che non conoscevo, mi rendevo conto di non saperne nulla. Tutto quello che credevo di sapere sul cibo, be’, mi si è sbriciolato tra le mani. Durante la mia carriera è successo anche con altre cose: l’arte, il teatro… Cose che forse avrei potuto imparare a scuola ascoltando un po’ di più.
Come si passa da qui a offrire cene che durano sei, sette ore?
Già. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Mettiamola così: non consiglierei mai a nessuno di venire all’Alchemist come prima esperienza di fine dining. Però ne abbiamo, di clienti che non sono esattamente lo stereotipo del gourmand. Persone che mangiano per la prima volta un’ostrica durante la cena da noi, per esempio. Penso che comunque ci scelgano perché includiamo nell’esperienza altri elementi di arte, o insomma, ampliamo il mondo. Ma ancora, è una questione di conoscenza. Non è che non si può scegliere l’Alchemist per una “prima volta”, ma probabilmente ci saranno aspetti della cena che non si apprezzeranno appieno perché mancano le basi su certe altre cose di cucina più basilare. Comunque si tratta di un’esperienza a strati, ognuno può arrivare in profondità quanto desidera. Ci sono molti elementi a cui ci si può agganciare. E quando se ne vanno, spero che provino un senso di catarsi. Ci sono due conversazioni diverse: quelle con chi va a mangiare al ristorante 200 volte l’anno, e quelle con chi, come mia madre, non sa che cosa sia lo yuzu. Ma entrambe fanno andare a casa con qualcosa in più. Sono solo diverse.
C’è stato quel momento, quello in cui hai capito che cosa volevi per l’Alchemist?
Tanti cercavano un po’ di incasellarci, che cosa facciamo? Gastronomia molecolare? Poi è successo che la BBC è arrivata a fare un servizio su un piatto che avevamo in menu, un cuore di agnello ripieno con sopra una salsa al sangue. E mentre i clienti lo mangiavano davamo la possibilità di registrarsi come donatori di organi. Lì ho pensato: una televisione internazionale sta venendo a fare un servizio su questo chef sconosciuto, cioè io. Se il cibo ha davvero il potere di avere questo significato politico ed emotivo, allora, mi sono detto, voglio fare più piatti così. Voglio fare communication food, qualcosa che parli. Che abbia una storia con sé, che possa avere un impatto.
Alchemist a parte, come vedi il panorama del fine dining, oggi?
Penso che debba essere ripensato. Nel mondo della cucina ci sarà sempre spazio, saprà sempre accogliere i ristoranti più classici. Per il futuro, penso che vedremo meno fine dining e più ristoranti che daranno di più agli ospiti, che saranno più generosi. Avere buon cibo non sarà più sufficiente, è molto facile. Servirà dello storytelling, per esempio. Mi spiego meglio: se andare in un ristornate di fine dining significa avere del buon cibo servito in porzioni più piccole, con un servizio formale, le tovaglie e tutto, un piatto di formaggio o un bicchiere di Champagne, ok, allora non è abbastanza.
Vorrei che, nel futuro, il fine dining diventasse arte. Anche qui, non voglio dire che tutti i ristoranti dovrebbero essere come l’Alchemist. Quello che penso è che gli chef abbiano il potenziale per dire le cose e rendere parlanti i loro piatti. Di andare oltre gli ingredienti e le tecniche di cucina. Specialmente perché, soprattutto ora con Instagram e Facebook, si vede sempre lo stesso tipo di creatività. I ristoranti stanno diventando simili perché la ricetta del successo sembra già scritta, replicabile. Non credo che il fine dining sia morto, è anche questo uno storytelling. Però deve svegliarsi, cambiare. La cucina è solo un elemento dell’esperienza.
Ristoranti e ristoratori politici, quindi.
Certo. Come fanno la musica, il teatro, le mostre. L’espressione artistica ha tante strade. Anche se la cucina è un’industria abbastanza conservatrice. Non so come mai, forse è perché tutti siamo legati al cibo, che è ciò con cui cresciamo. E forse per questo non riusciamo a elevare la cucina al livello di arte, al livello di qualcosa che possa, per esempio, parlare della fame nel mondo. Ma se l’Alchemist riesce a farlo, perché no? Mi piacerebbe avere sempre più varietà, più voci, come mi piace poter ascoltare musica diversa. I sapori, per me, sono solo un mezzo per portare un messaggio al cliente.
Credo che molte persone ti dicono che sei creativo: ti ci ritrovi? Che cosa vuol dire creatività per te?
Me lo dicono in tanti, sì. Non sempre sono d’accordo con loro. Penso che vorrei essere molto più creativo, anche perché per me essere creativo non significa copiare qualcosa che esiste già, ma trovare nuove strade per esprimere qualcosa, o un modo per guardare alle cose da un altro punto di vista. Però c’è un problema sulla comprensione della creatività. Nel nostro campo significa anche conoscere quello che gli altri hanno fatto prima di te. Bisogna avere la capacità di riconoscere l’angolo del piatto, il suo giro, la sua struttura. Fare innovazione in cucina è difficile, creare qualcosa che nessuno ha mai creato. Comunque, essere creativi non significa impiantare in un modo un po’ particolare.
Parlando dunque di creatività: come sta andando il progetto del ristorante nello spazio?
Siamo ancora sulla Terra, va tutto bene. Probabilmente lo saremo per i prossimi anni. Ma stiamo continuando, stiamo cercando di capire come indirizzare a meglio il progetto, su che cosa concentrarsi. Negli ultimi si mesi abbiamo fatto molto brainstorming.
I detrattori che dicono? E i complottisti?
Immagino che possa essere strano pensare che, se quello che voglio fare è cambiar il sistema gastronomico sulla Terra, per farlo debba andare nello spazio e spendere centinaia di migliaia di dollari a dir poco. E non tengono nemmeno in considerazione che il volo che lanceremo avrà le proprie emissioni di anidride carbonica interamente compensate. Se lanciassimo un razzo comune, diciamo, sarebbe molto diverso. L’aspetto di tutto questo che mi interessa di più, però, è la ricerca. È appunto cercare di spingersi più in là, di usare la gastronomia per fare tutt’altro che il cibo. Poi c’è anche da dire che non andremo davvero nello spazio, cioè, ci fermeremo alla stratosfera. Faccio un esempio di quanto stavo dicendo prima: per studiare cibi che funzionino nella stratosfera, stiamo sviluppando tecniche che permetteranno una migliore alimentazione anche ai bambini nei reparti di terapia intensiva con difficoltà o impossibilità a deglutire, qualcosa con una texture croccante ma che in realtà si scioglie in bocca. Allora credo che sia un senso a quello che facciamo, e voglio continuare. Anche se mi fanno paura le altezze.
Torniamo sulla Terra. Com’è andata a MasterChef Italia? Che consigli daresti ai concorrenti?
Mi sono divertito. Sono stato ospite a Top Chef, a MasterChef in Danimarca, e in Italia si vede che i concorrenti hanno una conoscenza natural del cibo, molto più alta. Ai ragazzi direi che tutto è possibile. So che suona scontato, ma l’ho visto funzionare su me stesso. Bisogna lavorare sodo, io avrei voluto arrendermi tante volte. E bisogna sempre considerare che, alla fine, si tratta solo di cibo. Per qualsiasi cosa si scelga di fare, serve una scopo più grande.