Come se servisse ancora sottolinearlo, la food diplomacy (o gastrodiplomacy) è una cosa seria. Provavo a contestualizzarla qualche tempo fa in un altro articolo, dedicato al rapporto degli italiani con la cucina coreana. Controintuitivamente, per parlare di Corea del Sud avevo fatto scalo in Thailandia, perché è l’ex Siam che ha dato vita, a partire dal 2002 circa, a quella tendenza forse un po’ pop, però scaltra davvero, che vede il cibo come mezzo per convincere non solo le pance, ma anche i cuori e le menti.
Dal Sud-Est asiatico ce l’avevano fatta stanziando ingenti fonti governativi per la promozione della cucina thailandese all’estero, creando un sistema di riconoscimento della “official Thai quality” fuori dai confini nazionali, e mettendo insieme manuali ad hoc con ricette e formule qualificate per avviare attività imprenditoriali nella ristorazione di successo – purché si trattasse di cucina thai, ovvio (funzionò, spoiler, ma per tutto il resto rimando alla lettura di, appunto, quell’altro articolo).
![Durian](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.11.jpeg)
Durian. Foto: Elisa Teneggi
Allora avevamo familiarizzato con il pad thai – che poi non voglio dire che è un riso alla cantonese, perché non lo è, ma sta di fatto che è un piatto fusion con la tradizione cinese –, le bancarelle dello street food, i mercati sul fiume e le macellerie all’aperto. Avevamo hype, anche senza pensare alle spiagge di Phuket o alla seconda delizia del vecchio Siam, l’industria del sesso. Con anche i lati opposti della medaglia: «Molti stranieri […] della Thailandia apprezzano al massimo il cibo», così dice la scrittrice Narisa Chakrabongse alla giornalista Valeria Palermi in The Passenger Thailandia (Iperborea). «Forse è un problema dei paesi che hanno una buona cucina, belle donne, vestigia del passato e fantastiche spiagge. […] Credo che la Thailandia possa davvero esercitare un suo soft power», anche perché, da gennaio di quest’anno, ha reso possibile il matrimonio per le persone omosessuali. Accostamenti bizzarri, per una monarchia in flirt pluriennale con il governo di una giunta militare. Non c’è un modo di girarci intorno.
La contraddizione, al DNA del paese e della sua capitale Bangkok in particolare, è insita. Anche questo, per lo sguardo occidentale, è un fattore d’attrazione. Può sembrare un gran casino: canali non esattamente beneodoranti scorrono ai piedi di eleganti grattacieli residenziali, limousine si inghippano nel traffico al fianco di motorini sgarruppati, schiacciati sotto il peso di tre, quattro passeggeri (li potete noleggiare per una corsa come fosse un taxi, dimenticate il casco); banchetti di strada buttano fuori gas, aggregatori di classi sociali; lungo il fiume (il Chao Phraya) crescono centri commerciali di lusso e palafitte di palude, abitate. Chinatown, appena a Nord del centro, magnetizza con i suoi neon, i suoi sapori impilati, busker di mangiafuoco che abbrustoliscono carne e pesce mentre il traffico scorre. Templi e consumismo. Forse per farsi un’idea di tutto basta guardare la metropoli dall’alto, cioè con Google Maps: lasciate perdere cardi e decumani. Bangkok si articola con la sua legge.
![Mercato Bangkok](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.10.jpeg)
Carne invenduta in un mercato a Bangkok. Foto: Elisa Teneggi
![Bangkok](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-18.47.43-1.jpeg)
Motorini a Bangkok. Foto: Elisa Teneggi
Ok, non ve lo devo venir a dire io. Non sono la prima bianca atterrata in quella che Philip Cornwel-Smith, giornalista e fotografo bangkokiano d’adozione, chiama “la città dei sensi”. Ve lo faccio dire da lui: «Dal livello della strada non si nota, e non c’è stata una pianificazione specifica dietro, è un’evoluzione dell’inclinazione pubblica. Avere centri frammentati è tipico delle megalopoli asiatiche, e a questa tendenza è stato dato il nome di “Urbanesimo disordinato”. […] Depth Map, sistema di visualizzazione di dati inerenti alle città, rivela due sotto-centri giganti a forma di L a nord del centro vero e proprio. […] Il cuore di Bangkok si individua a seconda di chi sei e che cosa vuoi fare». Non stupisce dunque leggere che «orientarsi a Bangkok è tutto tranne che sistemico, che sia per la toponomastica, i numeri delle strade, o lo spelling». Perdersi in un soi, una strada laterale (il più famoso è il Cowboy, 150 metri affastellati di intrattenimenti notturni pensati per occidentali e turisti; consiglio: se vi propongono una partita a squash, andateci cauti) è sempre un’opzione.
La città, però, non sembra voler questo, almeno non dal visitatore occasionale. Ci suggerisce di ordinare una zuppa che bolle da più di cinquant’anni da Wattana Panich, pilastro dell’eduzione sentimentale di ogni Bangkok born and raised (usano il metodo della pasta madre, rinfrescando con acqua nuova e tenendo una parte dal giorno prima, così da aggiungere sapore su sapore, anche un po’ acido, sì); di fotografare Supinya Junsuta di Jay Fai, street food una stella Michelin conosciuto per gli occhiali protettivi usati da Junsuta dietro ai fornelli; e poi di salire da questo livello 1, inerpicandoci sui binari aerei del trasporto pubblico, premendo un pulsante a doppia cifra sull’ascensore, verso quel bar che abbiamo visto nelle storie Instagram.
![La zuppa di Wattana Panich a Bangkok](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.11-1.jpeg)
La zuppa di Wattana Panich a Bangkok. Foto: Elisa Teneggi
La Thailandia e la sua diplomazia soft ce l’hanno fatta: è cool, non più solo per gruppi di scapoli e ammogliati vogliosi. Ora la frontiera si è spostata ancora un po’ più in là, parla ancora di cibo ed è, in parte, ribaltata rispetto all’export di Stato dell’inizio del secolo: Bangkok non offre solo grande ristorazione, stellata e non, di matrice thailandese. Ma è anche riuscita a convincere ottimi chef internazionali a trasferircisi con proposte di livello. Mentre, come sottolinea Cornwel-Smith, i venditori ambulanti sono sempre più a rischio sfratto per i crescenti costi di gestione dell’attività e a causa di un certo atteggiamento censorio da parte delle autorità verso una delle ricchezze gastronomiche della loro stessa cultura.
Trentaquattro ristoranti stellati, un folto gruppo di Bib Gourmand, quattro nomi nella più recente 50 Best. Se Bangkok era già rinomata dai foodie e si era guadagnata l’apellativo di “cucina del mondo” non solo per il mix di culture che la popolano, ma anche per il mix di sapori di un piatto thailandese, la scala ora appare fuori controllo.
Qualche nome per mappare il panorama: il tristellato Sorn (cucina thai), Haoma (una stella e una stella verde, cucina indiana), Alain Ducasse (al Blue, una stella) e Mauro Colagreco (Côte, due stelle), lo storico Le Normandie, una stella (cucina francese).
Poi c’è Potong (una stella), in Chinatown, dove cheffe Pam propone una cucina a suo modo thailandese. Uso l’espressione perché i suoi piatti – tra cui anatra arrosto e un pad thai ideale (o idealizzato, pensato per estrarne e isolarne i sapori), scomposto nei suoi ingredienti – parlano della storia di chi viaggia tra due mondi nel luogo in cui la costruzione dell’identità è una scelta, non una chimera. Tra Cina e fu Siam, cheffe Pam (al secolo Pichaya Soontornyanakij) porta nei piatti la sua famiglia, che emigrò in Thailandia dalla Cina a fine Ottocento, e costruisce un diario emotivo dedicatato ai nonni, articolato tra ricordi, emozioni, paure. Il menu degustazione, bevande escluse, costa circa 160 euro, in dipendenza dal cambio con la moneta thailandese, il baht. Il palazzo, di proprietà della famiglia di Pam da generazioni (120 anni fa era la “Potong Pharmacy”), è virtualmente parte del menu e ospita l’Opium Bar, inserito in 50 Best Discovery. Potong è aperto dal 2021, ha ricevuto la stella nel 2023, e l’anno scorso cheffe Pam è stata nominata Asia’s Best Female Chef sempre da 50 Best. Ed è classe ’89.
![pad thai potong](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-18.58.46.jpeg)
Il Pad Thai di Chef Pam da Potong. Foto: press
![L'anatra di Chef Pam da Potong.](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.08.42.jpeg)
L’anatra di Chef Pam da Potong. Foto: Gastrotales
![Chef Pam Potong](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-18.47.26-1.jpeg)
Chef Pam di Potong. Foto: Gastrotales
Una storia di famiglia – anche se piuttosto diversa – è anche quella che va in scena da Sūhring, due stelle Michelin e creatura dei gemelli Thomas e Mathias Sūhring. Tedeschi, entrambi sono arrivai a Bangkok come spesso succede, dicendo che sarebbe stato per poco. L’amore, e l’idea di questo progetto, li hanno convinti a restare. Non abbiate fretta, quando vi siederete alla loro tavola. Per raccontare un’infanzia teutonica ci vuole tempo, ed è questo l’intento dei Sühring e di quella che, per noi che amiamo le etichette, è già stata identificata come New German cuisine sulla scia della più famosa New Nordic (Noma, etc).
![Aki "Imperial Ossetra Caviar" dei fratelli Sūhring](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.08.jpeg)
Aki “Imperial Ossetra Caviar” dei fratelli Sūhring. Foto: Elisa Teneggi
Non sono fan delle suddivisioni, ma questa la accetto quasi di ilarità. Quasi come se il sottinteso che non si può esplicitare, ma che tutti condividono, è che la cucina tedesca non sia poi questa cosa. Va bene. Meno male che ci sono i Sühring, allora, che inanellano una serie di hit – e pairing vino da hit – tra sensi di Brathering (arringa, senape e cetriolini nella forma di tortino-tartina), sambuco-funghi-pisellini (il nome è Grüne Erbsen), la riproduzione di una tavoletta Enleta, merenda must degli infanti tedeschi (wafer di fegato d’anatra, albicocca, nocciola), torta di formaggio della nonna (cheesecake, anzi Käsekuchen alla fragola e shiso), e poi anguille, aragoste, cipolle arrosto, insomma: se non vien voglia di birra e Bratwurst, dopo questo, io alzo le mani (il menu va da 225 euro circa a 280 euro circa, bevande escluse). Poi possiamo parlare del sourcing di alcuni ingredienti, e sono qui per voi. Però ve l’ho detto: qui vogliono fare la destinazione, e la centrano.
![Brathering dei fratelli Sūhring. Foto: Elisa Teneggi](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.09.jpeg)
Brathering dei fratelli Sūhring. Foto: Elisa Teneggi
![Duck - Aged for 10 days dei fratelli Sūhring](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.09-1.jpeg)
Duck – Aged for 10 days dei fratelli Sūhring. Foto: Elisa Teneggi
Comincio a pensare che il cibo, a Bangkok, abbia sempre a che fare con la casa, anche quando è “fino”. Una casa da ritrovare una volta usciti dalla propria. La (ri)costruzione di rotte e confini in quel gran caos che minaccia di penetrare all’interno. Questa cosa la dice Cornwel-Smith: «La cultura thai è incentrata sul cibo, e il cibo ha un enorme significato culturale. La parola per “famiglia”, khrob khrua, significa “quelli coperti da una cucina”». E prima che sawasdee diventasse la parola di saluto ufficiale delle conversazioni thailandesi, il modo per salutarsi era: hai già mangiato il riso oggi?
C’è anche, però, chi la casa fisica già ce l’ha, ma forse vuole raccontarla in un mododiverso, con accenti particolari. Parlo dei local, come Nusara e Le Du. Le creature nascono in seno a Chef Thitid Tassanakajohn. Si fa chiamare Chef Ton e qui è una star. Conosce tutti, ha le chiavi. Chiedi a chef Ton, e ti sarà data una soluzione. Non stupisce: per cucinare curry come quelli di Nusara, devi avercelo dentro, cuore e pancia, questo posto. Per avere un assaggio senza veli dei sapori della cucina thailandese, dirigersi su ingredienti come guava, rosella, lychee, salsa di pesce dolce, pasta di gamberi, lemongrass, e naturalmente ordinare un tom kha (zuppa di cocco) e mango sticky rice, riso glutinoso con mango dolce (specificare è importante, perché ce ne sono soprattutto tre varietà, divise per gradi di dolcezza). Il menu degustazione costa circa 170 euro, bevande escluse.
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Le Du replica lo show, forte di una stella Michelin e di un quarantesimo posto nell’ultima 50 Best. Rotazione stagionale degli ingredienti e protagonismo degli stessi sono i capisaldi da cui è partito chef Ton (arrangiati in due menu: un mini da 130 euro circa, un longform da circa 160 bevande escluse). Per questo, palati avvisati: o lo ami, o – be’, forse non lo odierai, ma potrebbe essere una sfida. Soprattutto se la frequentazione con la cucina thailandese non è stata approfondita a priori.
![Il Signature river prawn di Le Du. Foto: Elisa Teneggi](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.12-1.jpeg)
Il Signature river prawn di Le Du. Foto: Elisa Teneggi
![Betal leave and toasted coconut a Le Du. Foto: Elisa Teneggi](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.02.12.jpeg)
Betal leave and toasted coconut a Le Du. Foto: Elisa Teneggi
Ma perché non ce lo stai dicendo, vi starete chiedendo (o magari anche no). Ma a Bangkok uno non ci va mica per Gaggan?
Riassunto degli ultimi venti anni: Gaggan Anand arriva a Bangkok dall’India, dov’è nato (a Calcutta). Dovrebbe fare una consulenza e tornare indietro, ma anche lui ci casca, in questi labirinti, e decide di scavare la propria strada. Apre prima un ristorante di cucina indiana, Red, poi “va a scuola” a El Bulli. Il risultato è l’apertura del primo Gaggan Anand, con cui raggiunge due stelle Michelin. Gaggan potrebbe presentarsi come appassionato di musica prima e cuoco dopo, e fosse nato in anni leggermente diversi (la classe è ’77), in luoghi diversi del mondo, di Anthony Boudain ne avremmo avuti due. Da Gaggan si cena a ritmo di musica, è vietato alzarsi per recarsi ai servizi, lo chef narra mentre cucina. Il ritmo è serrato, i menu lunghi e giocosi, i lasciti della cucina molecolare degli Adrià si sentono. Un piatto è da leccare. Girano voci che diano funghetti ai giornalisti prima del pasto.
![Gaggan Anand](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-18.47.42.jpeg)
Gaggan Anand. Foto: press
La mossa, naturalmente, arriva: Gaggan vuole chiudere con quel tipo di fine dining e nel 2019 abbassa serranda. Riapre nel 2022 solo come Gaggan (per via di dispute legali con gli ex soci) con location nuova, quattordici sedute a chef’s table, e alla base un’idea di “cucina indiana progressista”. I funghetti a me non li hanno dati, forse non c’era nemmeno bisogno. Perché ad accompagnare 22 portate servite in due ore e mezzo circa c’è la colonna sonora di quella che sembra una rock opera. Detta i ritmi della cucina e il tempo di deglutizione. Fa salivare, l’adrenalina monta. Un piatto è composto di amidi e ha la forma di un cervello insanguinato. Gaggan racconta che hanno usato quelli dei ratti che stanno nel vicolo sotto il ristorante. Dice che c’è una bella narrazione attorno al mangiar bene di Bangkok. Che il governo ci tiene, a mettere le cose per bene per i turisti, ma la verità è che la cucina circolare di quella città dovrebbe essere fondata sui topi di strada. Ci verrà poi servito uno spiedino di ratto (ok dài, è finto, anche qui base carboidrato, però si capiva).
![Gaggan Anand](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/image00001.jpg)
Foto: press
![Un piatto di Gaggan](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-18.48.06.jpeg)
Green asparagus sunflower da Gaggan. Foto: Elisa Teneggi
![Rat has brains da Gaggan. Foto: Elisa Teneggi](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-19.07.05-1.jpeg)
Rat has brains da Gaggan. Foto: Elisa Teneggi
Cantiamo, balliamo. I vini scelti dal sommelier Vladimir Kojic sono eccellenti. Gaggan è sedimentato nella coscienza collettiva, la sua fama lo precede. È giustificata, anche se, più che rottura, oggi giunge come monito: non sei obbligato a sopportare una tovaglia bianca per tre ore (riflessione che vale 450 euro circa, bevande incluse). Le idee in cucina possono essere veloci, multimediali e, come succede all’Alchemist di Copenhagen, possono dire qualcosa sul presente. In Italia, un’idea simile in versione agile l’ha avuta Unforgettable a Torino, insignito di un macaron della Rossa, al momento guidato da Christian Mandura – ma indiscrezioni dicono che presto potrebbe esserci un avvicendamento. Anche qui la cucina è guidata dalla musica, i piatti veloci (anche se di stampo italo-mediterraneo) solo al bancone, il gioco non manca. La hit sono gli spaghetti serviti nudi e senza posate, su un piatto su cui è stato preparato il condimento. Mischiare bene con le dita, se possibile in modo educato, e prepararsi a essere fotografati.
![Unforgettable Torino](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/240905_Unforgettable_028_web.jpg)
Un piatto di Christian Mandura ad Unforgettable. Foto: Anna Donatello e Nicolò Nastasia
![Un piatto di Unforgettable](https://www.rollingstone.it/wp-content/uploads/2025/02/WhatsApp-Image-2025-02-08-at-18.48.15.jpeg)
Foto: Elisa Teneggi
Solo i monaci, insomma, mangiano nel silenzio. «Questo non è un trend, è la mia vita personale e professionale. Quella che vogliamo servirvi è una tragicommedia, perché il discorso che circonda il fine dining oggi è tragico, e fa ridere che si tratti di vite reali di persone reali». Questo lo dichiara Gaggan all’inizio della cena, durante uno dei molti momenti narrativi che intervalleranno le portate. «Alla fine, non vi preoccupate, arriverà il souvenir. Siamo in Thailandia, è un paese turistico, dobbiamo darvi un souvenir».
I lati della medaglia sono presenti entrambi, e riassumono Bangkok. Sottolineano la volontà di staccarsi da vecchi sistemi e ragionamenti ma anche di trovare un modo per giocare ai bordi il proprio campionato. Gaggan è una destinazione. Il fine dining è una destinazione, a Bangkok, e allo stesso tempo una tra le tante vie di costruzione di un’identità. Di chi frequenta, certamente, di chi cucina. Ma anche, ed è in sunto questo il senso della gastrodiplomacy, di una nazione.
È difficile raccapezzarsi, a Bangkok. L’unica cosa sicura è che, se un bandolo di questa matasse di bella confusione esiste, lo stringe proprio la città stessa, e tiene tutto insieme. Allora prendete, e mangiatene tutti. La diplomazia del cibo vuole di nuovo prenderci per la gola. E io non ho dubbi: ce la farà.