Se n’è andato Rino Dondi Pinton, scomparso il 1° marzo a 103 anni nella sua casa di Padova. Era uno degli ultimi romantici, lanciato contro la modernità ormai imperante del Dopoguerra, fatta delle calze di nylon e dal cibo in scatola dei soldati americani.
In controtendenza aveva lanciato l’ultimo prodotto mediacamentoso dell’industria liquoristica italiana. E anche se forse non ci pensava, sulle sue spalle inconsapevoli portava una storia millenaria cominciata con le crociate, passata dai giubilei e che tra falsi miti e ricerca scientifica ha alla fine veramente contribuito a salvare migliaia e migliaia di vite umane. Ma la sua storia e quella del suo prodotto, il Cynar, non è una parabola donchisciottesca, perché lui, a differenza della cavalleria polacca, ha evitato di infrangersi contro il muro della vita moderna. E anzi, proprio grazie all’aspetto più edonistico del suo prodotto alla fine ha trovato la soluzione al suo incessante logorio.
Distillati e medicina, una storia complessa a cui tutti noi dobbiamo molto
La storia dell’alcol e quello della ricerca medica coincidono in Europa fin dal momento zero, ovvero fin da quando dopo la prima crociata (1096-1099) i cristiani, nella Gerusalemme liberata, scoprirono strani strumenti di rame: gli alambicchi, utilizzati dagli Arabi per la loro ricerca alchemica volta alla purificazione della materia.
Il termine al-ambiq, che oggi associamo agli alambicchi, indicava originariamente un vaso conico da cucina, oggi noto come tajine, mentre “alcol” deriva dall’arabo al-khul, che significa “polvere impalpabile”. L’invenzione del primo alambicco moderno è attribuita a Jabir Ibn Hayyan, membro del movimento Al-Khimiya (da cui deriva il termine “alchimia”). Egli cercava la quintessenza, il quinto elemento oltre ai quattro postulati da Empedocle. L’alambicco fu poi migliorato da Al-Kindy, Avicenna e Rhazes, che utilizzavano la distillazione per ottenere sostanze medicamentose e aromi, come l’acqua di rose, anziché per fini edonistici visto che l’alcol, nell’Islam, non è consentito.
Il possimo passaggio: con la presa di Gerusalemme da parte dei crociati, i monaci Benedettini appresero queste tecniche e le portarono in quella che all’epoca era il più grande centro di ricerca scientifica della cristianità, ovvero la Scuola Medica Salernitana. Qui, lo studio delle piante e delle loro proprietà si unì alle nuove tecnologie arabe, e la distillazione si diffuse nei monasteri di tutta la penisola italiana e poi europea, dove piante e frutta venivano elevati in liquido per scopi curativi.
Storia di una fake news, dal Medioevo al Risorgimento
Un errore comune è confondere i distillati con i liquori e gli amari. I distillati sono il prodotto puro della distillazione, mentre gli altri sono ottenuti con l’aggiunta di zucchero ed estratti di erbe e spezie. Nel Medioevo le acque purissime e perfettissime, o quintessenze, erano prodotte esclusivamente dai monaci e utilizzate solo in ambito medico, data la complessità e il costo del processo.
Secondo la leggenda, nel 1300 Papa Bonifacio VIII, afflitto da una colica alla vigilia del primo Giubileo, fu curato dal medico catalano Arnaldo da Villanova con un infuso di erbe e radici in alcol, come documentato nel De aquis medicinalibus. Era nato il primo amaro, che si diffuse nei monasteri, dove si sperimentarono nuove ricette, che includevano sempre di più frutta e spezie volte solo allo scopo di dolcificare (lo zucchero dalle Americhe era ancora lontano da venire).
Altro prodotto strettamente legato a una leggenda curativa, il cui successo vive tutt’ora, è il Fernet (nonostante molti di noi lo identifichino con il più famoso dei brand, in realtà Fernet è una categoria merceologica come amaro, vermouth o liquore) che si distingue dai già citati amari principalmente per l’alto grado alcolico e la ricchezza di erbe aromatiche, come china, rabarbaro e genziana.
La parola “fernet” è legata alla storia leggendaria di un presunto rimedio del dottor Fernet, un medico svedese, il cui racconto subì trasformazioni nel corso del tempo. Quello che sappiamo per certo è che questo termine nell’Ottocento era utilizzato per commercializzare varie marche di prodotti affini.
Nel 1845 Bernardino Branca creò il Fernet Branca a Milano, combinando oltre quaranta erbe e spezie in una formula segreta. Il prodotto divenne popolare grazie all’epidemia di colera del 1867, quando fu promosso come rimedio terapeutico. Una pubblicità del 1877 ne esaltava le presunte virtù: «Il Fernet Branca estingue la sete, facilita la digestione, stimola l’appetito, guarisce le febbri intermittenti, il mal di capo, capogiri, mali nervosi, mal di fegato, spleen, mal di mare, nausee in genere. Esso è vermifugo-anticolerico».
Una strategia di marketing che porterà in breve tempo a una notorietà del prodotto che si porterà avanti per secoli, fino a ora, rendendola una delle fake news più riuscite di sempre.
Un prodotto che ha curato suo malgrado: il gin
L’antenato del gin fu inventato nel lontano 1658, in una farmacia di Leida (Olanda), dal dottor Franciscus de le Boë Sylvius che lo chiamò Jenever. Anche in questo caso il prodotto non era stato concepito per il piacere di bere, bensì a scopo curativo.
In effetti, l’intuizione non era sbagliata: le proprietà benefiche del ginepro erano già rinomate da tempo in tutta Europa, e De le Boë era talmente sicuro della bontà del suo rimedio da pretendere di curarci addirittura un terzo delle malattie esistenti al mondo. Il suo Jenever era usato come digestivo, tonico e coadiuvante per i reni affaticati dei ricchi mercanti olandesi di città, colpiti per esempio da gotta o reumatismi. E, a posteriori, non c’è da escludere che funzionasse davvero, in quanto il ginepro è un forte diuretico naturale.
Il successo commerciale del gin fu dovuto in parte anche alla celebre Compagnia delle Indie, che dal XVI secolo iniziò progressivamente a esportare e far conoscere il suddetto distillato nelle colonie, importando al contempo nuove piante e spezie nel vecchio continente. L’altro step fondamentale nella storia del gin ci porta invece in Inghilterra, a fine Seicento.
Qui il distillato d’Oltremanica ebbe subito un grande successo, ma l’impulso decisivo al suo sviluppo arrivò a fine secolo, più precisamente nel 1690, quando Guglielmo III d’Orange vietò l’importazione di spirit stranieri, incentivando di conseguenza la produzione interna e il sorgere di nuove distillerie che si dedicarono proprio alla sua fabbricazione. Il gin divenne così apprezzato da essere utilizzato come parte dello stipendio degli operai, oltre a venire integrato nella famosa “dieta” della marina britannica. Può sembrare controintuitivo, ma questa decisione salvò migliaia di vite.
Nel XVIII e XIX secolo, infatti, lo scorbuto era un problema diffuso tra i marinai della Royal Navy, che trascorrevano mesi in mare con una dieta priva di frutta fresca. Il chirurgo navale James Lind dimostrò nel 1747 che il consumo di agrumi preveniva e curava la malattia, portando all’introduzione del succo di lime come razione obbligatoria per i marinai britannici a partire dall’inizio del XIX secolo.
Per garantire la conservazione del succo di lime durante i lunghi viaggi si cominciò a mescolarlo con zucchero e alcol, dando origine al cordiale di lime. Questo sciroppo zuccherato divenne lo standard della marina e veniva spesso mescolato con il gin, la bevanda più comune a bordo. Questa combinazione salva vite è tutt’oggi ordinabile in qualsiasi cocktail bar del mondo, essendo diventato un cocktail classico dell’International Bartenders’ Association: il Gimlet. La sua invenzione è attribuita a Sir Thomas Desmond Gimlette, un medico della Royal Navy che, secondo alcune fonti, incoraggiava i marinai a mescolare il succo di lime con il gin per renderlo più gradevole e incentivarne il consumo.
Altra storia curiosa di gin e medicine che funzionano è quella che vede le truppe coloniali di sua maestà in India combattere con la malaria. Ebbene, l’unica cura conosciuta all’epoca era il chinino, tanto buono quanto amaro e difficile da mandar giù. Così entrò in gioco l’acqua tonica, creata nel 1783 da tal Johann Jacob Schweppe (il nome vi dice qualcosa?) con l’obiettivo di rendere il chinino più appetibile.
Anche in questo caso, mischiarlo con il gin parve fin da subito una buona idea per convincere le truppe britanniche a berlo, le quali a quanto pare seguivano lo stesso principio dello zucchero di Mary Poppins ma ad alte gradazioni, dando vita a quello che oggi è forse il cocktail più famoso al mondo, ovvero il gin tonic.

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Il futuro è ieri
Nel 1893, il dottor Costantino Gorini dell’Università di Pavia dimostrò l’inefficacia del Fernet nella depurazione dell’acqua, segnando la fine del suo utilizzo medico. Tuttavia, la bevanda aveva già raggiunto una notorietà tale da affermarsi come digestivo di culto. Ma era già dall’inizio dell’Ottocento, con l’avanzare della medicina e della chimica, che gli amari avevano cominciato a diventare obsoleti come cura.
Nel 1857, all’interno del primo manuale italiano di liquoristica, Nuovo ed unico manuale completo del distillatore liquorista di Valsecchi, già parla delle ricette di amaro introducendole come categoria merceologica ormai completamente votata al piacere del palato, e quindi scollegata dallo scopo medico. Certo, alcuni termini un po’ borderline resistettero e resistono per ancora decenni, fino ai tempi nostri, e parole come “tonico ricostituente” o “digestivo” a discapito di ogni ricerca empirica sono ancora stampate sulle etichette in commercio.
Proprio per questo l’idea di quest’ultimo alchimista, erede di monaci, medici e farmacisti, che nel 1948, mentre si fotografavano i satelliti di Saturno, si creavano ponti radio in microonde e si vendevano le prime Polaroid, si mette a studiare un liquore a base di carciofo perché la pianta è nota per le sue qualità digestive e depurative del fegato è a modo suo di un romanticismo incredibile.
E lo è ancora di più pensando che oggi quella verdura antiestetica che si crede un fiore, il cui nome si usa nel gergo comune quasi esclusivamente con connotati negativi, troneggia ancora sulle etichette, nonostante il passaggio dei decenni e l’acquisizione da parte di una multinazionale (Gruppo Campari).
Cynar continua a esistere e resistere in commercio, come un alligatore sotto il filo dell’acqua che guarda il mondo con gli occhi dell’ultimo dinosauro. E se tutt’ora è impossibile citarlo senza farsi tornare in mente l’immortale slogan “contro il logorio della vita moderna”, forse è solo capendo la storia di chi lo ha creato che possiamo coglierne veramente il senso più profondo. E forse, visto che ci ha lasciato a 103 anni, non possiamo escludere che un po’ di ragione l’avesse lui, in fondo.